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Che fare n.81 dicembre 2014 - aprile 2014

L'ordine capitalistico mondiale a guida Usa è ammalato. Dove conduce la cura messa in campo da Obama-Renzi?

Per organizzare la lotta contro il governo Renzi e contro il dispotismo delle direzioni aziendali, è vitale far tesoro di una verità a cui il governo Renzi e i padroni ricorrono giornalmente per persuadere i lavoratori della bontà delle loro ricette.

Qual è questa verità? Il fatto che le condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori in Italia sono condizionate da quello che accade sulla scena internazionale. Questa dipendenza conduce, però, a una conclusione politica molto diversa da quella promossa da Renzi e dal padronato.

Il governo Renzi e i padroni fanno leva su questa dipendenza per far accettare i loro piani come ineluttabili, per rafforzare nei lavoratori la paralizzante idea di doversi accontentare di quel che passa il convento borghese in Europa (dove almeno non ci sono guerre, attentati, malattie infettive incontrollabili) e per suscitare l’appoggio dei lavoratori d’Italia agli interventi della "comunità internazionale" nei teatri di guerra affinché, si dice, il "disordine di là non arrivi fin qui".

Anche per noi del "che fare" le vicende sindacali e politiche italiane sono strettamente legate a quello che accade sulla scena internazionale, all’andamento del mercato mondiale, alle guerre in corso alle porte dell’Europa. Questa dipendenza, se ben intesa, conduce, però, a una conclusione politica opposta a quella propagandata dal governo italiano, dai capitalisti e dai loro mezzi di informazione: conduce verso l’esigenza di mettere in pista una politica proletaria autonoma da quella del governo e da quella della Ue, da mettere in pista in collegamento con le lotte e le istanze di classe degli sfruttati degli altri paesi europei, degli Stati Uniti e del Sud del mondo. L’attacco contro i lavoratori in corso in Italia è, infatti, legato a una più generale offensiva lanciata dalle potenze capitalistiche occidentali, in testa gli Usa di Obama, dopo la crisi finanziaria occidentale del 2008. Questa offensiva, di cui il Jobs Act è un tassello, ha un triplice bersaglio.

Il primo bersaglio è costituito dalle masse proletarie del Sud e dell’Est del mondo, colpevoli agli occhi delle multinazionali e dei governanti occidentali di aver messo fine, con la mobilitazione e un’embrionale organizzazione sindacale, all’epoca della sottomissione silenziosa e dei salari da fame che tanta euforia aveva suscitato nelle borse mondiali. I mezzi di informazione ci hanno deliziato nel 2014 sulla mobilitazione "arancione" degli studenti di Hong Kong.

Quanto spazio mediatico, quanto rumore! Come mai gli stessi mezzi di informazione hanno parlato solo a denti stretti e con scarne notizie degli scioperi che i proletari cinesi ed asiatici stanno conducendo da più di un decennio? Come mai i loro padroni nel 2006-2007 boicottarono il codice sul lavoro, ritenuto troppo vantaggioso per i lavoratori, che, anche sotto la spinta degli scioperi e delle mobilitazioni, stavano varando il parlamento cinese e il governo cinese? Come mai, oggi, le imprese occidentali presenti in Cina fanno di tutto per aggirarne l’applicazione?

Il secondo bersaglio dell’offensiva dell’imperialismo è costituito dalle borghesie dei paesi emergenti e soprattutto da quella cinese. Per i padroni del mondo è inammissibile che esse vogliano emulare quello che le borghesie occidentali hanno fatto nell’ottocento e nel primo novecento, che vogliano continuare lo sviluppo capitalistico degli ultimi decenni e conquistare uno spazio sul mercato mondiale corrispondente alle dimensioni delle loro popolazioni e delle loro risorse, mettendo in discussione uno dei pilastri dell’ordine imperialistico a guida Usa: il dominio degli stati e delle imprese occidentali sul resto del mondo, la sottrazione ai lavoratori e alle borghesie del Sud del mondo a vantaggio dei forzieri dell’Occidentedi una quota consistente del cosiddetto "valore aggiunto" creato dal lavoro salariato nei paesi del Sud del mondo, giunto ormai al 40% di quello mondiale solo nei paesi di nuova industrializzazione.

Il terzo bersaglio è costituito dai lavoratori d’Occidente, contro cui le imprese e la finanza intendono rifarsi delle perdite subite a scala internazionale e a cui si stanno imponendo i tagli salariali, l’erosione del welfare e l’intensificazione della prestazione lavorativa che (insieme ad alcune innovazioni tecnologiche e alla diminuzione dei prezzi degli idrocarburi e al decollo dello shale gas Usa) hanno contribuito a rendere conveniente per il profitto il cosiddetto reshoring.(1)

La contraddizione di fondo

Pur se le potenze occidentali non sono pienamente concordi sui tempi e sui modi dell’offensiva che hanno intrapreso, essa ha riportato negli ultimi anni alcuni parziali successi.

Sia entro i loro confini che sul piano internazionale. Ne sono un’espressione lo sfondamento, pur contrastato da una mobilitazione proletaria, del Jobs Act di Renzi in Italia, il consenso registrato in settori della gioventù proletaria al Jobs Act e alle formazioni politiche di destra, la frantumazione del Medioriente in cantoni alla mercé delle potenze occidentali, le tensioni del Vietnam e del Giappone contro la Cina sotto l’incoraggiamento di Obama e del papa conquistador in visita in Corea del Sud, la disgregazione pro-occidentale dell’Ucraina, il vertice a Washington nell’agosto 2014 tra Obama, i rappresentanti di duecento multinazionali Usa e i dirigenti di cinquanta stati africani a sostegno della campagna d’Africa lanciata da Obama per contenere la presenza cinese in Africa e attrarre nell’orbita delle multinazionali statunitensi la gallina dalle uova d’oro della popolazione proletaria in più rapida crescita del pianeta, quella africana.(2)

Sono soprattutto gli Usa a trarre vantaggio da questi risultati, anche grazie all’aumento del saggio di sfruttamento della forza-lavoro registrato negli Usa (su cui ha aperto una finestrella la rivolta di Ferguson) e al parziale successo ottenuto dalla Casa Bianca nell’azzoppare la costruzione europea (con l’attizzamento della crisi ucraina e con il sostegno alle posizioni anti-Merkel della Francia di Hollande e dell’Italia di Renzi).

Questi parziali successi, tuttavia, non preparano alcun lieto fine, come vorrebbe la propaganda democratica negli Usa e quella democratica italiana. Essi non permetteranno di realizzare neanche la velenosa promessa che gli Usa e le potenze occidentali stanno rivolgendo ai lavoratori d’Occidente: "Se ci aiuterete ad imporre il nostro piano sulle borghesie e sui proletari del mondo emergente, qualche vantaggio arriverà anche a voi e potremo evitare di applicare fino in fondo contro di voi le politiche richieste dal rilancio dei profitti delle aziende in cui lavorate". I parziali successi incassati dall’offensiva dell’Occidente capitalista preparano, invece, l’acutizzazione delle tensioni esistenti nelle relazioni internazionali, l’accensione di nuovi incendi (soprattutto in Estremo Oriente), il ritorno delle fiamme di guerra nelle metropoli e il soffocamento degli stessi lavoratori d’Occidente sull’altare delle esigenze della competitività e dello scontro militare a difesa dei profitti del capitale occidentale.

A supporto di questa nostra previsione non vi è tanto l’instabilità (pur significativa) degli indici economici di per se stessi considerati (che in ogni caso segnano una crescita annuale, non di facciata, del prodotto interno lordo nel 2014 del 7,5% in Cina e del 3,1% a livello mondiale), quanto la contraddizione messa in luce recentemente (per un interesse di classe opposto a quello proletario) da uno dei gangster dell’imperialismo Usa, Kissinger, il segretario di stato di Nixon all’epoca dei bombardamenti al napalm sul Vietnam e del golpe di Pinochet in Cile, il convinto sostenitore nel 2003 dell’occupazione Usa-Nato dell’Iraq di Saddam Hussein.

Preoccupato di delineare la strategia con cui gli Usa potrebbero conservare la loro egemonia planetaria e puntellare il regime dello sfruttamento capitalistico mondiale(3), Kissinger è costretto ad accantonare le mistificazioni con cui gli analisti borghesi presentano di solito gli avvenimenti internazionali e a ricercare la radice del disordine che sta erodendo l’assetto internazionale uscito dalla seconda guerra mondiale. In uno dei suoi recenti scritti, egli afferma che questa erosione rimanda allo "scontro tra l’economia internazionale e le istituzioni politiche chiamate a governarla": "Il sistema economico è diventato globale e nello stesso tempo la struttura politica del mondo resta basata sulla nazione-stato. […]  L’ordine internazionale si ritrova pertanto di fronte a un paradosso: la sua prosperità dipende dal successo della globalizzazione [economica], ma il processo di globalizzazione scatena una reazione politica che spesso finisce con l’ostacolare le sue aspirazioni" (The New York Times, 9 settembre 2014).

Proprio così. Dopo 25 anni di mondializzazione del sistema capitalistico, il processo lavorativo che conduce alla confezione finale di un’automobile, di un televisore, di un treno, ecc. non si svolge più entro un circuito geografico-economico regionale o, al massimo, continentale, come è accaduto nel XX secolo. Da alcuni anni, la fabbrica che sforna una merce ha i suoi reparti in tutti i continenti. La scala del processo produttivo e la velocità dei collegamenti inter-continentali hanno raggiunto una dimensione tale che essa non è più compatibile con l’attuale assetto delle relazioni borghesi internazionali a guida Usa (dominato dal ruolo del dollaro come moneta mondiale e centrato sugli stati-nazione) entro il quale l’accumulazione capitalistica mondiale, pur tra rilevanti scosse sociali ed economiche, s’è dispiegata per tre quarti di secolo dalla seconda guerra mondiale.

La costruzione dell’Ue e la formazione in corso di tre grandi aree inter-continentali di libero scambio o di scambi agevolati sono il riflesso di questo epocale mutamento nel modo di produzione capitalistico. A spingere per due delle tre aree intercontinentali di libero scambio sono gli Usa, il Ttip con l’Ue e il Tpp con alcuni paesi asiatici. La terza area di cooperazione altrettanto inter-continentale, anche se dai confini ancora non definiti, è promossa dalla Cina, in parziale collaborazione con alcuni paesi latino-americani, africani e asiatici.

Queste tre direttrici di convergenza, che cercano di istituzionalizzare un contesto geografico ed economico meno soffocante dello stato-nazione per la catena produttiva capitalistica, non stanno, però, favorendo la graduale formazione di un ordine politico-istituzionale-monetario altrettanto internazionalizzato della vita economica. Tutto il contrario.

Scrive Kissinger: "Per la gran parte della storia recente, l’ordine mondiale era un ordine regionale. Siamo arrivati a un punto in cui ogni parte del mondo interagisce con le altre. Questo renderebbe necessario un nuovo ordine per il mondo globalizzato. Ma non ci sono regole condivise per giungere a questo risultato. C’è un punto di vista cinese, un punto di vista islamico, un punto di vista occidentale e, in un certo senso, un punto di vista russo. Ed essi non sono sempre compatibili"(4). Già: gli Usa vorrebbero forgiare un nuovo ordine planetario capitalistico corrispondente alla più ampia scala raggiunta dal grado di socializzazione delle forze produttive; poiché, però, gli Usa vorrebbero, nello stesso tempo, che questo ordine conservasse, su nuove basi, l’egemonia degli Usa e dei suoi alleati, la politica verso il nuovo ordine mondiale di cui le iniziative di Obama, con il suo codazzo renziano, sono il provvisorio supporto, dovrebbe ricacciare indietro miliardi di persone del mondo emergente, forze sociali proletarie e forze statali borghesi che non hanno alcuna intenzione di farsi ricacciare indietro e che, a differenza di quanto avveniva nei primi decenni del XX secolo, hanno la forza per non esserlo. Osserviamo al mappamondo le due aree di libero scambio Tpp e Ttip promosse da Obama: esse si configurano come una tenaglia contro la Cina, il cuore pulsante del mondo borghese e proletario emergente. Ammesso e non concesso che tutto fili liscio nei rapporti con i lavoratori entro i confini dei blocchi che essi intendono formare, gli Usa e l’Occidente imperialista hanno fatto i conti senza l’oste, borghese e proletario, del mondo emergente.

Da questo punto di vista, sono emblematici, sul versante proletario, il ciclo di scioperi in corso da anni nei paesi dell’Estremo Oriente o la lotta dei minatori sudafricani e il loro tentativo di costruire un’organizzazione politica meno legata dell’Anc alle compatibilità dell’ordine imperialista.

Sul versante borghese, sono sintomatiche la capacità e la volontà della classe borghese alla guida dello stato e delle imprese cinesi di portare avanti alcune iniziative economiche e diplomatiche vitali per la continuità della crescita cinese e velenosissime per l’egemonia degli Usa, di cui diamo un esempio, relativo solo all’ultimo anno, nel riquadro.

"Solo" (altre) guerre locali?

L’indisponibilità del proletariato dell’ex-Terzo Mondo e, su un piano diverso, della borghesia cinese ad accettare la riconfigurazione mondializzata dell’ordine capitalistico unipolare a guida Usa è uno dei principali sintomi delle forze sismiche che si stanno accumulando nel sottosuolo, che sono all’origine dell’attacco sferrato in Italia dal governo Renzi e che sono arrivate a farsi sentire persino attraverso l’analisi del macellaio Kissinger.

A parole questa analisi esclude "la guerra tra gli stati" e prevede invece, se non riuscirà il totalitario disegno statunitense, "l’evoluzione verso sfere di influenza contraddistinte da particolari strutture interne e forme di governo" con "guerre locali" al confine di queste sfere. Sì, probabilmente si comincerà così, si sta già cominciando con guerre locali al confine delle zolle tettoniche che si stanno formando (come stiamo vedendo in Ucraina e in Medioriente o come potrebbe accadere nel mare Cinese meridionale). Sì, si comincerà così, e poi?

Noi marxisti rivoluzionari, dall’altra parte della barricata, torniamo a ribattere che l’esperienza storica del XX secolo, confermando le previsioni della dottrina marxista, ha mostrato cosa succede quando il sistema capitalistico si mette su questa strada. Un esempio istruttivo si ebbe nel 1914.

Istruttivo anche nel senso che esso vide l’entrata in scena, anche se poi risultò sconfitta, dell’unica alternativa alla barbarie in cui il sistema capitalistico aveva scaraventato il mondo: quella della rivoluzione proletaria mondiale per il socialismo internazionale, l’unica prospettiva in grado di riconoscere, a beneficio dell’umanità, il carattere sociale delle forze produttive che il lavoro universale ha creato nel grembo antagonistico, e ormai anti-storico, del sistema capitalistico.

Se scrutiamo l’orizzonte internazionale, quindi, se colleghiamo le vicende di casa nostra con quelle degli altri continenti, giungiamo a una conclusione politica opposta a quella che Renzi vuole dare a bere ai lavoratori. Le lotte immediate che i lavoratori d’Italia sono chiamati a ingaggiare contro il governo Renzi e il padronato chiamano in causa e sono condizionate da questa posta più grande. Conquistarne la consapevolezza non è una fuga dalle difficoltà di mettere in pista una efficace lotta di difesa proletaria sperimentate di nuovo nell’inverno 2014-2015, ma è nutrire l’iniziativa sindacale e politica per superare queste difficoltà con una delle linfe di cui essa ha bisogno.

Note

(1) Sul reshoring, cioè sul "rimpatrio" (parziale) di alcuni segmenti produttivi dall’Estremo Oriente in Europa e negli Usa, vedi gli articoli "Gli Usa accelerano sulla manifattura" del Sole24Ore del 19 giugno 2014, "L’industria torna in Europa" del Sole24Ore del 21 marzo 2014.

(2) A questo fine gli Usa hanno utilizzato anche la malattia classificata con l’etichetta Ebola. Lasciamo stare se essa sia spontanea o pilotata dai soliti noti, lasciamo stare l’ipocrisia dell’informazione ufficiale che ingigantisce l’Ebola e stende il silenzio sulle condizioni sociali, indotte in Africa anche e soprattutto dalla dominazione occidentale, che ne favoriscono la diffusione, lasciamo stare questi e altri "dettagli": atto si è che nel 2014 la Casa Bianca ha trovato una nobile giustificazione nell’aiuto medico per inviare 3 mila militari in Africa occidentale.

(3) Kissinger: "Per svolgere un ruolo di responsabilità nell’evoluzione di un ordine mondiale per il ventunesimo secolo, gli Stati Uniti devono prepararsi a rispondere a un certo numero di domande su se stessi: che cosa siamo pronti a scongiurare, dovunque e comunque possa accadere, anche da soli, se necessario? Quale obiettivo vogliamo raggiungere, anche se non saremo appoggiati da nessuna azione multilaterale? Che cosa vogliamo ottenere, o evitare, solo ed esclusivamente con l’appoggio degli alleati? Quali coinvolgimenti dovremo evitare a tutti i costi, malgrado le sollecitazioni che ci provengono da alleati o da altre posizioni multilaterali? (…) Nel riesaminare le dure lezioni dei passati decenni, non bisogna dimenticare di rendere omaggio al carattere eccezionale dell’America. La Storia non offre scuse ai Paesi che rinunciano a difendere il loro senso di identità per ripiegare su un cammino meno faticoso. Ma la Storia non garantisce nemmeno il successo delle più nobili convinzioni, se manca una strategia geopolitica di vasto raggio" (Da The New York Times, 9 settembre 2014)

(4) Dal Der Spiegel, 14 novembre 2014. Nello stesso senso va anche il discorso sulla situazione mondiale pronunciato da Putin il 24 ottobre 2014, in occasione del Forum Internazionale del "Valdai Discussion Club", una fondazione nata nel 2011 ad opera del governo di Mosca e di alcune università russe, che si occupa del ruolo geopolitico della Russia nel mondo.

Che fare n.81 dicembre 2014 - aprile 2014

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