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Che fare n.82 maggio 2015 -novembre 2015

Il governo italiano afferma di correre in aiuto dei popoli africani. In cosa consista questo aiuto lo mostra meglio di tanti discorsi la luna di miele tra il governo Renzi e il regime di Al-Sisi.

Nel marzo 2015 si è tenuta a Sharm El-Sheik la conferenza per lo sviluppo economico egiziano. L’incontro, organizzato dal generale Al Sisi, aveva lo scopo di favorire il rilancio dell’Egitto nel panorama economico e politico internazionale e di dimostrare come il paese delle piramidi, con il ritorno al potere dei militari, sia tornato ad essere un luogo "sicuro e attraente" per gli investitori internazionali a caccia di grossi e buoni affari.

La delegazione italiana è stata capeggiata dal presidente del consiglio Renzi, unico capo di governo europeo direttamente presente. Renzi ha nuovamente appoggiato la politica "normalizzatrice" di Al Sisi in Libia, ha elogiato il lavoro compiuto dal 2013 da Al Sisi contro il moto popolare e proletario che nel 2011 aveva cacciato il regime di Mubarak, ha benedetto una sequela di contratti firmati (anche e soprattutto grazie a questa "ritrovata stabilità") tra le aziende italiane e il governo e  le imprese egiziane.

L’Eni ha stipulato un’intesa che prevede un investimento di circa 5 miliardi di dollari nel prossimo quinquennio in campo energetico. L’Ansaldo e l’Italcementi saranno impegnate nella costruzione di impianti finalizzati alla produzione di energia eolica. La Fincantieri è in pole position per la realizzazione di una grande piattaforma petrolifera (un affare da 800 milioni di dollari). Il gruppo D’Appolonia s’è ben posizionato nei lavori di costruzione dell’hub industriale, logistico e portuale collegato al triangolo minerario Qena-Safaga-Quseir nell’Egitto meriodionale. Il tutto mentre varie grandi aziende "nostrane" sono entrate in lizza per partecipare ai lavori (al momento solo preventivati) per il raddoppio del Canale di Suez. Nei loro affari le aziende italiane potranno godere del vantaggioso regime fiscale e amministrativo operante nelle zone economiche speciali che il governo egiziano vuole estendere e ampliare, e, soprattutto, dell’abbondante forza lavoro a buon mercato (si va dai 100 ai 300 dollari mensili) che, grazie al terroristico regime militare e poliziesco di Al Sisi (il Jobs Act in versione egiziana), è al momento diventata più ricattabile e meno organizzata.

L’ex-ambasciatore Sergio Romano ha commentato: "[Con Al Sisi] vi è il rischio di un regime maggiormente militarizzato. Ma non credo che le democrazie occidentali abbiano molte scelte. Se vogliono evitare che l’Egitto, come altri Paesi della regione, divenga ingovernabile, il loro interlocutore, almeno per il momento, è Al Sisi" (Il Corriere della Sera, 15 dicembre 2014).

La cinica ammissione, da un punto di vista democratico, non fa una piega. E se, sempre dalle colonne dello stesso quotidiano, un altro giornalista (Venturini, 17 maggio 2015) ricama sulle esagerazioni di Al-Sisi (ad esempio nell’eseguire la condanna a morte per Morsi), lo fa solo perché gli interessi borghesi a cui tutti e due gli editorialisti rispondono, non possono accettare che l’Egitto si allarghi troppo in Libia, montandosi la testa con una zona di propria influenza. "La Libia (tutta la Libia) a noi!", questo è il motto della repubblica italiana, degna erede del colonialismo fascista.

Che fare n.82 maggio 2015 -novembre 2015

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