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Che fare n.82 maggio 2015 -novembre 2015

Dietro la politica di "distensione" di Obama verso Cuba e verso l’Iran

Obama "tende la mano" a due degli stati che gli Usa hanno per decenni classificato come "stati canaglia": Cuba e Iran. Cosa sta a indicare questa "svolta" nelle relazioni internazionali? Un riconoscimento (pur tardivo) delle colpe degli Usa? La disponibilità degli Usa a cooperare per la prosperità del Sud del mondo?

Il 17 dicembre 2014 Obama ha annunciato la ripresa delle relazioni diplomatiche degli Usa con Cuba. Erano state rotte nel 1960-1961 in risposta alla rivoluzione castrista. Il presidente degli Stati Uniti ha dichiarato che il suo intento è quello di abolire l’embargo commerciale introdotto contro Cuba dal 1960, di stabilire una proficua collaborazione economica tra i due paesi (ad esempio nelle comunicazioni, nel turismo, nell’agricoltura), di liberalizzare i viaggi tra i due paesi e di favorire il reinserimento di Cuba nel circuito bancario internazionale. Nell’aprile 2015, al VII vertice delle Americhe, Obama ha suggellato l’apertura stringendo la mano a Raoul Castro. L’inizio della distensione tra gli Usa e Cuba si è accavallata alla firma del pre-accordo sul nucleare tra gli Usa (affiancata da altre cinque grandi potenze) e l’Iran. Anche in questo caso, la Casa Bianca ha dichiarato l’intenzione di abolire l’embargo introdotto in risposta alla rivoluzione iraniana del 1979, se l’Iran applicherà l’impegno assunto di interrompere il suo programma di sviluppo dell’arma nucleare.

Con questi due passi diplomatici l’imperialismo Usa riconosce di non essere riuscito a piegare il popolo cubano e quello iraniano con le mi minacce, con l’embargo e con le mano mano-vre tramate per decenni in combutta con gli oppositori filo-occidentali interni ai due paesi. Sappiamo che gli sfruttati di Cuba e dell’Iran salu salutano la "distensione" con il "Gringo - Grande Satana" con un respiro di sollievo e se ne aspettano un miglio miglioramento delle loro critiche condizioni di esistenza. Comprendiamo questi sentimenti, ma non per questo noi del "che fare" riteniamo che le due aperture diplomatiche statunitensi siano un indebolimento della potenza capitalistica Usa o un progresso per la lotta antimperialista dei popoli del Sud del mondo. Non lo sono perché gli accordi in via di definizione e le loro conseguenze allargano gli spazi a disposizione dei borghesi cubani e iraniani per riprendere il pieno controllo politico della situazione (a vantaggio proprio e dei loro tutori occidentali), convincere "democraticamente" gli sfruttati di Cuba e dell’Iran della convenienza a ritornare all’ordine rispetto agli eccessi passati e, soprattutto, della convenienza a prendere le distanze dai destini e dalle lotte dei fratelli di classe delle rispettive aree. Quest’ultimo punto è cruciale: il segno politico dei due accordi non può essere messo a fuoco senza considerare i "contesti regionali" in cui sono inseriti Cuba e l’Iran. L’America Latina e l’ascesa della potenza capitalistica cinese. Dell’area mediorientale abbiamo discusso nei numeri precedenti del "che fare". Per l’America Latina va tenuto presente il vento di cambiamento politico che l’ha investita dall’inizio del XXI secolo. Dall’ Dall’Argentinazo alla vittoria popolare in Bolivia contro il macellaio Sanchez de Lozada, al consolidamento del bolivarismo in Venezuela, alla vittoria elettorale del chavista Correa in Ecuador, al ritorno al governo dei sandinisti in Nicaragua, l’America Latina è riuscita ad allentare la tradizionale presa della piovra Usa sul continente.

Vi è riuscita grazie all’intreccio di due spinte sociali e politiche. Da un lato, quella delle frazioni nazionali delle borghesie latinoamericane. Dall’altro lato, quella che ha visto e vede protagonisti gli operai, i contadini poveri, i diseredati latinoamericani. La prima non è arrivata a costituire (non potrà mai farlo) un fronte capace di con contrattare unitariamente con gli Usa, come pure, a parole, ci si è proposti in alcune dichiarazioni programmatiche. Per l’imperialismo non sono, però, accettabili neanche le limitate iniziative prese per ampliare appena un po’ la ricchezza destinata allo sviluppo capitalistico nazionale e quelle per avviare alcuni coordinamenti regionali. (1) Per l’imperialismo questa trama non va, perché essa limita il suo bottino. Non va perché, soprattutto, la politica di resistenza borghese nazionale, a sua volta articolata in una  versione più moderata e pragmatica (quella del Pt brasiliano) e in una versione più sfrontata e radicale (quella bolivarista), si è intrecciata e si intreccia con la crescita di una resistenza di massa degli sfruttati: negli ultimi venti anni, tra i metalmeccanici e i senza terra brasiliani, i piqueteros argentini, i contadini e i minatori boliviani, i diseredati dei barrios di Caracas, gli indios andini è cresciuto il sentimento di vicinanza reciproca e la speranza di poter finalmente affrancare insieme il continente, prima di tutto dal Gringo nordamericano. Questo sentimento si fa sentire anche tra gli immigrati latinoamericani negli Usa.

Per l’imperialismo, poi, tutto questo non va perché i due piani (oggettivamente antagonisti tra loro) di resistenza, quello borghese e quello proletario, hanno favorito la penetrazione in America Latina del capitale cinese e il rafforzamento di un processo planetario che sta minando la stabilità dell’ordine capitalistico a guida Usa. Questo processo ha il suo motore nella mondializzazione capitalistica decollata nell’ultimo decennio del XX secolo, di cui è un aspetto cruciale la tumultuosa industrializzazione dei paesi emergenti e la formazione in tali paesi di un gigantesco proletariato industriale. Questo processo ha permesso al sistema capitalistico di rimandare la crisi sistemica incui il capitale si stava impantanando durante gli anni settanta, ma con il passare degli anni ha anche consolidato due spinte sociali non funzionali ai profitti e ai sogni delle multinazionali, delle borse e delle diplomazie occidentali. Da un lato quella delle borghesie emergenti, e soprattutto della borghesia cinese, mirante a mantenere nelle sue tasche una quota troppo ampia per i gusti imperialisti della ricchezza estorta al proletariato asiatico e terzomondiale (il 50% di quello planetario) e a modificare la tradizionale gerarchia internazionale tra gli stati borghesi. Dall’altro lato, quella dei giovani proletariati dei paesi emergenti, e soprattutto di quello cinese, mirante a condizionare lo sviluppo capitalistico nazionale e la distribuzione della ricchezza prodotta dalle loro mani in modo da avvicinare le loro condizioni di vita e di lavoro agli standard occidentali. L’imperialismo vuole funzionalizzare completamente a sé la mondializzazione capitalistica e tagliare le ali alle aspirazioni delle borghesie emergenti e degli sfruttati dell’Asia, dell’America Latina e dell’Africa.

La classe dirigente Usa ritiene che, per ottenere questo risultato, occorra picconare la Cina, quella borghese e, su un piano diverso, quella proletaria. E che occorra affrettarsi, visto che, pur in presenza di un tasso di sviluppo inferiore (7%) a quello dei decenni precedenti, la Cina continua a rafforzarsi, a modernizzare il suo apparato industriale, a risalire la "catena del valore" nei settori avanzati a più alto valore aggiunto, a consolidare istituzioni finanziarie internazionali parallele a quelle a guida occidentale (Bm e Fmi), a ramificare le sue alleanze economiche internazionali.(2) Nel 2014 sono decollate due delle iniziative messe in cantiere dalla classe dirigente cinese per portare avanti la "lunga marcia" del capitale cinese: la via della seta terrestre del XXI secolo, verso l’Asia centrale, il Pakistan, l’Iran e di qui verso l’Europa e l’Africa; la via della seta marittima del XXI secolo, verso l’America Latina, sia verso la sua costa orientale che, attraverso il canale di Nicaragua in costruzione, verso la sua costa occidentale.

La Cina di oggi non è quella della dinastia Qing.

La Cina di oggi non è, però, la Cina del XIX secolo. Non basta, per picconarla, qualche cannoniera, come accadde al tempo delle guerre dell’oppio. Non bastano neanche, però, come è emerso dal fallimento della strategia neocons nel 2007-2008, gli strumenti usati nel secondo dopoguerra per mantenere l’ordine planetario a stellestrisce, le flotte termonucleari, i ricatti finanziari, la corruzione di ristrette élites dei paesi controllati e dominati, i golpe orditi dalla Cia. Di qui l’ambizioso programma obamiano di costruire una Santa Alleanza Democratica tricontinentale con una base di massa proletaria e popolare con cui fronteggiare la forza economica, demografica e geopolitica della Cina. Di qui il tentativo di Obama di allargare il consenso interno al "sogno americano" anche con provvedimenti parziali e miserrimi e tuttavia reali come la riforma sanitaria e la moderata sanatoria per 5 degli 11 milioni di immigrati clandestini (in larga parte latinos) negli Usa. Di qui il tentativo obamiano di cedere qualche leva del potere planetario tradizionalmente gestita dalla triade Wall Street, Casa Bianca e Pentagono alla Germania (a patto che Berlino abbandoni il progetto di un polo imperialista europeo alternativo agli Usa), al Giappone e finanche alla Russia, messa oggi nell’angolo per ridurla a più miti consigli e integrarla, al posto che secondo Washington le compete, nella gerarchia della Santa Alleanza Democratica in costruzione. Di qui il tentativo obamiano di cedere spazi economici e diplomatici in sub-appalto alle classi dirigenti di alcuni paesi controllati o emergenti in America Latina (Cuba, Brasile) in Medioriente (Iran), in Asia (Vietnam e India), purché queste classi dirigenti taglino i ponti con la Cina, sfilaccino il sentimento di empatia che dall’inzio del XXI secolo, pur se dietro a bandiere borghesi, è cresciuto tra gli oppressi dell’ex-Terzo Mondo, convoglino le aspirazioni delle masse lavoratrici dei loro paesi nella crociata contro l’ascendente potenza capitalistica cinese, presentata dai mezzi di informazione dei colonialisti di ieri e di oggi come il nuovo satana colonialista. Di qui l’apertura di Washington, ancora condizionata, a Cuba e all’Iran, e, nello stesso tempo, l’isolamento dei "cattivi" come il Venezuela di Maduro, che osa esportare ogni anno mezzo milione di barili di petrolio al giorno in Cina, siglare accordi di cooperazione con Pechino per decine di miliardi di dollari e opporsi al colpo di stato democratico ordito nel 2014 dagli Usa e dai suoi manutengoli borghesi venezuelani.

La coincidenza temporale è significativa. Il 17 dicembre 2014 c’è l’apertura di Obama a Cuba. Il giorno successivo gli Usa votano un ordine esecutivo contro il Venezuela di Maduro, reo di calpestare, secondo la Casa Bianca, i diritti umani con la mano dura usata contro l’opposizione filo-Usa venezuelana. Maduro, dichiara Obama, è una "insolita e straordinaria minaccia per la sicurezza nazionale e per la politica estera degli Stati Uniti". Il governo venezuelano, ingiunge Obama-Obomba, deve liberare i prigionieri politici, tra cui Leopoldo Lopez. Passa qualche mese e alla vigilia del VI congresso delle Americhe e della stretta di mano con Raoul Castro, Obama traduce l’ordine esecutivo in sanzioni ai danni di sette dirigenti venezuelani accusati di essere direttamente implicati nella repressione.

L’offerta di pace verso Cuba e la stretta contro il Venezuela si sorreggono a vicenda. Cuba va irretita, il Venezuela va messo all’indice. Anche al prezzo di rimandare, per il momento, l’incasso immediato in termini di spoliazione degli sfruttati. Questa potrebbe essere, in parte, dilazionata, dopo aver affondato il versante latinoamericano della rete borghese di stampo revisionista che la Cina è riuscita a tessere intorno al proprio sviluppo capitalistico. Obama "apre" a Cuba per contrapporre Cuba, il popolo cubano e la simpatia verso Cuba degli oppressi latinoamericani al Venezuela, al sentimento bolivarista delle masse sfruttate venezuelane, al ruolo che la "rivoluzione bolivariana sta svolgendo nello scontro antimperialista in America Latina, per inserire un cuneo nei Caraibi sulla rotta che la Cina sta costruendo tra le sue coste e l’America Latina occidentale (Venezuela e Brasile e Argentina). L’imperialismo si avvale, come al solito, dell’aiuto del papa e della Chiesa di Roma, a cui la provvidenza capitalista ha assegnato un papa argentino, dopo aver fatto ascendere un papa polacco quando il competitore strategico era l’Urss.

Si consolidi oppure venga interrotta dall’opposizione che essa incontra nella stessa classe dirigente Usa e in quella di importanti alleati come Israele e l’Arabia Saudita (3), la strategia di Obama è un’aggressione rivolta agli sfruttati del Sud e dell’Est del mondo. Presentare la normalizzazione delle relazioni tra Cuba e gli Usa come un passo verso la distensione e la cooperazione Nord-Sud, come sta facendo il gruppo dirigente cubano, significa cauzionare la morsa di Obama sugli sfruttati dell’America Latina (e degli altri continenti). Nello stesso senso va il richiamo rivolto dal presidente del Brasile, Roussef, a Maduro affinché in Venezuela si rispettino i diritti umani, cioè i diritti dell’imperialismo e dei suoi manutengoli locali a mettere la museruola alla resistenza popolare bolivariana.

L’unità interclassista con le borghesie "patriottiche" lega e affossa la lotta antiimperialista.

La borghesia brasiliana, la più potente del continente, guarda con favore all’apertura di Obama, spera di far fruttare verso di essa il suo flirt con la Cina e nello stesso tempo intende usare nella contrattazione con la Cina il "somos todos americanos" di Obama. Questo fetido mercato politico può riuscire o, quantomeno, può essere tentato, se si moderano gli eccessi dell’ala borghese nazionale latinoamericana più grintosa, quella venezuelana, se il suo bolivarismo transcontinentale rimane sulla carta e non si azzarda ad immischiarsi negli affari politici degli altri paesi (4) e se, anche attraverso ciò, si irregimenta entro gli steccati nazional-patriottici dei singoli stati e delle trattative tra stati, in Brasile e nel resto del continente, la spinta classista proletaria che si è agitata negli ultimi vent’anni. Di qui il nauseante predicozzo dell’exguerrigliera "rossa" Roussef verso Maduro al VII congresso delle Americhe, la sua offerta di mediazione per una pacifica composizione del conflitto in Venezuela. Gli sfruttati cubani e latinoamericani hanno interesse a respingere questo mercato politico.  Il che non significa che non devono interferire nella vita politica del Venezuela e degli altri paesi sudamericani, ma, al contrario, che devono intervenirvi in senso opposto a quello voluto dalle proprie classi dirigenti, sostenendo la resistenza proletaria contro i golpisti, approfittando dell’occasione per rafforzare i collegamenti sovrannazionali e svincolare la lotta antimperialista  dalle ipoteche portatevi dall’unità patriottica interclassista. Comprendiamo il sospiro di sollievo tirato dai lavoratori cubani e iraniani, ma la realtà va guardata in faccia e affrontata nell’unico modo possibile: non moderando la resistenza, non facendosi legare le mani dagli impegni presi dai rispettivi governi nell’applicazione degli accordi, non allentando i legami con gli sfruttati dell’area ma anzi rafforzandoli, preparandosi ad affrontare le esche e gli attacchi aperti che verranno sferrati dall’imperialismo. Per accodarsi, in America Latina, ai Maduro? No.

Per sostenere fino in fondo la spinta di classe che è incapsulata entro la bandiera bolivariana, per favorirne lo svincolamento dall’ipoteca borghese, dalle tergiversazioni di Maduro, che, mentre tenta di resistere ai piani golpisti, nello stesso tempo regola i conti con l’ala più radicale del movimento bolivariano. Per far emergere che gli sfruttati venezuelani e terzomondiali possono contare solo sul proletariato occidentale e non sulle alleanze trasversali tra le borghesie nazionali e tra queste con l’ala "buona" dei paesi imperialisti.

L’ostacolo maggiore su questo percorso sta nella nullità politica del proletariato delle metropoli. Che i lavoratori più avanzati dell’Europa e degli Usa comincino ad aprire gli occhi sul senso delle iniziative di pace imperialiste, denuncino la sostanza di classe delle "rivoluzioni democratiche" organizzate dall’imperialismo nei paesi scomodi e mostrino come questa politica sia tutt’uno con quella portata avanti contro di loro in Europa e negli Stati Uniti.

 Note

(1) Nel 2004 Chavez e Castro pro promuovono l’Alba. Nel 2012 il Venezuela è ammesso nel Mercosur.

(2) Si veda ad esempio il dossier pubblicato sul settimanale The Economist del 14 marzo 2014.

(3) Vedi ad esempio l’articolo di Michele Giorgio su il manifesto del 27 marzo 2015 dal titolo "Sotto tiro l’accordo Usa-Iran sul nucleare. Le petromonarchie e Israele mai così vicine."

(4) Tanto per dire. Il governo venezuelano non solo concorda intese con alcuni paesi latinoamericani, ma osa intromettersi persino nella vita sociale e politica degli Usa, finanziando un programma di interventi di assistenza nei quartieri  abitati da immigrati e afro-americani delle città statunitensi. Il governo venezuelano è stato, inoltre, una delle pochissime voci a denunciare nel 2011 il senso neocolonialistica dell’aggressione alla Libia. Per la "razza padrona" del mondo, davvero un atteggiamento insopportabile!

Pubblichiamo nella pagina sul giornale (che potete osservare nel formato pdf) due foto. Una della manifestazione del Primo Maggio 2015 a Cuba. L'altra di una manifestazione dei lavoratori dell’industria petrolifera di stato venezuelana contro il tentativo di golpe democratico ordito nel 2014 dagli Usa, dalla Ue e dai compradores  venezuelani. Il tentativo di golpe è stato dispiegato secondo il copione già collaudato, con le va varianti legate alle specificità locali, in Ucraina e in Libia. Come al solito, l’informazione ufficiale ha dato man forte all’operazione. Non è mancata tuttavia qualche nota stona stonata. Ispirati dall’obiettivo di richiamare l’Europa a curare i suoi imperialistici interessi in America Latina con una politica meno allineata a quella di Washington, alcuni articoli su Le Monde Diplomatique - il ma manifesto hanno lasciato intravedere il senso effettivo della "rivoluzione" venezuelana così coccolata dalle democrazie occidentali. Segnaliamo la lettera di F. Lemoine del 19 aprile 2014 al garante per Le Monde Monde, l’editoriale di I. Ramonet sul numero di marzo 2014 e l’articolo di A. Vigna "Fare la spesa a Caracas" sul numero di novembre 2013.

Che fare n.82 maggio 2015 -novembre 2015

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