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Che fare n.82 maggio 2015 -novembre 2015

Ragionando sulla proposta di

"coalizione sociale" di Landini

 

Il Jobs Act è stato approvato. Sulla scia di questo risultato, il governo e i padroni intendono assestare altri colpi contro i lavoratori.Il governo Renzi vuole procedere sia sul versante interno, con le riforme istituzionali e la "Buona Scuola", che su quello esterno, ad esempio con il nuovo intervento neo-coloniale in Libia. Il presidente della Confindustria dichiara intanto che i contratti nazionali hanno fatto il loro tempo anche al di fuori del pianeta Fiat. Come arginare la politica del governo Renzi e del padronato? Come promuovere il lavoro sindacale e politico posto all’ordine del giorno dall’offensiva capitalistica? Può  andare bene, in tal senso, la proposta della "coalizione sociale" di Landini?

La proposta di Landini parte da una constatazione: la sinistra parlamentare non vuole e non ha la forza di occuparsi della tutela dei diritti dei lavoratori. È così. Il comportamento del governo e del parlamento di fronte alle proteste dei lavoratori contro il Jobs Act ha rivelato una volta di più che il parlamento è sordo alle esigenze dei lavoratori, ma anche e soprattutto che le decisioni si prendono al di fuori del parlamento e che l’esecutivo è il terminale operativo di un potere borghese che si afferma e si dispiega nella "società civile".

Negli ultimi anni questa caratteristica intrinseca del funzionamento del sistema capitalistico si è rafforzata: il potere sui mezzi di produzione e sull’apparato statale al servizio dell’appropriazione capitalistica si è accentrato e nello stesso tempo ha consolidato la sua capacità (spontanea e soggettiva) di disgregare e mettere in concorrenza il mondo degli sfruttati.

Le riforme istituzionali in corso di approvazione riflettono e assecondano questo processo. Discende da qui, per noi, una conclusione cruciale, con cui la realtà chiama i lavoratori più combattivi a fare i conti: per bilanciare il potere extra-parlamentare del padronato e delle sue istituzioni politiche, i lavoratori non possono operare che sullo stesso terreno dei capitalisti, quello dei rapporti di forza. Ma se questo è vero, che senso ha allora indirizzare sul terreno elettorale del referendum abrogativo del Jobs Act e/o della riforma Fornero, come propone il gruppo dirigente Fiom, le energie dei lavoratori disposti a una militante attività sindacale? Al referendum abrogativo non voterebbero quei padroni, quei ceti medi che avrebbero voluto un Jobs Act ancor più duro? Non voterebbero anche, come semplici cittadini, i lavoratori che, per causa di forza maggiore, oggi si illudono di potersi difendere solo insieme al rilancio della competitività delle aziende, rilancio che, a sua volta, richiede la libertà di licenziamento sancita da Renzi?

Il rampante berluschino di Firenze è odioso e menzognero, ma non inventa tutto quando dice che i lavoratori sono con lui e non con chi vuole opporsi al Jobs Act. Lo abbiamo visto nel 2014 e nel 2015 in occasione delle elezioni delle Rsu negli stabilimenti italiani della Fiat, dove i lavoratori, sotto il ricatto della direzione aziendale e della concorrenza interna e internazionale, hanno votato per i sindacati filo-aziendali. Lo hanno denunciato amaramente alcuni interventi all’assemblea della Fiom di Cervia del 27-28 febbraio 2015: essi hanno raccontato che molti lavoratori, anche iscritti alla Fiom, per paura di essere lasciati a casa o per integrare il salario insufficiente, sono disposti allo straordinario e a rincorrere la trappola degli incentivi aziendali sull’intensificazione e sull’allungamento dell’orario di lavoro. "C’è troppa concorrenza tra i lavoratori", ha osservato un delegato a Cervia: "Gli istinti più bassi stanno tornando a galla, in alcune fabbriche si mangia lavorando e non si vede più chi è il vero nemico". La difficoltà è emersa anche nella ridotta partecipazione della base Fiom alla manifestazione, indetta da Landini, del 28 marzo 2015. Questo atteggiamento dei lavoratori non è definitivo, non è il segno che essi sono perduti alla lotta di classe, che sono rassegnati alla condizione di schiavi salariati. Essi sono mossi dall’istinto di ridurre i danni e di porre le condizioni per un domani diverso. Si illudono di poterlo fare legandosi al carro delle aziende ed è sullo scarto esistente tra questa illusione e il calice amaro che il capitale obbligherà gli sfruttati a trangugiare, che si apre lo spazio per un lavoro sindacale e politico tra i lavoratori capace di ribaltare, in prospettiva, l’egemonia esercitata tra di loro dalla politica padronale. Questo lavoro politico è smobilitato dalla piattaforma programmatica su cui, secondo la direzione della Fiom, dovrebbe basarsi la "coalizione sociale": la realizzazione dei principi fondamentali della Costituzione.

La Costituzione nell’era del capitale mondializzato

Il principio fondamentale della costituzione repubblicana è quello dello sfruttamento del lavoro salariato, è la dipendenza dei diritti e degli spazi concessi al lavoro salariato dalla prosperità e dalle esigenze dell’economia capitalistica.(1) Per un’intera fase storica del novecento, questa prosperità è stata compatibile con l’ampliamento dei diritti dei lavoratori. I lavoratori sono riusciti ad ottenerlo entro il quadro dello sviluppo capitalistico, a forza di vere lotte di classe, grazie al monopolio del lavoro industriale concentrato nelle proprie mani di fronte a un capitale che non disponeva delle condizioni tecnologiche e sociali per la mondializzazione della produzione industriale. Quella fase è terminata. Nel 1950 il 75% della produzione industriale mondiale era concentrata in Occidente. Oggi tale quota si è ridotta al 40% e si è formato un mercato del lavoro mondializzato che, come denuncia anche Landini nei suoi interventi, sta permettendo ai padroni e alle istituzioni statali al loro servizio di scompaginare l’organizzazione di difesa costruita nei due secoli precedenti in Occidente e di ridurre il potere di condizionamento dei lavoratori sulla politica dei governi repubblicani. In conseguenza e a sostegno di questo processo, la repubblica borghese, in coerenza con la sua finalità, oggi si blinda, per svolgere il ruolo di sempre, quello di dittatura borghese al servizio del profitto.

Non si sfugge a questa conclusione neanche se le aziende italiane, nell’ambito di una coerente politica europeista di investimenti infrastrutturali, si spostassero tutte sui settori tecnologicamente più avanzati. Se il tritacarne che sta erodendo le conquiste dei lavoratori in Europa e che sta generalizzando la condizione di precarietà fino a qualche decennio fa riservata "solo" a un settore della classe proletaria europea è, come sembra riconoscere lo stesso Landini, la concorrenza tra i lavoratori dei diversi paesi e continenti, questa concorrenza viene, forse, meno se un numero maggiore delle imprese italiane si sposta sui settori a più alto valore aggiunto?

Non incalzano, forse, anche in questi settori le imprese Usa e quelle dei paesi emergenti? Non dice nulla l’acquisto da parte della ChemChina della Pirelli? E ancora: per far carburare le aziende in questi settori avanzati, non occorre, forse, disporre di capitali liquidi giganteschi? Tali capitali non possono essere rastrellati solo con il "sano" profitto industriale. L’accumulazione di tali risorse richiede anche la partecipazione alla rapina planetaria che si avvale della possibilità di spostare somme colossali di denaro da una parte all’altra del mondo alla ricerca del paese in cui è stato introdotto il "Jobs Act" più favorevole per il padronato o del paese del Sud del mondo in cui l’Al-Sisi di turno ha ricondotto all’ordine le "intemperanze" proletarie indigene. La finanza e la speculazione finanziaria non sono un corpo estraneo al capitale industriale ma il suo inseparabile alter ego. E quindi: puntare a farsi largo nei settori tecnologicamente avanzati, non sarebbe un altro modo per rilanciare quel tritacarne, la concorrenza tra i lavoratori dei diversi continenti, che, nelle stesse parole di Landini, sta ricacciando indietro i lavoratori delle metropoli?

Per questo noi affermiamo, senza dover attendere una nuova prova provata, che l’effetto della piattaforma costituzionale proposta da Landini sulle stesse forze che la sostengono è quello della demoralizzazione e dell’impotenza di fronte alla frantumazione indotta dal mercato. È questa la lezione che emerge anche dall’esperienza politica che, recentemente, ha presentato caratteristiche simili a quelle della "coalizione sociale" di Landini: l’esperienza di Rifondazione Comunista.

Il "modello" Rifondazione

Pur sostenuto, ai suoi esordi, nella sua base militante, dal sentimento classista di opporsi alla smobilitazione occhettiana, l’orizzonte riformista togliattano che è stato l’architrave di Rifondazione Comunista ha condotto alla deriva le energie proletarie che vi si erano organizzate. La ricerca dell’intesa con la borghesia progressista, la coazione a ripetere di "riaggregare" i cocci della "sinistra" su un terreno via via più sbiadito e moderato di corsa al centro politico hanno spompato energie militanti proletarie e hanno lasciato alla giovane generazione che si è avvicinata un’educazione prona al liberalismo, al compatibilismo, all’anti-partitismo. Consapevole o meno poco importa, Landini si riconnette a questa prospettiva fallimentare. Fu fallimentare perché mal diretta dal timoniere Bertinotti?

Ma Bertinotti ha semplicemente svolto con coerenza le premesse del duo Cossutta-Garavini (presidente e segretario dei primi anni di vita di Rifondazione Comunista), adattandole alla fase storica del post-ottantanove e portandole al loro coerente approdo: il ricongiungimento, suggellato dall’elogio ai marines italiani in Libano da parte di Bertinotti assiso sullo scranno della presidenza della Camera, con i discendenti diretti di Occhetto, il segretario che benedisse la trasformazione del Pci in Pds.

Proprio per questo l’orizzonte costituzionale, la rincorsa di un fantomatico padronato progressista e di un patto tra produttori, l’illusione di poter comporre gli interessi proletari e quelli dei lavoratori se solo il capitalismo fosse diverso da quel che è e non può che essere, conducono, se applicate con coerenza, al programma di Renzi e, su un piano diverso, a quello di Camusso, alla moderazione con cui quest’ultima ha diretto la mobilitazione del 2014 contro il Jobs Act, alla cautela con cui la direzione Cgil ha "gestito" le energie emerse in occasione della manifestazione del 25 ottobre 2014, al rifiuto di tale direzione di puntare a fermare il Jobs Act nell’unico modo possibile: puntando a buttare giù il governo Renzi sotto la spinta della mobilitazione di piazza. È vero che, per le cause di fondo a cui abbiamo accennato in precedenza, questo indirizzo di lotta avrebbe difficilmente trovato un’effettiva rispondenza tra i lavoratori e difficilmente si sarebbe incarnato in un generalizzato movimento di lotta contro il governo. Esso avrebbe, però, permesso a una minoranza attiva di delegati e di lavoratori di consolidare la propria organizzazione e di non ritrovarsi demoralizzati e paralizzati nei passaggi successivi dell’offensiva capitalistica, come invece si è amaramente constatato all’assemblea Fiom di Cervia. Renzi ha fatto quel che ha fatto con il Jobs Act, e che si appresta a continuare con le riforme istituzionali e con la "Buona Scuola", non perché abbia tradito la sinistra e si sia buttato a destra, come vanno ripetendo Civati e la sinistra dem. Bensì proprio perché ha dato seguito al programma della sinistra di Occhetto e di D’Alema, del partito democratico e della prima Leopolda promossa dal duo Renzi-Civati. Che questo programma confluisca con quello del centro destra a tal punto che il blocco sociale berlusconiano sta sciamando dietro la corte dei miracoli fiorentina, questo deve far riflettere sulle basi del programma della sinistra italiana a cui Landini si richiama. La "netta" distinzione organizzativa del riformismo "duro" togliattiano dal centro democristiano, nelle condizioni del turbo-capitalismo mondializzato, trapassa nello scioglimento della sinistra riformista entro il calderone del partito della nazione.

Il "modello" Syriza

Questa è la lezione politica che emerge anche dalla vicenda governativa di Syriza, a cui Landini si richiama come a un modello per la sua "coalizione sociale". La vittoria elettorale di Siryza ha intercettato la rabbia di tanti lavoratori e la loro volontà di farla finita con i piani di austerità attuati dal Pasok di Papandreu (dal cui vivaio proviene Varoufakis!) e dal centro-destra di Nuova Democrazia. La promessa di Siryza è stata ed è quella di completare la ristrutturazione e il rilancio del capitalismo greco attutendone i costi sociali, di rilanciare la competitività della Grecia, lavoratori a braccetto con i borghesi "sani", in modo che ne siano avvantaggiati anche i lavoratori, i disoccupati, i pensionati. Sono bastati pochi mesi non solo per sperimentare, con la firma dell’accordo del 23 febbraio 2015, l’illusorietà di questa promessa, ma soprattutto l’effetto disarmante di essa sul movimento di lotta che ha scosso la Grecia dal 2010 e soprattutto nel biennio 2010-2012 e che ha trovato espressione anche nella vittoria elettorale di Syriza.

Di fronte alla (scontata) fermezza del grande capitale europeo (e delle sue diramazioni greche ben rappresentate nello stesso governo greco), di fronte all’avvicinarsi del momento in cui le casse greche rimarranno senza liquidi per il rimborso del debito e per il pagamento degli stipendi e delle spese amministrative, di fronte ai pesantissimi effetti sui lavoratori degli sbocchi che i tecnocrati di Bruxelles e la grande borghesia greca cominciano a prospettare in alternativa alla cura da cavallo iniziata nel 2010, il governo di Siryza ha sbandierato davanti agli occhi degli sfruttati greci il rassicurante risultato che, grazie all’accordo del 23 febbraio, formalmente non ci sarà più una troika ad Atene, ha invitato i lavoratori greci ad aver fiducia nelle capacità diplomatiche dei propri ministri o nell’appoggio che si potrebbe trovare nei governi di Renzi e di Hollande (campa cavallo!), ha cullato il suo elettorato proletario nell’illusione che, se ci si dimostra responsabili verso i vincoli di una onesta amministrazione del capitale, le trattative tra gli stati porteranno a qualche frutto... Insomma tutto fuorché la ripresa della mobilitazione di classe, che, da febbraio, è ferma, tutto fuorché l’unico investimento politico che, alla distanza, sarebbe conveniente per i proletari greci: quello rivolto al consolidamento della propria unità di classe entro i confini greci proiettata verso i lavoratori degli altri paesi Ue e dell’area balcanica e mediorientale.

La politica di Syriza fa l’esatto opposto: punta sulla collaborazione e sui compromessi tra gli stati al servizio del capitale mondializzato e cristallizza o accentua le divisioni esistenti nel mondo proletario. È coerente con questa impostazione l’alleanza di governo stretta da Syriza con il partito di destra dei Greci Indipendenti (An.El.). Per An.El., a cui è andato il ministero della Difesa, i responsabili dell’arretramento subìto dai lavoratori greci sono gli immigrati che rubano il lavoro e sporcano la Grecia, i turchi (sfruttati e borghesi tutti in un fascio) che rubano Cipro e le sue risorse petrolifere, i tedeschi (di nuovo, borghesi e proletari in un unico blocco) che campano sul nostro sudore. Questo orientamento, simile a quello di un Salvini o di un Le Pen, consolida le divisioni tra i lavoratori dei diversi paesi europei e tra questi e i lavoratori immigrati, contro le quali, primariamente, dovrebbe invece dirigersi la politica di difesa classista. E questa sarebbe la via per impedire al capitale mondializzato di continuare nelle pratiche denunciate da Landini? Non si favoriscono così quelle divisioni e contrapposizioni tra lavoratori su cui speculano Marchionne e gli investitori di tutto il mondo nel cercare la piazza in cui i lavoratori si offrono alle condizioni migliori per gli sfruttatori? La tutela degli interessi proletari in Italia, in Grecia e ovunque non dipende dagli investitori che hanno la convenienza ad investire nel paese considerato, ma dalla forza organizzata dei lavoratori, dalla loro capacità di opporsi alla balcanizzazione delle proprie forze e di tessere un’organizzazione di classe proletaria a scala mondiale. Rifiutarsi di sottomettere gli interessi dei lavoratori alla competitività delle aziende e al rilancio del capitale nazionale o europeo, non significa che già oggi i lavoratori abbiano la forza, se si propone loro questa piattaforma, di raccoglierla e di respingere i piani di arretramento che il capitale vuole imporre. Questa intransigenza permette, però, di dare una prospettiva diversa all’iniziativa politica dei ristretti nuclei che intendono battersi contro l’offensiva del padronato e del governo Renzi, perché fa cercare l’unico alleato di questa lotta nei lavoratori degli altri paesi e fa emergere l’importanza di lottare contro tutti i mezzi usati dal "proprio" governo per alzare muri divisori tra gli uni e gli altri. Questi mezzi non sono solo il Jobs Act, ma anche lo sciovinismo contro gli immigrati e la politica estera a difesa della cosiddetta pace (imperialista) nel Sud del mondo, in Ucraina e nei paesi emergenti.

Certo, si comincia o si può essere costretti a cominciare da una località o da singole lotte, ma, se si assume questa tessitura internazionale come obiettivo prioritario, ecco che diventa vitale animare anche la singola vertenza con una battaglia politica a tutto tondo, nella quale entri in gioco la lotta contro lo sfruttamento differenziale subìto dai lavoratori immigrati e quella contro la politica estera del governo, contro la strumentazione diplomatico-militare con cui il padronato italiano mira a consolidare i meccanismi spontanei di mercato per avere a disposizione in Italia, in Africa, in Medioriente Oriente e nel resto del mondo un esercito di lavoratori diviso e ricattabile. Su quest’ultimo piano non è vero che il governo italiano è assente, come denuncia Landini.

Il governo italiano è, invece, ben presente sul mercato mondiale. Il governo italiano sostiene l’infame strategia imperialista di Obama (2), il cui obiettivo ultimo (ne parliamo in questo numero nell’articolo a pag. 8) è quello di ricacciare indietro i miglioramenti salariali e normativi strappati dai lavoratori cinesi e dei paesi emergenti negli ultimi dieci anni, con una sequenza di lotte che si è oggettivamente opposta alla spirale della concorrenza al ribasso tra i lavoratori dei cinque continenti. Il governo Renzi cerca, poi, di ritagliarsi, all’ombra della politica Usa, uno spazio privilegiato nelle aree tradizionalmente saccheggiate dai padroni nostrani, ad esempio l’Africa settentrionale, come mostra lo sforzo di Renzi e dei vertici istituzionali italiani, anche in contrasto con gli interessi del capobastone Usa, di ottenere il via libera a una nuova missione militare contro la Libia.(3) (Conduce, al fondo, ad un esito altrettanto disastroso la politica estera meno allineata agli Usa e coerentemente europeista rivendicata da un’ala della classe dirigente italiana e da alcune forze di estrema destra inneggianti al blocco euro-russo anti plutocrazia anglosassone.).

"Coalizione sociale" o lavoro per l’organo-partito

Se il punto decisivo è il lavoro per mettere in campo un fronte di classe unitario internazionale, un lavoro che può trovare un passo preliminare nei collegamenti oggi labili e istituzionali tra i delegati delle multinazionali, diventa evidente che un’iniziativa del genere richiede anche una teoria e un’organizzazione politica, richiede un partito di classe. La si può sostenere senza mettere a fuoco il legame dell’offensiva capitalistica con i meccanismi di funzionamento del sistema capitalistico? Senza interrogarsi sul destino riservato alla classe lavoratrice, pur nelle enormi differenze esistenti tra i differenti continenti, dal sistema capitalistico? Senza prospettare un piano di azione comune, internazionale, vincolato a questa analisi? Senza un’organizzazione centralizzata in grado di orientarsi nel labirinto della situazione internazionale e di portare avanti il piano di azione all’unisono nei vari continenti? E questa teoria, questo piano d’azione e questa organizzazione possono essere diversi da quelli prospettati dal comunismo rivoluzionario, dalla "vecchia" e più che mai attuale dottrina di Marx? Possono essere qualcosa di diverso dal lavoro per preparare, nelle lotte difensive del presente, la rivoluzione comunista internazionale?

Landini, invece, da un lato sostiene giustamente, in opposizione all’impostazione di Camusso, l’esigenza di collegare l’iniziativa sindacale, da sola impotente, ad un’iniziativa politica, e dall’altra, però, limita quest’ultima alla "coalizione sociale", alla aggregazione sui minimi comuni multipli. Anche su questo aspetto Landini riprende l’impostazione rivelatasi fallimentare della Rifondazione di Bertinotti ai tempi del "movimento no global", lasciando spazio libero all’antipartitismo dell’M5S e, al fondo, ad uno dei binari principali dell’offensiva padronale: quello dell’incessante propaganda anti-partito condotta dai loro mezzi di informazione.

Quando i padroni e i loro mezzi di informazione mettono in guardia i lavoratori dalle magagne del sistema dei partiti, lo fanno per tenere lontani i proletari dal lavoro per il loro partito di classe. I padroni, però, che pure controllano le leve del potere economico e dirigono la macchina statale, quanto si danno da fare per costituire un loro partito o un loro sistema dei partiti adeguato ai tempi! E i lavoratori, cosa dovrebbero fare? raccogliere il fetido incoraggiamento padronale? I lavoratori sono privi di potere economico, sono frantumati dal mercato e possono far valere i loro interessi contro l’oppressione capitalistica solo unendosi per mezzo di una teoria e un’organizzazione di partito. Se si è titubanti su questo punto, si concorre, al di là delle intenzioni, a mantenere il mondo del lavoro salariato frantumato per continenti, per paesi, per regioni, per aziende, per ditte impiegate nella stessa azienda... Se si è titubanti su questo punto, si porta acqua, al fondo, alla posizione del segretario Cgil, all’idea, ribadita più volte da Camusso alla vigilia della manifestazione Fiom del 28 marzo 2015, che il sindacato deve fare il sindacato e limitarsi a presentare le sue rivendicazioni alla politica borghese.

Note

(1) Vedi il dossier "Dove va l’Italia" pubblicato nel n. 29 del "che fare" (gennaio 1994)

(2) L’intesa tra Obama e Renzi è stata rinsaldata nel corso della visita compiuta da Renzi negli Stati Uniti nell’aprile 2015.

(3) Vedi ad esempio il nuovo "Libro Bianco" della Difesa varato nell’aprile 2015 dal governo Renzi. In un’intervista al Sole24Ore del 15 aprile 2015, Gentiloni ha dichiarato: "Domanda. Ministro Gentiloni, l’Italia è il primo fornitore di personale militare e non, tra i paesi europei, delle missioni Onu. Ma in cambio di cosa, vista la situazione degli sbarchi e la miseria degli aiuti di cui parlavamo prima? Risposta. .In cambio di una centralità in molte aree del Mediterraneo, che sono quelle nei Balcani e in Libano, in entrambi i casi abbiamo aiutato la stabilizzazione di quei paesi." Già, sappiamo come...

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