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Che fare n.83 dicembre 2015 - maggio 2016

Il contratto nazionale nel mirino della Confindustria

Dopo aver condotto in porto la contro-riforma delle pensioni con il governo Monti e dopo aver ottenuto lo smantellamento dell’articolo 18 con il "Jobs Act" di Renzi, adesso la borghesia italiana vuole chiudere i conti con un’altra delle conquiste strappate dal movimento operaio tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso: i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (Ccnl). Per questa via il padronato non punta "soltanto" a contenere "i costi salariali", ma anche (e in un certo senso soprattutto) a indebolire la residua capacità di resistenza collettiva dei lavoratori, incatenandoli più saldamente al carro delle esigenze delle aziende e dei mercati.

Il 6 maggio 2015, durante un’assemblea  della Confindustria, il presidente Squinzi aveva annunciato la posizione della Confindustria sulla vicina tornata contrattuale: "Servono regole radicalmente nuove della contrattazione… Bisogna rivedere il modello contrattuale per assicurare la certezza dei costi, la non sovrapponibilità dei livelli contrattuali [nazionale e aziendale n.n.] e per legare strettamente le retribuzioni alla produttività".

Dalle parole ai fatti: agli inizi di novembre 2015 la Federmeccanica, con la benedizione di Squinzi, presenta la sua proposta di rinnovo contrattuale per gli 1,6 milioni di dipendenti del settore metalmeccanico: nel 2016 non dovrà essere corrisposto alcun aumento salariale, nel 2017 dovranno essere riconosciuti 37 euro di incremento mensile solo a quei lavoratori (il 5% della categoria) con stipendi uguali o inferiori alla paga base; disponibilità a trattare aumenti differenziati aziendalmente tramite interventi a favore del cosiddetto "welfare d’impresa" (cassa sanitaria, sussidi per i figli in età scolare, previdenza complementare…). Commenta Fabio Storchi, direttore generale dei padroni metalmeccanici: "Diciamo no agli aumenti contrattuali a pioggia, senza distinguere tra aziende che vanno bene e quelle che vanno male e senza guardare alla produttività".

Secondo la propaganda renziana e confindustriale, la contrattazione nazionale, con le sue norme "egualitarie", starebbe danneggiando anche i lavoratori, favorendo i lavoratori delle aree e delle aziende meno produttive a discapito della competitività dell’Azienda-Italia nel suo insieme e di coloro che "tirano per davvero la carretta". La storia dell’istituto del contratto nazionale e la realtà attuale delle "relazioni tra le parti sociali" conducono a una conclusione opposta.

Una conquista strappata con le lotte

I contratti nazionali di lavoro per come li conosciamo oggi non sono sempre esistiti. Fino ai primi decenni del ‘900 i rapporti lavorativi erano, bene che andasse, regolati da blande forme di contrattazione aziendale che lasciavano mano completamente libera al padrone. La libertà di licenziare era pressoché assoluta. I salari e gli orari estremamente differenziati per azienda e per mansione. Ci vollero i vasti scioperi operai del 1905 e 1906 per riuscire a strappare, in Italia, un orario limitato alle dieci ore giornaliere su tutto il territorio nazionale.

Le otto ore furono conquistate dalla Fiom per i soli metalmeccanici nel 1919 mentre l’intera Italia era attraversata dal potente moto di scioperi e agitazioni che caratterizzò il primo dopoguerra. L’istituto del contratto nazionale apparve per la prima volta durante il ventennio fascista. Ma si trattava di un tipo di contratto particolare. In pratica lo stato e i sindacati corporativi (1) decidevano a tavolino alcuni parametri salariali e normativi che venivano poi applicati alle varie categorie. Per questa via il fascismo, mentre si fece patrocinatore di una politica di duro contenimento salariale e di ferrea sottomissione dell’operaio alle esigenze della macchina capitalistica italiana, puntò contemporaneamente a far sentire il lavoratore "parte della nazione", cointeressato al buon andamento del suo apparato produttivo e delle proiezioni coloniali fasciste all’estero. A tal fine il partito fascista arrivò in talune occasioni, sotto la pressione della protesta operaia, ad invitare i padroni a moderare il loro "estremismo", ma solo per ribadire la stabilità della cappa di piombo calata sui lavoratori e la possibilità per le associazioni padronali (formalmente obbligate a sottoscrivere tali contratti) di continuare ad esercitare il loro pieno potere nelle aziende.

Con il secondo dopoguerra, la caduta del fascismo e la ricostituzione dei sindacati "liberi", la situazione contrattuale varia di poco. Sono gli anni della ricostruzione, anni in cui il padronato (intanto diventato democratico), dopo la sconfitta patita durante la seconda guerra mondiale, sa che la riconquista di un posto al sole per l’Italia e le sue aziende richiede il mantenimento della sferza sulla classe operaia. A tal fine, costretto a concedere leggeri miglioramenti salariali e normativi, il padronato, spalleggiato dai governi centristi dell’epoca, riesce a introdurre le "gabbie salariali". Le "gabbie salariali" sono un quadro normativo che differenzia le retribuzioni (a parità di mansione e di orario) in base alla collocazione geografica della singola azienda e che, per tal via, accentua la ricattabilità dell’intera classe operaia e favorisce la competizione al ribasso tra proletari delle diverse zone territoriali (2).

Fu solo grazie "all’autunno caldo" (così viene definito quel ciclo di grandi mobilitazioni operaie a cavallo tra il 1968 e la metà degli anni settanta) che le "gabbie salariali" furono spazzate via, che furono conquistati lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori, il sistema sanitario nazionale universale, la protezione pensionistica (poi smantellata dai governi succedutisi da Ciampi a Monti) e che si giunse a quella struttura contrattuale, il Ccnl, ancora oggi in piedi e ora sotto Il Ccnl, oltre ad essere l’unica tipologia contrattuale di cui dispone la stragrande maggioranza dei lavoratori (solo nel 30% circa delle imprese vi è anche il contratto aziendale), è di grande importanza perché tende a mitigare e ad ostacolare le divisioni interne alla classe operaia, la concorrenza al ribasso tra i lavoratori di aziende e regioni diverse, da cui sono stritolati anche i lavoratori delle imprese e dei distretti che tirano.(3)

Quando gli industriali e il governo affermano che il contratto nazionale esistente rappresenta un intralcio per  il pieno dispiegarsi delle potenzialità delle aziende del XXI secolo, essi, dal loro punto di vista, dicono una  cosa sostanzialmente vera. Infatti i contratti nazionali, fungendo da (relativo) argine al dilagare della concorrenza tra lavoratori, hanno anche posto un qualche limite (sebbene in modo costantemente decrescente) allo strapotere delle direzioni aziendali nel campo dell’organizzazione complessiva del lavoro, dei turni, degli orari, dei carichi lavorativi, delle politiche salariali, ecc. Inoltre, la semplice esistenza della contrattazione nazionale evoca (anche se sempre più blandamente) la necessità di mantenere ambiti di organizzazione e difesa collettiva per l’intero mondo del lavoro salariato. Tutto ciò, nell’attuale clima di competizione globalizzata, è per le imprese assolutamente inaccettabile: da qui l’affondo di Federmeccanica e Confindustria.

Prima si svuotano, poi si cancellano.

A quest’affondo è stato preparato il terreno per anni. Ad esempio con i seguenti tre passaggi. 1) Nel 2009 il governo Berlusconi ha sottoscritto con le organizzazioni padronali e con Cisl-Uil il "patto sulla produttività":  il fulcro del patto è stata la drastica detassazione della quota salariale legata alla produttività aziendale. Tutti i governi successivi hanno mantenuto questa detassazione e la legge di stabilità per il 2016 del governo Renzi la consolida. 2) Nel 2011 il governo Berlusconi vara una normativa (il cosiddetto "articolo 8") con cui si concede la possibilità di stipulare accordi aziendali che deroghino in peggio rispetto a quanto sancito in sede nazionale e anche in sede legislativa. 3) Nel frattempo le direzioni aziendali e le associazioni padronali, con la motivazione della crisi del 2008 e delle conseguenze di essa, cercano "qua e là" di "praticare" l’obiettivo: si va dal rifiuto di discutere con le rappresentanze sindacali l’organizzazione del lavoro al rafforzamento della quota di salario legata a criteri di produttività individuale e aziendale (contrattata a livello di singola impresa, o, sempre più spesso, decisa unilateralmente dalle direzioni aziendali) a scapito di quella, frutto dei contratti nazionali, "uguale per tutti". La Fiat di Marchionne, da parte sua, nel 2011 straccia completamente il contratto nazionale, uscendo addirittura da Federmeccanica ed escludendo la Fiom dall’attività sindacale nei propri stabilimenti. Dopo anni di lavorìo ai fianchi "sul tema", adesso i padroni (o, quantomeno, una loro cospicua componente) sentono che è giunto il momento di pigiare sull’acceleratore(4). Ad incoraggiarli non è solo la politica del governo Renzi, ma anche la scarsissima reazione messa in campo dal movimento sindacale e dei lavoratori nell’autunno del 2014 contro il "Jobs Act". È vero che alcune categorie, come i chimici e i bancari, hanno accettato di rinnovare i contratti, ma se guardiamo i termini degli accordi, vediamo che anche in questo caso vi è il rafforzamento della contrattazione aziendale a danno di quella nazionale( 5). L’affondo di Federmeccanica riguarda, quindi, tutti i lavoratori ed esso mira, come ha già mostrato la cura Marchionne in Fca, alla residua capacità di difesa collettiva dei lavoratori.

La Fiom di Landini ha denunciato la portata di questo attacco ma sta impostando la risposta dei lavoratori attorno a un asse che le toglie il terreno sotto i piedi. Il gruppo dirigente della Fiom lega la difesa della contrattazione nazionale alla promozione di "un diverso rilancio competitivo delle aziende e del paese". Una tale politica non può che portare ad un’accentuazione della concorrenza tra lavoratori delle diverse imprese e delle diverse nazioni, in una fase in cui, come dimostra anche la recente vicenda (vedi articoli a p. 6) del rinnovo contrattuale negli stabilimenti statunitensi della Fca-Chrysler, c’è bisogno dell’esatto contrario. È quello che emerge anche dagli accordi aziendali sottoscritti dalla Fiom alla Ducati e alla Lamborghini. È vero che gli accordi prevedono miglioramenti salariali, una leggera riduzione di orario e l’aumento dell’occupazione, ma al prezzo di concessioni pesanti sul piano dell’organizzazione del lavoro che aumentano la debolezza dei lavoratori e li contrappongono ai lavoratori delle altre fabbriche del gruppo. L’accordo raggiunto nel giugno del 2015 alla Lamborghini (gruppo Audi- Volkswagen) ha indotto la direzione del gruppo ad avviare nello stabilimento di Sant’Agata (Bologna) il suv che doveva originariamente essere prodotto a Bratislava (Slovacchia).

All’intesa (approvata quasi all’unanimità dai circa mille dipendenti dello stabilimento) che ha consentito di "battere la concorrenza straniera" si è giunti grazie all’azione combinata del governo (che ha stanziato circa cento milioni in agevolazioni fiscali) e dei sindacati (Fiom in prima fila), che, a fronte di un aumento contrattuale di 88 euro, di premi di produzione che potranno arrivare fino a 2500 euro l’anno e di un miglioramento delle normative che regolano i sub-appalti, hanno accettato una serie di "misure tese a migliorare la produttività aziendale", tra le quali la possibilità di ricorrere in maniera più snella al lavoro precario e l’adozione di un orario "variabile" per coprire i picchi di produzione del nuovo suv. Alla distanza questo "scambio" in deroga alle tutele fissate nel contratto nazionale non si ritorcerà anche sui benefìci incassati dai lavoratori delle due aziende e vincolati all’andamento di esse?

Insomma, se si condiziona la difesa delle tutele contrattuali fissate a livello nazionale e locale al buon andamento delle aziende, i Marchionne, gli Squinzi e i Renzi hanno  perfettamente ragione: il rilancio e il rafforzamento della competitività delle imprese esige proprio che, in un modo o nell’altro, si vada per la via indicata da Fca. Può non piacere, ma è esattamente così e bisogna cominciare a prenderne atto. La strada da imboccare per predisporre il terreno ad una reale difesa è completamente diversa. Non ritardare la preparazione della mobilitazione e della lotta dei metalmeccanici e delle altre categorie, magari con la motivazione di non incrinare i rapporti unitari ristabiliti da Cgil-Cisl-Uil sulla nuova proposta di revisione della contrattazione nazionale. E in ogni ambito di lotta, di mobilitazione e di dibattito, per quanto piccoli e circoscritti essi possano essere, cominciare a far emergere la necessità di rompere il legame di solidarietà con le aziende e di tessere al contrario legami di discussione, organizzazione e lotta con i lavoratori degli altri stabilimenti, delle altre imprese e delle altre nazioni.

Per impostare una comune battaglia contro i diktat che il capitale mondializzato impone proprio in nome della competitività e della produttività.

 Note

(1) Il fascismo, dopo avere distrutto sul campo le organizzazioni operaie, istituì dei propri sindacati (resi tra l’altro giuridicamente "enti di diritto pubblico") il cui fine sarebbe dovuto essere quello di "armonizzare le necessità dei lavoratori con quelle dell’intera società". Si trattava in pratica di veri e propri sindacati di regime pur se a volte tramite essi si manifestarono anche episodi di vera conflittualità con il padronato. La carta del lavoro approvata nel 1927 dal Gran consiglio del fascismo, tra l’altro, recita: "Nel contratto collettivo di lavoro trova la sua espressione concreta la solidarietà tra i vari fattori della produzione, mediante la conciliazione degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori, e la loro subordinazione agli interessi superiori della produzione".

(2) Nel 1954 il territorio nazionale era diviso i quattordici "gabbie" (poi divenute sette nel 1961). In base a tale differenziazione, il salario percepito da un operaio in Sicilia corrispondeva a circa il 50% di quello percepito dal lavoratore di pari livello a Milano o Torino.

(3) Si pensi al lavoro femminile notturno. In Italia la pressione del movimento operaio ne aveva imposto il divieto. Nel 1990 fu però firmata una deroga alla legge 903/77 per consentire la sua reintroduzione presso lo stabilimento Fiat di Melfi. L’azienda automobilistica in pratica subordinò l’apertura dell’impianto all’ottenimento di una serie di "facilitazioni" sindacali tra cui spiccava la reintroduzione del lavoro femminile notturno. Si disse che si trattava di un‘eccezione per favorire un’area "economicamente depressa" e che il tutto sarebbe rimasto rigidamente confinato in quel di Melfi. Ovviamente le cose sono andate in modo ben diverso. Uno ad uno gli altri stabilimenti delle aree "avanzate" sono stati chiamati ad adeguarsi alla "novità" e adesso il lavoro notturno per le donne è pane quotidiano ovunque e non solo in Fiat.

(4) Si trova un concentrato degli umori padronali di questo periodo nell’intervista al Foglio (22 ottobre 2015) di uno dei candidati al dopo-Squinzi, l’industriale A. Regina.

(5) Ad esempio nel settore chimico è stato cancellato il premio di presenza, le cui disponibilità economiche verrano messe a disposizione della contrattazione aziendale. E Non a caso in una nota ufficiale Federchimica afferma che "le parti si sono impegnate a rendere il contratto collettivo nazionale sempre più uno strumento moderno e flessibile. E anche idoneo a incentivare una contrattazione di secondo livello che colga le esigenze e le specificità aziendali".

Che fare n.83 dicembre 2015 - maggio 2016

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