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Che fare n.84 dicembre 2016 - maggio 2017

La nuova legge sul caporalato:

è davvero tutto oro quello che luccica?

 Scriviamo all’inizio di novembre 2016 a pochi giorni dall’approvazione (con 346 voti favorevoli e l’astensione di Forza Italia e Lega) della legge denominata “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”.

Secondo i commenti entusiastici dei vertici sindacali, la nuova legge rappresenterà una solida diga contro il dilagare del lavoro nero e del caporalato, nel settore agricolo e in altri comparti.

È davvero così? Vediamo, prima di tutto, cosa stabilisce la legge.

La normativa, a differenza di quella precedente, prevede che ad essere sanzionabili per “intermediazione illecita” di manodopera non saranno più solo coloro che “reclutano” (i cosiddetti “caporali”) ma anche le aziende che utilizzano lavoratori così reclutati.

Vengono introdotti i cosiddetti “indici di sfruttamento”. Secondo la nuova legislazione costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni: “1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro prestato; 2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni degradanti”.

Le pene introdotte prevedono la reclusione da 1 a 6 anni. Se i fatti sono commessi mediante “violenza o minaccia” la reclusione può andare dai 5 agli 8 anni. Costituiscono, inoltre, “aggravante specifica”: 1) “il fatto che il numero dei lavoratori reclutati sia superiore a tre”; 2) “il fatto che uno o più soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa”.

Altro elemento importate presente in questa legge è la possibilità di “demandare agli accordi aziendali la definizione di tutto o parte dei programmi di graduale riallineamento dei trattamenti economici”. I “programmi di riallineamento” furono introdotti da una legge del 1996 e prevedono il “graduale” riemergere dei lavoratori impiegati in nero e sottopagati. Questi patti dovevano essere inseriti nei contratti provinciali agrari. La nuova legge sul caporalato dà invece alle aziende la possibilità di derogare legalmente a tali “accordi provinciali” e di adottare programmi di riallineamento annacquati e molto più diluiti nel tempo.

Quali effetti concreti apporterà la nuova legge sul caporalato?

Essa avrà sicuramente un effetto politico. La legge sul caporalato ammorbidirà il “no” della Cgil o di un settore di essa sul referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, il che rende conto di uno dei motivi che ha portato la maggioranza di governo a tirar fuori dal cassetto un disegno di legge che giaceva inosservato da anni e ad approvarlo a spron battuto.

Difficile, però, che la nuova legge, di per se stessa, riesca a cambiare le condizioni che regnano nell’agricoltura italiana. Potrà, forse, sollecitare quel processo di modernizzazione e di aggregazione delle aziende agricole richiesto dalla crescente concorrenza dei paesi dell’Europa dell’Est e del Mediterraneo. Potrà, forse, fornire un appiglio a quei medi imprenditori agricoli del centro-Nord messi alle strette dalla concorrenza aggressiva che tante aziende (soprattutto meridionali) possono praticare grazie ad un “eccessivo” (con tanto di virgolette) ricorso al lavoro “nero” e al caporalato.

 La legge e la sua applicazione da parte delle istituzioni italiane non potranno, però, andare incontro alle rivendicazioni che hanno segnato le lotte degli ultimi anni dei braccianti immigrati in Italia e che hanno contribuito a porre all’ordine del giorno la revisione della normativa in materia.

Per valutare la reale efficacia di una qualsiasi legge non ci si può, infatti, limitare all’analisi “letterale” dei suoi articoli. Bisogna collocare il provvedimento nel contesto più generale (legislativo ed extra-legislativo) in cui esso si inserisce.

La condizione di estrema ricattabilità in cui vivono i lavoratori immigrati (a prescindere che essi operino nelle campagne oppure no) ha un solido pilastro nella tuttora vigente legge Bossi-Fini e in quel reticolo di norme legislative e amministrative grazie alle quali l’immigrato rischia in ogni momento di essere gettato nell’inferno della cosiddetta “clandestinità”.

La permanenza della legge Bossi-Fini di fatto sterilizza le norme sul caporalato apparentemente a sostegno del lavoratore immigrato.

Opera nello stesso senso la serie di normative (si pensi al “Jobs Act”) che hanno reso più precario il mercato del lavoro e quello agricolo in modo particolare modo. Nel settembre 2016, cioè proprio alla vigilia dell’approvazione della legge “contro il caporalato”, il governo Renzi ha, ad esempio, disposto in favore degli imprenditori agricoli una “deroga” per quanto riguarda l’utilizzo dei “voucher”. La deroga riguarda la comunicazione che i padroni sono tenuti a fare. Per tutti è stabilito che tale notifica deve essere fatta almeno 60 minuti prima dell’inizio della prestazione, con sms o posta elettronica, indicando i dati anagrafici o il codice fiscale del lavoratore, il luogo e la durata della prestazione con relativo orario di inizio e di fine lavoro. Per i padroni del settore agrario, invece, la comunicazione può essere fatta anche nei tre giorni successivi all’impiego della manodopera.

Questa deroga nei fatti indebolisce i già fiacchi e spesso ampiamente “preannunciati” controlli degli ispettori del lavoro (i cui organici sono da sempre volutamente esigui): un imprenditore beccato ad utilizzare manodopera senza contratto può tranquillamente ricorrere ai voucher nei giorni successivi senza incorrere in alcuna sanzione; in più, non essendo necessario comunicare in anticipo la durata della prestazione lavorativa, come giustamente ha evidenziato un sindacalista del settore, “nessuna tracciabilità eviterà di pagare 8 ore con un solo voucher e qualche spicciolo.”

Per completare il quadro si ricordi inoltre che dal giugno del 2015 con i decreti attuativi seguiti all’introduzione del “Jobs Act”, è stata eliminata la caratteristica “dell’occasionalità” necessaria per l’utilizzo dei voucher e che il limite del reddito conferibile con tale formula per ogni singolo lavoratore è stato portato da 5 mila a 7 mila euro all’anno.

La nuova legge sul caporalato potrà fornire un appiglio per il miglioramento della condizione dei braccianti e soprattutto di quelli immigrati solo se lo si imporrà con la lotta e l’organizzazione dei lavoratori del settore, dando continuità alle coraggiose mobilitazioni degli ultimi anni.

Novembre 2016 

 

Che fare n.84 dicembre 2016 - maggio 2017

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