Contratti: è tempo di bilanci


Il primo, e più significativo, elemento da considerare è quello della confortante ripresa di volontà di lotta. Gli operai hanno lottato, più di quanto non era lecito attendersi; molto di più di quanto prevedessero padroni e sindacati stessi. Quest'ultimi si sono visti consegnare dalla "base" una forza, che essi hanno diluito e dispero nei mille rivoli degli scioperetti parziali, iper-articolati per regione, categoria, comparto.

A Mirafiori, tra ottobre e novembre, si è voltato pagina: punte da anni settanta, picchetti alle porte, volti preoccupati di capi e capetti. La caduta di dicembre, simile a quella avuta in molte altre realtà, ha come unico responsabile un sindacato che dopo aver accuratamente evitato di centralizzare tutte le vertenze contrattuali in piedi, smorzava la tensione di fabbrica con il black out dell'informazione, anche la più minuta. Dai giornali, o dai capi (come alla Fiat), gli operai apprendevano che qui e là si cominciavano a chiudere le prime ipotesi di accordo non esaltanti.

Ragionevolmente, quindi, parliamo di "forza" operaia ed attorno a questo elemento invitiamo a costruire ogni bilancio anche su ciò che si è ottenuto: un risultato modesto, troppo modesto per la forza espressa e soprattutto per quella potenzialmente mostrata. Ma un risultato non tale, comunque, da indurre al "pentimento" chi, dopo anni, ha ripreso a guardare alla lotta collettiva come l'unica, o la migliore, via per riscattare anni di sacrifici, di salti mortali e (perché no?) di difesa individuale. Era giusto e sacrosanto lottare anche per una piattaforma, pensata lontana dai reali bisogni operai: con la loro massiccia risposta, gli operai hanno tagliato la strada ad ogni baratto peggiorativo al tavolo delle trattative ed hanno imposto un alt (provvisorio, certo) alle ulteriori pretese padronali. "Quel poco, ma pulito" di cui parla Garavini lo si deve solo alla confortante ripresa di conflittualità operaia; ed è un "poco" di cui proprio Garavini e soci vanno imputati: non uno sciopero generale, trattative diluite nel tempo e mai riportate in fabbrica. Isolate l'una dall'altra, le singole "categorie" operaie hanno pagato per la seconda volta in dazio delle compatibilità economiche: la prima volta in sede di stesura di piattaforma, la seconda con il differenziale che i padroni sono riusciti ad imporre, tra "settori che tirano" e "settori in difficoltà", nelle acquisizioni di salario ed orario (come ad esempio i chimici delle aziende pubbliche, i quali hanno dovuto subire lo scambio con gli straordinari obbligatori).

Il secondo elemento di valutazione è che si è andata delineando - in questa fase di rinnovo contrattuale - una possibile linea di frattura tra centrali sindacali e lavoratori. Si vanno erodendo, infatti, agli occhi operai, due argomentazioni "forti" che il sindacato ha ripetuto in anni di moderazione salariale e di cedimenti progressivi: il primo era il ritornello della crisi e dei sacrifici necessari per superarla, il secondo era il pianto greco sulla sconfitta operaia consumata alla Fiat nell'80, e sulle sue nefaste conseguenze in termini di volontà di lotta. Con i governanti che, in maniera più o meno interessata, fanno sfoggio di sorpassi nella hit parade dei paesi imperialisti e con i super padroni che fanno man bassa di fette di costa, di porti, di scavi e tesori artistici, presentarsi nel palcoscenico di fabbrica a cantare vecchi ritornelli è stato arduo anche per il più sfrontato dei bonzi sindacali. Gli operai hanno intuito che, a partire da questo rinnovo contrattuale, si poteva ricominciare a pretendere da chi si fa sfoggio di conti in attivo e profitti da capogiro, e che, quindi, le centrali sindacali tentennavano proprio su questo terreno. Ovvero che, al di là dei contingente, la linea sindacale è attestata sulla difesa prioritaria degli interessi del capitale, alla cui stregua misurare la "compatibilità" delle richieste da avanzare in nome degli operai. Insomma comincia a farsi strada che ciò che era presentata come "tattica" è, invece, una consolidata strategia: prima le compatibilità economiche generali (concorrenzialità delle imprese e loro esigenze produttive), poi assunzione, nei limiti possibili, dei bisogni operai.

Anche il secondo argomento sindacale si va sgretolando. Certo pesa sulle teste degli operai il ricatto dei milioni di senza lavoro. Certo, su un salario ridotto all'osso, ogni ora di sciopero pesa il doppio di ieri. Ma è altrettanto vero come l'accresciuta produttività individuale aumenta proporzionalmente gli effetti di tino sciopero ben fatto e ben riuscito. A tanto, ad incidere ed a pesare, si sono predisposti gli operai, rivoltando al mittente un'accusa ripetuta fino alla noia in tutti questi anni: la lotta è in piedi, voialtri sappiatene fare un buon uso. E lotta c'è stata non solo nei contratti, ma anche in altri momenti decisivi: a Genova con oltre diecimila in piazza stretti attorno ai portuali "commissariati"; alla Pirelli per il licenziamento di alcuni giovani in formazione; all'Alfa per le prime provocazioni modello-Fiat.

Il sindacato, privato dei suoi due alibi più propagandati, si è esposto al giudizio ed al bilancio degli operai, innanzitutto di quelli più combattivi, ma che interessa, in prospettiva, non più pochi operai super coscienti ma la massa operaia, materialisticamente spinta a rapportare bisogni e rivendicazioni da un lato e forza-risultati dall'altro. Una rappresentazione, sebbene distorta, dei giudizi sull'operato sindacale la si è avuta con i due referendum metalmeccanici. Consistenti ed organizzate le forze del "No" al referendum di giugno avevano fatto discutere in fabbrica e sono state, poi, la spina dorsale delle mobilitazioni. A febbraio il "No" si è fatto più diffuso e corposo, ma anche meno organizzato e, quindi, più ambiguo. Mettere un tratto di croce su una scheda può omologare nuove leve operaie venute alla lotta in questi mesi giustamente incazzate e becchini della lotta collettiva: è un sintomo su cui lavorare, ma nulla di più.

E questo accenno ai referendum ci porta a discutere del terzo elemento di bilancio sulla fase contrattuale. Diciamolo così: il massimo di rappresentazione scenica della "democrazia" ha corrisposto con il minimo, mai raggiunto, della democrazia sostanziale nel rapporto tra lavoratori organizzati e loro rappresentanze. I lavoratori sono stati tenuti all'oscuro di tutte le fase della trattativa, gli scioperi non sono stati quasi mai preceduti da assemblee e da discussioni sui luoghi di lavoro, la stessa piattaforma prima e l'ipotesi di accordo poi è girata poco e male in fabbrica, poco discussa, pochissimo chiarita. Mai i lavoratori e gli operai sono stati consultati riguardo alle forme di lotta, ed eventuali unificazioni ed estensioni, sullo stesso andamento degli scioperi non è stata fatta alcuna valutazione collettiva e pubblica.

Da tutto ciò i sindacalisti si sono sottratti, puntando poi - ma nemmeno in tutti i settori - sullo strumento tanto caro a Benvenuto, quello strumento che contribuisce a prosciugare la vita collettiva nei luoghi di lavoro, la comunicazione, la discussione, l'organizzazione.

E, questo dell'organizzazione sul posto di lavoro, ci sembra un punto di scontro nella fase che si va aprendo. Il duo Lucchini-Benvenuto fa da apripista e non casualmente da Brescia - della liquidazione di ciò che resta dei C.d.F. come reali espressione della volontà e dell'organizzazione operaia nei luoghi di lavoro. Agnelli, da parte sua, tende a "normalizzare" l'attività sindacale e l'agibilità politica fra le linee e nei reparti ad Arese. Le pantere della PS corrono a spazzare i cancelli dai perturbatori distributori di volantini. La difesa dell'agibilità dei luoghi di lavoro è la precondizione del mantenimento di una qualche iniziativa operaia, così come la definitiva liquidazione dei Cdf direttamente, e liberamente, votati dagli operai non può essere salutata benevolmente nemmeno dal più infantile degli estremisti. Liquidati "dall'alto" essi non sarebbero sostituiti, né meccanicamente, né facilmente, né immediatamente da alcuna forma auto-organizzata (allo stato al di là da venire ovunque); si aggraverebbe, piuttosto, quell'assoluta latitanza sindacale nei luoghi di lavoro, la quale ha già creato, proprio durante il rinnovo dei contratti, calo di tensione e sfiducia.

Lo scenario prossimo, infatti, non ci riserva un progressivo ed indolore allargamento di quella linea di frattura, la cui possibilità è apparsa delinearsi nei mesi scorsi. È inutile illudersi di vedere il sindacato andarsi a collocare in una posizione sempre più blindata nel merito e nei metodi, di fronte ai lavoratori e quest'ultimi che ne prendono atto "per fare finalmente da soli". Un processo di blindatura e di allontanamento dal luogo della produzione è già in corso da qualche anno (cfr. anche l’ultimo congresso CGIL) e riguarda, ma già in misura diversissima tutti e tre i sindacati: tale processo, però, si è già accompagnato - e più ancora lo sarà in futuro prossimo - con forme di assunzione immediata degli interessi operai, in situazioni ed in circostanze determinate, e se non da tutte e tre le sigle, almeno dalla CGIL: il caso degli edili meridionali, da un lato, e del porto di Genova e alla Bisider di Brescia lo stanno a dimostrare.

Ma neanche dalla parte della massa operaia è praticabile immediatamente, una linea di progressiva separazione dalle strategie interpretate dalle centrali sindacali. In questo preciso senso la stessa separazione organizzativa dal sindacato confederale può non corrispondere assolutamente ad una demarcazione dalla sua strategia, riproposta, nei fatti, sotto vesti diverse. Al di là delle buone intenzioni dei promotori, le risposte, di settore o di categoria, stabilizzate statutariamente, prestano il fianco allo slittamento verso la difesa dei "propri interessi" visti come distinti e separati da quelli degli altri lavoratori o, viceversa, finiscono con il sancire la rottura dei "pochi coscienti" dal resto della massa così detta "arretrata". Ma, spesso, anche quando questa "separazione dal sindacato" non produce aggregazioni alternative, può essere gestita tra i lavoratori per ribadire, esplicitamente, la validità del "piano riformista" complessivo. Ed è ciò che spesso avviene nei luoghi di lavoro (soprattutto da dopo il decreto di San Valentino) dove è la cellula del PCI che spara bordate contro la CGIL "rea" (soltanto) di farsi condizionare o dalla componente socialista o dal CISL ed UIL o da tutti. Questa attività, che si sta coniugando ad estemporanee sortite pro-lavoratori da parte del PCI (vedi il caso eclatante dei Porto di Genova a partire da febbraio in poi, ma anche il caso della CIG per gli edili del Mezzogiorno), rallenterà il decorso di un processo di chiarificazione, tra la massa dei lavoratori, della vera natura non tanto di A. Pizzinato ma quanto dei riformismo nelle sue molte facce.

Tenere d'occhio il posizionamento dei grosso della classe ed agire perché, nuove lotte e nuove esperienze, decantino ulteriormente il "clima": questo il compito di quella leva di operai combattivi che è emersa dalle lotte contrattuali e che si interroga oggi su compiti e ruoli. Noi ad essi non proponiamo nessuna scorciatoia organizzativa: il collegamento, a partire dal proprio luogo di lavoro, tra operai (iscritti e non al sindacato) non sarà - se non per necessità - e non vuole essere il surrogato alle difficoltà dei delegati e dei consigli. È un collegamento indispensabile a riprendere o ad intensificare il dibattito e la discussione collettiva dentro le fabbriche ed i luoghi di lavoro sulle esigenze di difesa classista dagli attacchi padronali e l'inadeguatezza sulla base di un preciso bilancio - della linea sindacale a questo scopo. Scadenze di verifica non mancheranno: contiamo di giungerci con un dibattito già avviato.