La questione sciita in Libano

UN POTENZIALE SOCIALE RIVOLUZIONARIO PIEGATO AL SERVIZIO DELLA REAZIONE


Le "ultime" vicende palestinesi in Libano (i campi della guerriglia e della popolazione civile sottoposti all'assedio di Amal sino allo stremo delle forze, lo sterminio per armi e per fame, lo spettro del "cannibalismo" come ultima via di provvisoria salvezza... ) non hanno smosso più di tanto la "pubblica opinione" internazionale se non, forse, nel senso - accortamente suggerito dai media d'Occidente - che tali destini sono in qualche modo scontati in un'area per sua natura "incivile" come quella mediorientale dove, orrore!, si osa persino catturare qualche civilissimo metropolitano da usare come materia di scambio per qualche centinaio di pezzenti indigeni. La sorte del popolo palestinese, che sin qui commuoveva allo spasimo sinistra extraparlamentare e sinistra ufficiale, che suggeriva a Papi e Presidenti della Repubblica gesti spettacolari di " umana simpatia" e che lanciava persino un Craxi a "irriguardosi" paragoni tra questa causa nazionale e il nostrano Risorgimento, non pare trovare più di questi echi emotivi e persino l'invio di "aiuti" ai palestinesi da parte dell'Occidente è accolto più come un "dovere di carità... cristiana" che come un tributo di solidarietà con la causa di un popolo da decenni privato della propria terra e sottoposto a infinite vessazioni e ricorrenti massacri. Ma c'è, evidentemente, di più, e di peggio. Gli "aiuti" in oggetto non costituiscono che una piccola e secondaria parte del problema relativo a ciò che "noi" dell'Occidente dobbiamo fare. Il senso è: ebbene sì, mandiamo un pugno di viveri a questi straccioni, ma in primo luogo vediamo di non lasciare ad essi, né ad altri consimili straccioni locali, i destini di un'area che appartiene al nostro "spazio vitale"; vediamo di essere presenti attivamente nella zona, a difesa dei nostri interessi, come c'impone in particolare, per quel che riguarda l'Italia, l'arrivo al quinto posto nella classifica mondiale dei paesi big del "mondo libero": vediamo di far coerentemente corrispondere al nostro potenziale industriale e finanziario un'adeguata politica diplomatica e militare (sempre più militare ... ) nella "nostra" zona d'operazione. Tutti d'accordo su questo. Il PCI sta smuovendo da un po' la sua diplomazia internazionale nell'area spostandola dal fronte pro-palestinese ad una più realistica considerazione da partito di governo in direzione dei "compagni" laburisti israeliani, da tempo partners dell'Occidente infine riscoperti come parte della "sinistra occidentale", per promuovere una "soluzione" del problema palestinese consono ai "nostri" interessi nazionali. E persino DP, chiamando a giornate di "solidarietà con la Palestina", dichiara perentoriamente che "ci rifiutiamo di dare per scontato che la collocazione dell'Italia nel blocco occidentale significhi la passiva accettazione delle 'compatibilità internazionali' decise dagli Stati Uniti, che significhi la rinuncia a qualunque possibile ruolo che noi possiamo esercitare nell'area mediterranea". Noi chi? Noi progressisti d'Occidente, noi italiani... È ben lontano il tempo della solidarietà, sia pur di facciata, tra proletari italiani e popolo palestinese "uniti nella lotta". La lotta passa ora per i ministri degli Esteri, per i traffici finanziari e militari e poco ci manca che da "sinistra", in nome del ruolo indipendente dell'Italia nei confronti dell’imperialismo USA, si rivendichi un autonomo ed autorevole rientro delle truppe italiane in Libano perché, come si sa, la pax italiana serve in primo luogo a noi ed a "tutti"...

Ma, tralasciando per un momento queste manifestazioni di sciovinismo aperto o mascherato su cui si cucinano i nuovi furori imperiali di un'Italietta riscopertasi "grande", c'è da considerare come la campagna di rimbambimento nazionalista abbia inciso sin in quella parte dell'ultrasinistra che non si è piegata e non si piega ai dettami craxo-napolitan-capanneschi di "ripresa d'iniziativa italiana sullo scacchiere mediorientale". Vi ha inciso in modo indiretto, se volete, nel senso che una volta di più, ed oggi in maniera quanto mai drammatica, queste forze si mostrano incapaci di andar oltre la retorica ufficiale della "solidarietà tra i popoli", propria delle stesse "nostre" sfere dirigenti, restando fedeli alle sue stolide promesse, con la conseguente impossibilità di offrire alla causa degli sfruttati del Medio Oriente una reale solidarietà militante internazionalista. I piagnistei sui "poveri palestinesi" sono certamente, quando sinceri, rispettabili rispetto agli eroici furori neoimperialistici nazionali, cionondimeno essi rappresentano uno squallido surrogato ai compiti che la tragedia libanese ci impone, impone a noi proletari, comunisti, internazionalisti d'Occidente.

Il nemico è lo sciita?

La politica rivoluzionaria non si fa con le lacrime né con l'indignazione morale. Commuoversi per le sorti dei "risorgimentali" palestinesi condannati al massacro (donne e bambini, vecchi e malati o, aggiungiamo noi, validi combattenti che siano, senza "anteporre" o separare gli uni dagli altri) è doveroso più che legittimo per i comunisti. Condannare l'operazione reazionaria di "ripulitura" del Libano dalia presenza palestinese cui si è dedicato Amal lo è altrettanto. Lo è, però, dal punto di vista degli interessi della rivoluzione in quest'area e nel mondo. Un obiettivo per il quale sappiamo che ancora, ed ancor di più, si dovranno pagare pesanti tributi di sangue perché più che mai saranno le armi a deciderne le sorti. L'essenziale è che i fucili siano puntati dalla parte giusta, contribuendo a dividere i fronti sul terreno di classe e non su quello dei conflitti "locali", "nazionali", "confessionali" ecc. ecc. su cui specula e prospera l'imperialismo, e l'imperialismo soltanto. La conclamata lealtà nei confronti del popolo palestinese e della sua causa sacrosanta non può allora confondersi oggi (se mai c'è stato un momento in cui una tale confusione potesse essere gabellata come legittima) con la solidarietà con le direzioni borghesi che la stanno portando alla sconfitta nell'isolamento e nella contrapposizione alla causa delle restanti masse sfruttate dell'area, con ciò favorendo gli interessi dell'imperialismo mondiale. Un certo fronte "propalestinese" si è sempre "dimenticato" di operare questa semplice distinzione, adattandosi costantemente alla politica della direzione dell'OLP ed ai suoi successivi giri di valzer "tattici" con questo o quello stato o blocco capitalista presentato come "garante" della causa palestinese. Quando noi eccepivamo, ad esempio, sulla collusione OLP-Siria, molti di questi "compagni" ci replicavano che a ciò obbligavano le convenienze di una guerra di liberazione che non può prescindere dalle opportune alleanze. Che altro occorrerà perché finalmente si veda che le posizioni che noi difendiamo non hanno nulla a che vedere con un rifiuto aprioristico, astratto, dei necessari momenti tattici e di compromesso, ma con una visione determinata dei reali coefficienti classisti di una lotta palestinese rivoluzionaria e vincente? Che le collusioni che noi denunciamo non sono questione di "tattica militare", ma ineriscono alla natura stessa che i vari Arafat (e sue code "più a sinistra") tendono ad imprimere alla lotta palestinese inserendola nel gioco inter-statale, con i suoi infiniti capovolgimenti di fronte e staccandolo dalle radici sociali di classe che una corretta impostazione del problema palestinese comporta per questa causa e per quella di tutta l'area? Le lacrime di Arafat sui massacri dei palestinesi operati dagli alleati di ieri devono suscitare solo indignazione per chi di questo massacro a pro degli interessi borghesi nell'area porta la responsabilità prima. Queste riflessioni risultano tanto più necessarie attualmente di fronte all'escalation antipalestinese di Amal. La riduzione del problema ad una generica condanna del "carattere reazionario di Amal" giova solo a confondere le carte sul tavolo. In primo luogo perché una tale condanna si riduce spesso a passare in second'ordine gli elementi delle politiche statali che stanno dietro ad Amal (ben al di là del solito Israele, punta di lancia dell'imperialismo d'accordo -, ma che sarebbe del tutto deviante vedere come fonte prima ed unica della tragedia in atto). In secondo luogo, questa condanna riduce la questione delle popolazioni sciite alla sovrastruttura religiosa e politica che, per ora, le egemonizza, al di fuori di ogni analisi di classe. Con la stessa tranquillità incosciente con cui ieri presunti "estremisti" salutavano il risveglio "religioso" sciita come elemento di progresso e, chissà, di un qualche nuovo ed insondabile socialismo islamico, oggi si può addossare ad esso, in quanto tale, ignorando le basi di classe da cui esso promana, come origine di tutti i mali contro il "progresso". Il nemico numero uno diventa lo sciita in quanto tale. Perché? Perché agita il Corano (lo stesso che agitano i palestinesi dall'altra parte della barricata)? Perché popolo barbaro e reazionario "per sua natura"? Senza che vi sia alcuna contraddizione con la denunzia precisa ed inequivoca del ruolo reazionario giocato da Amal, noi, a costo di scandalizzare certe anime vergini, affermiamo che la popolazione sciita del Libano rappresenta un potenziale rivoluzionario che spetta all'avanguardia comunista far proprio e la cui deviazione a fini reazionari deriva unicamente dall'azione combinata (non diciamo "concordata", si noti bene) di tutte le forze borghesi in campo, da quelle mediorientali a quelle metropolitane, ivi comprese le false posizioni "palestineggianti" degli Arafat e dei suoi esterni fan. Da Lenin abbiamo imparato che, da comunisti, dobbiamo denunziare e combattere ogni integralismo islamico reazionario, ma anche che ciò si fa non contrapponendo astrattamente ideologia ad ideologia, o comunismo a Maometto, bensì liberando gli elementi antagonisti di classe dalla scorza entro cui essi sono imprigionati dalle forze della reazione. Vedremo allora che gli sciiti libanesi rappresentano non solo una parte cospicua e crescente della popolazione del paese (il 35% secondo recenti stime rispetto al 26% del periodo antecedente la seconda guerra mondiale), ma la parte più povera, i diseredati, tra cui, non a caso, avevano affondato solide radici le tipiche organizzazioni del movimento operaio (partiti "comunisti" e combattivi sindacati) che proprio la politica stalinista è riuscita a compromettere di fronte alle masse (altro tema su cui sarebbe opportuno studiare e meditare per bene).

Contro Amal con le masse diseredate palestinesi e sciite

Questa popolazione prevalentemente composta di contadini poveri (mezzadri e semi-salariati) rovinati dalla guerra e costretti, a Beyruth in particolare, ad un inurbamento sottoproletario di massa, costituivano il naturale referente di una lotta che saldasse la questione palestinese alla liberazione sociale nel Libano ed in tutta l'arca, passando per lo scardinamento delle strutture borghesi dei vari paesi arabi. Ad essa l'OLP di Arafat ha risposto separando la causa palestinese da quella generale di tutti i diseredati dell'area, accontentandosi di istruire ed armare Amal (sì, proprio Amal!) in pura funzione anti-israeliana, come strumento da usare nella complicata combine delle distinte frazioni e fazioni libanesi. La causa dei palestinesi, che poteva diventare il faro di una generale riscossa sociale dei diseredati, è stata così gestita come la causa di un popolo (e di una borghesia) tra altri popoli (e borghesie), provocando, dopo una fugace luna di miele, uno spettacolare rovesciamento di fronte. Amal, la serpe che lo stesso Arafat si era scaldata in seno, morde la mano del suo "antico" protettore. I diseredati sciiti, che avevano combattuto assieme ai loro fratelli palestinesi, contro Israele guardano, e, a questa stregua, non possono che guardare ai palestinesi altro che come ad un elemento estraneo ed ostile, di "privilegiati" e "sfruttatori". Neppure la tragedia di Tall-al-Zatar del '76, nella quale la direzione di Amal si giocò molta della sua credibilità, è valsa a modificare la linea d'indirizzo dell'OLP, ma solo a modificare la politica di alleanze e fronti inter-borghesi pro domo sua. Confusi e calpestati nel Libano come gente senza identità, era naturale che gli sciiti aspirassero a riconoscersi come comunità, come popolo. Quest'esigenza legittima non era in contraddizione con una politica di classe. Tentativi di operare su questa direttrice sono stati parzialmente fatti (si pensi al concetto lanciato nel '75 dall’ "Organizzazione di azione comunista" di "comunità-classe" con la necessità di un unione dei diseredati in ogni comunità e delle comunità di diseredati tra loro" coll'apertura di una linea d'intesa con gli stessi diseredati cristiani). È stata la debolezza delle forze "comuniste" (la loro incapacità di elevarsi oltre la settorialità nazional-borghese, le loro ipoteche internazionali... ) a spianare la strada all'affermazione del fronte di Amal essendo il più deciso nell'affermazione dei diritti delle popolazioni sciite in quanto "popolo", mettendo a frutto la frantumazione nazionale e confessionale operata dalle altre forze della borghesia libanese, OLP e partito "progressista" druso non ultimi. Si ripete così in Libano l'experimentum crucis già vissuto, per altre vie e con altri esiti, in Iran. E tuttavia possiamo dire che, come in Iran col khomeinismo, la borghesia sciita non può pretendere d'aver chiuso la partita. La massa dei diseredati sciiti libanesi non potrà trovare riscatto nell'ambito della pretesa sistemazione "territoriale" promossa da Berri. Inoltre, e di più, questa massa è tutt'altro che unitaria al proprio interno, bensì divisa tra settori di piccola e media borghesia "rampante" (che trova in Berri il proprio portavoce) e la stragrande maggioranza di contadiname povero. A misura che questo "popolo" andrà ritagliandosi ulteriori spazi nell'area questa divisione tenderà ad approfondirsi riportando a galla l'antagonismo sociale entro la stessa compagine "unitaria" sciita che oggi sonnecchia e si esprime a livello di tensioni molecolari tra questa e quella tendenza del "fronte" Amal o nell'opposizione ad esso di persistenti minoranze classiste. L questo antagonismo che deve trovare una sponda di classe nelle posizioni e nella lotta di un'avanguardia comunista organizzata in Libano. Ed è indubbio che, in questo quadro, pesi sui palestinesi il massimo di responsabilità, data proprio la funzione centrale che la loro lotta assume per gli equilibri di tutta l'area. Che, d'altra parte, già ora l'identificazione sciiti-Amal non sia totale lo dimostrano sia la spaccatura degli sciiti nell'assedio dei campi, che il rafforzarsi, nello stesso "campo religioso" degli Hezbollah e, ancor più significativamente se non quantitativamente, quella che Le Monde definisce una ripresa, in seno agli sciiti, delle organizzazioni "comuniste" o "maoiste". Contro Amal e il suo capo reazionario Berri, dunque, ma, per questo, anche contro la politica disfattista degli Arafat e soci; con le masse dei diseredati palestinesi e sciiti di conseguenza. Solo per questa via si aprirà in Libano la strada del riscatto nazionale e sociale e, contemporaneamente, si sbarrerà la strada all'intromissione imperialista che oggi vi fa il bello e il cattivo tempo. Non è questo, per parafrasare e ritrascrivere in caratteri marxisti, il passaggio di DP che abbiamo citato all'inizio, il ruolo che anche noi, proletari comunisti internazionalisti, "possiamo esercitare nell'area mediterranea"?