Dalla viva voce di alcuni giovani lavoratori: flash su condizione, sentimenti e speranze della nuova generazione proletaria.

Abbiamo raccolto in un’ideale tribuna alcuni interventi di giovani lavoratori

apparsi sui giornali o su alcuni siti sindacali.

Il racconto reciproco delle proprie esperienze contribuisce a spezzare l’isolamento

in cui i giovani proletari vivono la loro condizione di sfruttamento.

E può essere parte della costruzione di un’organizzazione collettiva di difesa

della classe proletaria.

Invitiamo i lettori a inviarci lettere e racconti, a usare il nostro giornale come

una loro reale tribuna.

Indice


Caterina Pilo, delegata Cgil-Nidil,

al XIV congresso della Cgil il 7 febbraio 2002 (*)

"Non sono nuova all’appartenenza al sindacato, che per la mia famiglia operaia, che un tempo si sarebbe definita proletaria, è un fattore imprescindibile, una questione di identità (...) Sono però nuova alla partecipazione attiva e questo è stato per me il primo percorso congressuale: l’assemblea di Nidil a Genova, il congresso regionale, l’assemblea nazionale di Nidil ed ora qui, a Rimini, per l’appuntamento più importante.

Ho ascoltato avidamente tante riflessioni, tanti interventi, tante parole: un’esperienza bellissima ed emozionante, che non vorrei rimanesse isolata. Qualcuno ha detto: "anche se non ti occupi di politica, la politica si occupa di te"; credo che questo sia molto vero ed è perciò che ritengo importante contribuire e partecipare piuttosto che rinchiudersi in una dimensione solo privata, comune a molti.

Vorrei soltanto portarvi la mia esperienza, di giovane lavoratrice in un mercato del lavoro in grande trasformazione.

Di questo mercato del lavoro, flessibile e precario sono, come lavoratrice atipica, un tipicissimo esempio. Quelli come me li chiamano "co.co.co.", una sigla che suona poco seria.

Mi occupo della gestione di un’organizzazione non profit, oltre che di organizzazione congressuale e di formazione. Ho 34 anni e sono laureata. Lavoro tutta la settimana e spesso, per i legami con il volontariato, anche sabato e domenica.

Lavoro anche 10-12 al giorno e spesso, proprio per il peso quantitativo che il mio lavoro occupa durante la giornata, con le dovute proporzioni, mi pare di essere una lavoratrice tessile di inizio secolo, quando lo sviluppo capitalistico mostrava il suo volto più ruvido e duro, quando tra la fine della giornata di lavoro e l’inizio della successiva restava solo il tempo di ricostituire la forza lavoro.

I collaboratori (quelli "puri", che come me hanno più committenti) lavorano a quattro commesse o incarichi alla volta, perché con uno solo non riescono a sopravvivere, vuoi per le modalità di pagamento, vuoi, aggiungo io, perché è difficile potersi permettere di dire dei no, che potrebbero pesare sul tuo lavoro futuro. (...)

Vedo il lavoratore atipico solo fra i lavoratori e non vorrei vedere un Nidil solo all’interno del sindacato. Nidil deve essere strutturato e rafforzato, con l’impegno di tutta la Cgil. (...)

Rappresentare il lavoro atipico e precario è una delle grandi sfide che la Cgil dovrà affrontare nel più prossimo futuro. Il lavoro atipico è diventato quasi l’emblema di questo rischio di precarizzazione del lavoro, che tende ad ampliarsi fino a divenire condizione generale per tutta la forza lavoro. Mi guardo bene dall’affermare, come fanno alcuni, che la strada maestra per proteggere i lavoratori atipici, dispersi, sommersi, sia quella di togliere diritti e protezione agli insider, a quelli che questi diritti li hanno come affermano alcuni esponenti del Polo (...) Di fronte a questo disegno, la battaglia invece deve essere questa: ai lavoratori atipici e parasubordinati vanno riconosciute le fondamentali tutele garantite ai lavoratori dipendenti, evitando che si realizzi un modello di precarietà diffusa e di flessibilità selvaggia. L’aumento di pressione previdenziale senza nessun aumento delle prestazioni è la prova dell’assedio al lavoro flessibile, per poi estendere l’attacco alla città del lavoro dipendente. Io non credo alla flessibilità creativa, definizione che ho sentito da un autorevole esponente della sinistra italiana, mio concittadino. Ho molte perplessità sul binomio flessibilità = creatività, non vedo creatività nella precarietà. Sono convinta che, per molti, flessibilità significa incertezza, costrizione e riduzione della libertà.

Il lavoratore precario spesso è un individuo precario, in tutte le sfere della sua esistenza: non può pianificare la sua vita, fare progetti, non può liberamente professare le sue idee sotto la costante minaccia della perdita del lavoro, non ha facilmente accesso al credito, come ho sentito dai compagni e dalle compagne intervenuti a Fiuggi (al congresso nazionale del Nidil), e difficilmente è considerato affidabile per affittare una casa. Come vedete, la precarietà del lavoro è la precarietà dell’individuo, ne erode le certezze e le sicurezze. (...)

Il lavoro da fare è molto. Ma è necessario promuovere la partecipazione, formare quadri e programmare interventi per avvicinare i lavoratori atipici, ad esempio, fuori dalle agenzie di lavoro interinale, nelle manifestazioni a grande partecipazione, negli eventi sportivi, attraverso la co-promozione, di cui tanto ho sentito parlare a Fiuggi, avvicinando quello che viene definito "terzo settore", dove si apre la vera sfida della contrattualizzazione del lavoro, contro il diffuso sommerso (volontariato retribuito) e le forme precarie di rapporto di lavoro.

Non voglio dimenticare poi un aspetto importante: il sindacato deve difendere non solo i lavoratori atipici con scolarizzazione medio-alta, addetti a funzioni elevate e specialistiche nelle aziende e nelle istituzioni, inseriti nell’università o negli istituti di ricerca, dove numerosi sono contratti di collaborazione. Difendiamo anche loro, ma rivolgiamo un’attenzione particolare ai lavoratori che tali nuove opportunità contrattuali hanno fatto emergere dal sommerso, che sotto il velo delle forme di collaborazione, ricoprono incarichi del tutto riconducibili al lavoro dipendente, con il solo vantaggio della parte padronale che gode della liberalizzazione delle causali per il ricorso ai contratti atipici.

Il NidiL non può ridursi a svolgere un ruolo meramente di servizio, anche se tale attività non può essere ignorata vista l’estrema parcellizzazione di questa forma di rapporto di lavoro e i molteplici bisogni che si concretizzano in numerosi quesiti che necessitano di risposte specifiche. L’obiettivo generale però deve essere più alto e ambizioso: lavorare per l’estensione delle tutele individuali e collettive. Oltre ai permessi sindacali retribuiti, mancano veri congedi per la maternità, le indennità di malattia, una seria politica per la formazione continua dei lavoratori parasubordinati e la certificazione delle esperienze professionali e formative.

Vorrei qui ricordare una frase che Don Milani ha scritto nella nota lettera ad una professoressa: "Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica". Per quanto mi riguarda voglio impormi di dedicare un maggiore e rinnovato impegno personale, per collaborare a stimolare la militanza, per dare più forza e incisività all’organizzazione dei lavoratori ed alle sue istanze politiche e programmatiche e rendere più visibili i valori e gli interessi rappresentati dal mondo del lavoro. E al suo interno dei lavoratori meno protetti e tutelati.

Cosa mi aspetto da questo percorso congressuale? Una Cgil con nuova spinta e motivazione nel raccogliere la sfida di rappresentare il lavoro diffuso, parcellizzato delle nuove identità di lavoro. (...) Anche dare diritti a chi non li ha ancora, impone di recuperare l’orgoglio e la motivazione del sindacato degli albori."

Sull’Unità dell’8 febbraio così chiudeva il racconto della sua partecipazione al congresso di Rimini:

"Abituata alla solitudine a cui il lavoro parcellizzato ti costringe, l’esperienza più importante è stata quella di sentirmi parte di una grande comunità, quella dei lavoratori, che opera per i diritti di tutti, secondo un principio di solidarietà.Lascio Rimini con una nuova, rinnovata voglia di partecipare."

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Un gruppo di operai

della Sicor-Bologna

 

La Sicor è una delle fabbriche nate dallo smembramento della Sabiem, la storica fabbrica di ascensori di Bologna. Ora dentro l’ex Sabiem vi sono gli stessi reparti (fonderia, motori, cabine), ma facenti capo a ditte diverse. I padroni ovviamente di queste divisioni hanno giovato, gli operai divisi sono il migliore contesto per un padrone per impostare la produzione, divisione che si attua anche dentro la fabbrica tra livelli, tra le diverse tipologie contrattuali… Non pensiamo con queste note di spiegare tutto, ma di stimolare un confronto tra operai, per dare vita a momenti di iniziativa politica e organizzativa tra operai.

È da circa due anni che ci stiamo rendendo conto del ‘traffico’ di precari che c’è in azienda. Stranamente, infatti, solo tre dei 24-25 che secondo i nostri dati sono entrati e usciti dal nostro reparto sono stati assunti come fissi: per uno di questi operai abbiamo dovuto fare uno sciopero di alcune ore. Il padrone di Rovereto, dove ha sede centrale la Sicor Italia, insieme ai padroni bolognesi non avevano intenzione di assumere o di rinnovare il contratto agli operai precari, mentre avanzavano pretese del tipo: ‘aumenti di ordinazioni per vendite’ e richieste sempre più frequenti di straordinari al sabato… (…)

Non mancano poi le varie forme di pressione fatte ai danni dei precari, con ricatti e violenze psicologiche del tipo ‘se vuoi che ti rinnoviamo il contratto devi aumentare la produzione perché dall’alto si lamentano del tuo scarso rendimento’ oppure ‘se vieni a lavorare anche il sabato, i dirigenti ti danno la possibilità di un rinnovo o addirittura di un’assunzione fissa’. (…)

Noi produciamo dei montacarichi per ascensori, lavoriamo dei pezzi di ghisa alle macchine utensili (…) È normale che certi macchinari che lavorano certe materie prime siano muniti di aspiratori di fumi, invece da noi lo è solo per metà delle macchine, senza contare i due forni. (…)

Il sindacato interno è legato alla Fiom e subisce la passività di tanti operai o non aiuta quelli combattivi. Non riesce ad essere strumento di organizzazione operaia, vive passivamente le scadenze nazionali e regionali, non provando a promuovere discussioni e momenti di informazione in fabbrica. (…) Veniamo da una fabbrica che è stata spezzettata, lavoriamo in capannoni vicini ai nostri ex compagni di lavoro, ma non si è ancora pensato di organizzare momenti di collegamento tra i pezzi dell’ex Sabiem e promuovere forme di collegamento territoriale (in quartiere esistono altre fabbriche importanti, come la Magneti Marelli). Si respira insomma un’aria di cieco aziendalismo, arrivando all’assurdo di non interessarsi della condizione dei nostri compagni di lavoro di Rovereto. Si invoca sempre il distaccato sindacale, quasi fosse un santone che può risolvere le questioni, non accorgendosi che l’iniziativa politica la devono prendere gli operai in prima persona, se il distaccato sindacale rappresenterà un freno possiamo fare a meno anche di lui, gli scioperi da che mondo è mondo li hanno organizzati gli operai sia sotto la dittatura che sotto la democrazia. Non importa quanti siamo a partire, pochi o tanti, ma già il solo pensare che i problemi in fabbrica non sono questioni private tra noi e il padrone, ma toccano aspetti sociali più ampi sarebbe già un primo passo. La lotta non è necessaria perché ci sono alcuni operai più incazzati di altri, ma perché il padronato ci impone questo livello di scontro e di mobilitazione.

Gli operai sono spaventati per le conseguenze dell’abolizione dell’art. 18, e quindi decisi a lottare contro la sua abrogazione. Tuttavia non c’è ancora stata da parte operaia una seria comprensione del precariato e del ricatto padronale che viene imposto ai lavoratori. Speriamo di non dover essere costretti ad accorgercene quando saremo tutti precari.

Rompiamo quindi il ‘legame’ ce c’è tra noi e i padroni, vi ricordate come si è boicottata la cena padronale, iniziamo a pensare con la nostra testa e non con quella del padrone, agiamo autonomamente per i nostri interessi

(dal foglio d’informazione Zona Industriale, n. 1 anno 2002)

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"Siamo operai

con mani e teste vincolati

a una catena ‘fordista’...

"Noi operatori dei call center (operanti 24 ore su 24 per tutto l’anno), che nel solo gruppo Telecom siamo 17.000, rispondiamo dalle sedi Telecom lungo la Tiburtina e da Napoli (isola direzionale 2), dalle cui svettanti costruzioni si osserva l’ormai silenziosa piana di Bagnoli; o anche dall’Atesia a Roma e a Caltanissetta, dalla Saritel a Pomezia, dalla Telecontact a Napoli, dalla Datel di Crotone...

Siamo diversificati e divisi da vari canali d’ingresso delle chiamate, confluenti in stabilimenti aziendali (fabbriche?) che concentrano 5.000 ‘risorse’. Così siamo frammentati dai diversi trattamenti salariali. Siamo però sempre più omogenei -praticamente indistinguibili l’uno dall’altro- per quanto riguarda la sostanza del nostro lavoro. (...)

Siamo operai con mani e teste vincolati a una catena ‘fordista’, anche se non immediatamente percepibile nella sua materialità: le nostre mansioni sono estremamente parcellizzate, i ritmi intensificati e la giornata lavorativa allungata. Il sistema informativo nei call center della Telecom e della Tim -su cui lavoriamo tutti (‘garantiti’ e non)- è costituito su piattaforme software che preordinano e comandano ogni nostra operazione nei minimi dettagli. (...)

Ma c’è anche un altro aspetto, altrettanto importante, che riguarda il lavoro in tutti i call center: (...) i sistemi high-tech che ci usano manifestano la loro specifica capacità d’intensificare il nostro sfruttamento riuscendo a coinvolgere anche la nostra intenzionalità: la macchina ci interfaccia con il cliente, un altro individuo col quale siamo stimolati, quasi in modo ‘subliminale’, a mettere in gioco non solo l’inerzialità esecutiva degli script, ma anche e soprattutto la nostra duttilità, la nostra inventiva. È quasi un riflesso automatico: in qualche modo l’utente si sostituisce all’azienda nel conferire ‘senso’ al nostro lavoro. Solo per questo ‘doniamo’ all’azienda, volendolo o no, la famosa ‘qualità’. (...) Qui sta la pesantezza del nostro lavoro ma anche la vulnerabilità dell’azienda rispetto a un’eventuale nostra ritrovata capacità di lotta collettiva. E tale obiettivo impone di ripartire dalla nostra condizione lavorativa materiale: l’applicazione del contratto collettivo di settore a tutti, la diminuzione dei carichi di lavoro e la riduzione dell’orario di lavoro sono la piattaforma rivendicativa che può riunificare la frammentata galassia in cui siamo attualmente scompaginati, superando quelle divisioni che non possono che incrementare la già insopportabile precarizzazione di noi tutti.

Da una lettera al manifesto (18 luglio 2002) dei lavoratori e lavoratrici dei call center aderenti al Cobas Telecomunicazioni

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Dialogo a quattro sul sito www.tutearancioni.org

alla vigilia dello sciopero generale del 16 aprile

1. "La forza che darete ai sindacati sarà usata per difendere quelli che il posto di lavoro fisso ce l’hanno già..."

2. "La questione è che in piazza [a Roma il 23 marzo] non c’era solo gente che difendeva l’art. 18 quindi solo chi il posto di lavoro ce l’ha già ma che rivendicava anche che l’art. 18 si estenda a tutti anche alle aziende al di sotto dei 15 dipendenti e che tutti i contratti a termine si trasformino in contratti a tempo indeterminato... e per un rilancio dell’occupazione..."

3. "L’articolo 18 non è una barricata da difendere. È una barricata da superare per porne altre, tra cui l’estensione dello statuto dei lavoratori alle aziende con meno di 15 dipendenti, la riduzione dell’orario di lavoro e l’abolizione del lavoro interinale -contro il pacchetto Treu regalatoci dal governo di ‘centro-sinistra(?)’-. Per ribadire che non siamo ‘risorse’ ma persone."

4. "Penso anch’io che non basti difendere l’art. 18. Ma non si può pensare che il diritto ad avere un determinato lavoro possa venire espropriato ad arbitrio del datore. Si pensi alla provocazione di Franca Rame che ha simulato dei licenziamenti per i motivi più futili (es. abbigliamento sbagliato) per far vedere come, togliendo questa garanzia fondamentale, il lavoratore è lasciato indifeso. Quindi, pur aumentando le garanzie e migliorando la qualità della vita con istituti come le 35 ore, l’art. 18 resta un caposaldo essenziale da difendere."

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Una lettera al nostro giornale

Melfi: da "prato verde" per la Fiat a

"prato verde" per la lotta operaia

Quando la Fiat decise, alla fine degli anni ’80, di realizzare la fabbrica integrata legò questa scelta alla presenza del cosiddetto "prato verde". Il nuovo stabilimento sarebbe sorto in un territorio caratterizzato da un bassissimo grado di industrializzazione e da un alto tasso di disoccupazione. Questo avrebbe garantito non solo una manodopera a buon mercato, non sindacalizzata, facilmente ricattabile e rimpiazzabile, ma anche la mancanza di esperienze industriali, requisito imprescindibile, a detta degli stessi dirigenti Fiat, per la realizzazione della fabbrica integrata.

Alla base del concetto "greenfield", e delle scelte che comportò, vi è però un duplice errore. L’azienda temeva che un ambiente a "memoria operaia" avrebbe potuto influenzare l’organizzazione del lavoro nel nuovo stabilimento. Gli operai avrebbero in pratica introdotto autonomamente quegli aspetti della fabbrica fordista che dovevano essere superati. Sarebbero stati pertanto loro i responsabili della presenza nella fabbrica di rapporti sociali improntati al conflitto, responsabili della struttura autoritaria e gerarchizzata, responsabili persino della natura alienante del lavoro. Qui risiede il primo errore. E’ il sistema di produzione che condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. E’ la fabbrica stessa a generare il conflitto, la non cooperazione, la coscienza e la memoria di classe. (…)

La prova e la diretta conseguenza di tutto questo è il percorso di lotta e di presa di coscienza che i giovani operai meridionali hanno intrapreso. La fabbrica integrata, lungi dal creare nei lavoratori "consapevolezza e orgoglio", e dal renderli partecipi alla creazione di "un nuovo modello di relazioni umane nella fabbrica", sta creando essa stessa "cultura operaia". L’immagine propagandata si è dissolta ben presto davanti all’esperienza diretta degli operai, si è infranta inevitabilmente davanti ad una realtà che registra a Melfi un aumento dell’intensificazione del lavoro del 20%. La saturazione individuale media del tempo di lavoro degli addetti di linea arriva al 94,3%, mentre la produttività per addetto è sei volte superiore agli stabilimenti di vecchia concezione. Lavoro notturno anche per le donne, slittamento dei riposi settimanali, produzione ininterrotta per sei giorni la settimana con la domenica dedicata alla manutenzione, il tutto ripagato con uno stipendio medio del 20% inferiore dei colleghi di Mirafiori. La realtà parla anche di un sistema interno gerarchizzato, di politiche apertamente antisindacali, della continua minaccia di licenziamento o di mancato rinnovo del contratto in una regione con un tasso di disoccupazione attestato attorno al 23%. Tutto questo ha spinto i giovani operai meridionali (tutte le assunzioni avvengono con contratti di formazione-lavoro che escludono i maggiori di 32 anni) ad intraprendere fin dalla metà del decennio scorso tutta una serie di agitazioni che hanno definitivamente sancito il fallimento di un modello che si pretendeva a-conflittuale. Condizioni di lavoro, mobilità interna, comportamento antisindacale, nocività, velocità di linea: ecco i motivi principali della mobilitazione. Ma sono vive anche tematiche più profonde, segno del raggiungimento di una certa maturità, quali la partecipazione agli scioperi nazionali, le astensioni dal lavoro in difesa dei lavoratori interinali e le prese di posizione contro i processi di terziarizzazione, le politiche nazionali per il mezzogiorno, la mancanza di vere inchieste operaie di massa. La rabbia maggiore è però riservata al sindacato concertativo che finora ha reso possibile tutto ciò. Ad esso si indirizza una critica profonda, lucida, impietosa, capace però di rilanciare parole d’ordine unitarie con la richiesta di "rivitalizzare il Coordinamento nazionale del gruppo Fiat". A queste richieste è necessario rispondere positivamente, per non abbandonare questa giovane classe operaia alla montante offensiva anti-operaia. E’ necessario inoltre rimuovere quelle menzogne che ancora incatenano le classi lavoratrici alle politiche concertative e riformiste, al sistema partitico, alle volontà del mercato, alle commemorazioni per l’11 settembre, per raggiungere finalmente una consapevolezza politica capace di riunire nella lotta lavoratori e disoccupati, lavoratori immigrati e italiani, interinali e "garantiti".

(Luigi D.)