Caso Parmalat:

autoritratto del capitalismo

 

Una "truffa" casereccia e di provincia? L’avidità senza fine di un uomo? O il modo di essere delle grandi imprese e della politica economica degli stati occidentali?

Il caso Parmalat è esploso presso la pubblica opinione come un fulmine a ciel sereno. Intanto, proprio nei giorni in cui iniziava a venire a galla la reale entità della vicenda, l’Italia era attraversata dagli scioperi dei ferrotranvieri. Da un lato gente che lavora nel traffico tutti i santi giorni, che fa i turni, che campa con salari che superano appena i mille euro e a cui si nega un aumento contrattuale di ventisei (!) euro mensili. Dall’altro lato il signor Tanzi e la sua corte di manager e consulenti. Persone importanti e "per bene" con saldissime ed influenti amicizie nel mondo politico e bancario. Persone coi guanti bianchi che gli euro li sanno contare solo a milioni.

"È una vera vergogna, un vero scandalo - hanno detto e pensato molti lavoratori - da anni ci chiedono e ci impongono sacrifici su sacrifici, e poi, eccoli lì pronti a fare queste cose". Già, è proprio così. Ma perché accadono queste cose?

Una delle tesi più gettonate per "spiegare" il caso Parmalat è che ci si è trovati davanti all’emergere di una "truffa" architettata alla perfezione e quindi impossibile da prevedere anticipatamente. In sintesi Tanzi e Tonna, autentici maghi del falso in bilancio, avrebbero fatto fessi tutti. Semplici risparmiatori, Banca d’Italia, Consob, governo, consigli d’amministrazione dei maggiori istituti di credito italiani ed esteri: tutti allo stesso modo fregati e tutti ingenue ed ignare vittime del "duo delle meraviglie". A sentire l’indignazione ed il candore con cui ne parlano banchieri come Fazio e Geronzi verrebbe quasi da credergli…ma una rapida occhiata ai dati del crack fa emergere una realtà completamente diversa.

Un "affare" dalle dimensioni mondiali

Vediamo alcuni numeri. Il debito cumulato dall’azienda sembrerebbe sfiorare i quattordici miliardi e mezzo di euro, cifra equivalente all’1% del prodotto interno lordo italiano e, tanto per rendere meglio l’idea, all’intero prodotto interno lordo di un paese come la Bulgaria. La Parmalat è (era) per fatturato il nono gruppo industriale nazionale ed il quarto nel comparto agro-alimentare a scala mondiale. Il "buco" non si è costituito come d’incanto e all’improvviso, ma nel corso di almeno una decina d’anni in cui i bilanci della multinazionale sono stati sempre falsificati con la partecipazione proprio di quegli organi deputati a certificarne la regolarità (le famose agenzie internazionali di revisione). Il tutto senza che gli organi di vigilanza e controllo della Banca d’Italia e della borsa sospettassero alcunché? Senza che minimi dubbi turbassero i sonni delle principali banche italiane ed internazionali verso cui è concentrato l’80% del debito Parmalat?

Che strano, provi qualche lavoratore ad andare in rosso sul conto corrente per qualche centinaio di euro e vedrà che dopo pochi giorni una telefonata di un solerte funzionario di banca lo inviterà a "rientrare" velocemente. Eppure in questo caso colossi finanziari come le "locali" Capitalia e Banca Intesa, o come le statunitensi Citybank e Bankamerica, la tedesca Deutsche Bank o la svizzera UBS, non si erano accorti di nulla...

Ma non basta. Fino a novembre 2003 (cioè fino a poche settimane prima del crac) i maggiori istituti di analisi finanziaria mondiale giudicavano ufficialmente i titoli dell’azienda emiliana positivamente e ne consigliavano alla clientela la conservazione e l’acquisto.

Altro che "truffa" familiare! Tutta un’impalcatura istituzionale (agenzie di revisione e di rating, organi di controllo della borsa e del credito, una schiera di "esperti" e consulenti, ecc.) risulta pienamente coinvolta e cointeressata alla "questione". Per anni la Parmalat è stato un "buon affare" per tutti costoro, a cominciare dalle banche che in essa hanno trovato una strordinaria mucca da mungere a suon di commissioni ed interessi passivi. Poi, gira che ti rigira, il cerino è rimasto nelle mani del (relativamente) meno forte: mister Tanzi. Ma questo è accaduto perché è debole, sul mercato capitalistico mondiale, il sistema-Italia nel suo complesso e perché il sistema capitalistico stesso sta scivolando in una crisi storica generale che ha fatto colare a picco le economie e i continenti "meno sviluppati capitalisticamente". Ora la falce comincia a toccare le potenze capitalitiche più deboli della cittadella occidentale.

Tanzi e Tonna in buona compagnia

Sono i fatti a dire che quello Parmalat non è un caso isolato Negli ultimi dieci anni (vedi scheda accanto) una serie di "scandali" finanziarii di enorme portata hanno attraversato i mercati europei ed americani. Vivendi, Worldcom, Cirio, Enron, Argentina… l’azienda di Collecchio come si vede è in buona e nutrita compagnia. Come mai? A cosa è dovuto lo svilupparsi continuo di questi fenomeni che "inaspettatamente" bruciano miliardi di dollari e di euro e che distruggono o mettono a rischio migliaia e migliaia di posti di lavoro? L’imbroglio, la corruzione e la fregatura sono elementi che da sempre fanno parte del mercato e del suo modo di funzionare, ma per provare davvero a capire le cause degli "scandali" tipo Parmalat è necessario volgere lo sguardo altrove. Il vero nodo della questione infatti non va ricercato nella "truffa", ma nell’impressionante processo di indebitamento che è proprio di tutte le aziende.

Qualche dato. A fine 2002 (fonte il Sole 24 ore) i quarantatré maggiori gruppi industriali e di servizi italiani risultavano avere debiti per quasi centosessanta miliardi di euro con un incremento di circa cinquanta miliardi rispetto al 1999. Inoltre una parte crescente (quasi i due terzi) di questo debito risultava contratto sul mercato attraverso l’emissione di obbligazioni (gli ormai famosi corporate bond). In pratica più le imprese sono grandi, maggiore è la loro propensione a contrarre debiti. Se poi diamo uno sguardo al di là della nostra penisola vediamo che questa regola ne viene rafforzata e la si può applicare non solo alle aziende, ma anche agli stati. Non a caso quello statunitense è in testa alla classifica con un debito ben più ampio di quello dei paesi del Sud del mondo. È l’intera economia capitalistica a scala mondiale che corre sul filo del rasoio, altro che i magheggi parmigiani di Tanzi e Tonna.

Ossigeno indispensabile

Ma perché questa enorme massa di debiti? Per provare a capirci qualcosa dobbiamo (semplicifcando un po’) partire da un fatto che può apparire scontato: ogni imprenditore, ogni azienda, produce (sarebbe più corretto dire: fa produrre ai "propri" operai) delle merci al fine di venderle e di realizzare un profitto. Il mercato è quindi come una grande arena, un grande colosseo, dove le varie imprese sono in perenne e accesa competizione tra loro. Ogni azienda, per sopravvivere in questa giungla, deve difendere con i denti le proprie quote di mercato e, contemporaneamente, tentare di crescere andando all’assalto dei concorrenti. La chiave per essere competitivi è al fondo sempre doppia: accrescere lo sfruttamento di chi lavora e investire costantemente in attrezzature più moderne al fine di sfornare merce a prezzi concorrenziali. Oggi, che la partita si gioca pienamente a livello mondiale, questi due fattori vengono esasperati al massimo.

Da un lato è sotto i nostri occhi un deciso incremento dello sfruttamento del lavoro a scala planetaria che si manifesta con lo schiacciamento di interi popoli e (ormai anche qui in Occidente) attraverso l’allungamento degli orari, l’aumento dei ritmi, la compressione dei salari, fino a giungere al tutt’altro che marginale "fenomeno" delle decine e decine di milioni di bambini schiavi-operai che in tutto Sud del mondo vengono brutalizzati dalle multinazionali sull’altare del profitto.

Dall’altro lato, e parallelamente, per reggere il livello di concorrenza odierno sono indispensabili in tutti i campi investimenti giganteschi. I macchinari e le tecnologie necessarie sono costosissime e devono essere costantemente mantenute all’avanguardia, le spese in promozione e pubblicità assumono proporzioni faraoniche. Si aggiunga inoltre che la battaglia per il predominio sul mercato si combatte sempre più anche a colpi di acquisizione tra compagnie dalle dimensioni mondiali e il quadro sarà ancora più chiaro.

Ci sia consentito un paragone calcistico. Ieri - quando la "champions league" si chiamava ancora coppa dei campioni - per avere una squadra vincente a livello nazionale e continentale servivano fondamentalmente un buon allenatore, un paio di campioni ed una decina di discreti gregari. Tutte cose a cui un presidente coi soldi disposto ad investire poteva provare a far fronte. Oggi, per emergere e sedere alla tavola di quei pochi club che si spartiscono la ricchissima torta dei proventi calcistici, sono indispensabili staff e attrezzature mediche d’avanguardia, preparatori atletici, allenatori di tutti i tipi e, soprattutto, è necessario avere rose con più di venti costosissimi giocatori "da nazionale" per reggere gli impegni e sottrarre "campioni" agli avversari. Risultato: ruolo sempre più importante delle banche all’interno delle società calcistiche, debiti alle stelle, fallimenti illustri come quello della Fiorentina e... doping.

Insomma (e qui abbandoniamo il calcio) quella a cui si sta assistendo è una lotta al coltello tra giganti. E per prevalere (l’alternativa è finire inghiottiti dagli altri) questi colossi hanno necessità di una tale massa di finanziamenti e di denaro da essere obbligati a ricorrere ad un crescente indebitamento che diventa allo stesso tempo ossigeno vitale e corda al collo che rischia di soffocare.

Ma c’è di più. Il capitale, per sua natura deve valorizzarsi, deve "generare" profitto. Ma l’esaurimento del ciclo di sviluppo successivo alla seconda guerra mondiale sta rendendo questo stimolo dell’accumulazione capitalistica mondiale sempre più debole, per i motivi strutturali che vengono analizzati nel Capitale di Karl Marx. I capitalisti stanno tentando da almeno un ventennio di forzare questo limite. Uno dei modi con cui lo fanno, è il dilagante ricorso al debito ed alla cosiddetta "finanza creativa". Il che è poi anche il modo per attrarre i risparmi e accentrarli nell’investimento delle maggiori imprese.

Un gigantesco aspiratore

L’indebitamento, infatti, è anche (e in un certo senso soprattutto) uno strumento con cui il grande capitale risucchia a sé i tantissimi piccoli e piccolissimi capitali sparsi per il mondo intero. Per questa via una multinazionale può operare grossi investimenti impiegando pochi capitali propri, può insomma ridurre al minimo i rischi e scaricare le eventuali perdite sul vasto popolo dei "risparmiatori".

Vita e amicizie

di un grande

 borghese

"Per Cragnotti l’esperienza brasiliana ha funzionato come scuola di vita in un paese dalle storie imprenditoriali tormentate e, spesso, assai discusse. Fin dall’inizio però ha potuto contare su un protettore molto influente: Mario Garnero, banchiere d’affari ben introdotto negli ambienti politici e finanziari internazionali, fondatore a metà anni 70 della Brasilinvest, punto di riferimento per una fetta significativa delle multinazionali interessate agli investimenti in Brasile. (…) Caratteristica del personaggio, lobbista formidabile, è la capacità di relazioni che gli ha permesso di coltivare contatti con i massimi esponenti della politica americana: da Henry Kissinger a Ronald Reagan, fino a George Bush senior. Ma anche di avere come consiglieri nomi ben conosciuti come William Cohen (uomo chiave dell’amministrazione Clinton), l’imprenditore argentino Francisco Macri, il magnate cinese David Tang di Hong Kong e l’italiano Carlo De Benedetti. Pronto a fare della sua villa di Cap Ferrat, in Costa Azzurra, punto d’incontri ad alto livello."

(Da il Sole 24 ore, 20 gennaio 2004)

Un piccolo quadretto di vita normale della borghesia, niente di particolarmente sorprendente o scandaloso. Poniamo al lettore una semplice domanda (retorica), degna da quiz televisivo: posto che questo genere di signori non potranno mai essere scalfiti nelle loro posizioni di comando da alcuna pratica legale o democratica, da nessuna libera consultazione elettorale, come arriveremo un giorno, e quel giorno verrà, a sradicare una simile cancrena, a spazzare via simili parassiti dalla faccia della terra? Con il voto all’Ulivo?

Come funziona la faccenda? Basta guardare proprio a ciò che la Parmalat ha dovuto (dovuto!) fare per tentare di guadagnare posizioni a livello internazionale (quella dell’azienda parmense non è stata infatti una crisi finanziaria "astratta" - mai ne esistono di tali - maturata in un ambito separato da quello della produzione, ma è nata da un tentativo di superare le difficoltà produttive e di mercato). Emissione di obbligazioni a tassi remunerativi sul mercato, collaborazione dei fondi d’investimento e delle banche (che intanto intascano fior di commissioni per le loro prestazioni) nel convogliare i piccoli e medi risparmi su questi titoli, nuove emissioni obbligazionarie per pagare quelle precedenti in scadenza… e così via fino a quando il mercato "tira" o il gioco regge, poi il crack con i "risparmiatori" che si trovano in mano solo cartaccia.

Ma, si potrebbe obiettare che quello Parmalat è un "caso limite". Va bene. Prendiamo allora un altro esempio mille volte più corposo: quello della cosiddetta new economy. Alla fine degli anni ’90 le aziende dell’universo internet conobbero un boom borsistico senza precedenti. Schiere di "risparmiatori" (spesso anche semplici lavoratori), attratti dagli incrementi azionari, investirono tutto o quasi tutto nell’allora mitico "nuovo mercato" e una massa enorme di denaro si riversò su tali titoli. Poi, in poco tempo, ecco che il prezzo di queste azioni crolla verticalmente "bruciando" miliardi e miliardi e dando corpo ad un’ulteriore centralizzazione della ricchezza in mano alle multinazionali ed alle grandi istituzioni finanziarie (i veri burattinai dei mercati borsistici mondiali) ai danni di una massa di "risparmiatori-polli-spennati".

Morale: capitalismo "popolare" in realtà significa solo massima concentrazione della ricchezza e del potere nelle mani di pochi e massima socializzazione delle perdite sulle spalle dei lavoratori e dell’intera società.

Debito pubblico = viagra per il capitale

Ma l’indebitamento riguarda anche gli stati, e questo dà ancor meglio la misura dell’entità del problema. Gli Usa, ad esempio, la guida dell’Occidente, hanno chiuso l’anno con un disavanzo record di oltre 520 miliardi di dollari. Perché questo fenomeno?

Secondo la "spiegazione ufficiale" il debito pubblico sarebbe dovuto alla eccessiva generosità dello stato nei confronti dei lavoratori e delle classi meno abbienti. Lo stato avrebbe iniziato ad indebitarsi per "offrirci" sanità, pensioni ed istruzione. A parte il fatto che nessuno ci ha mai regalato nulla e che quello che abbiamo (e che ci stanno togliendo) lo si è conquistato solo a prezzo di dure lotte, a parte ciò, la "favoletta" di cui sopra è completamente falsa. Pur ammettendo infatti che, a volte, quote di debito pubblico possano venire utilizzate realmente in tal senso, la sua origine ed il suo gonfiarsi mostruoso dipendono da ben altri motivi.

In realtà l’indebitamento dello stato nasce e si sviluppa come una forma (sempre più importante) di sostegno all’accumulazione capitalistica. Non solo lo stato opera continui trasferimenti a fondo perso verso le imprese sotto le vesti di "aiuti alla produzione", ma interviene sul mercato creando artificialmente domanda aggiuntiva. Si pensi in tal senso al peso enorme che riveste la produzione bellica nell’intera economia mondiale, a quanto le industrie del comparto sono sovvenzionate dalla mano pubblica.

Quanto poi sia ipocrita parlare di simili interventi statali come "sostegno all’occupazione" sta a dimostrarlo (una per tutte) la lunga storia dei licenziamenti alla Fiat, cioè dell’azienda che in Italia da sempre ingoia la più alta quota di finanziamenti pubblici.

L’indebitamento degli stati, quindi, non è una malattia dovuta a "politiche sbagliate", ma è un qualcosa di fortemente necessario per l’intero sistema capitalistico. Non facciamoci ingannare. Quando i rappresentanti della Confindustria e del governo parlano contro il debito pubblico, i loro strali sono diretti solo ed esclusivamente contro quella quota di spesa statale che comunemente si definisce "sociale". L’ideale di questi signori non è infatti l’azzeramento del debito, ma una sua ancor più completa ed assoluta messa al servizio dei puri interessi delle aziende e dei capitali.

Come un vampiro

Soprattutto a "sinistra", si critica il capitale "speculativo" (quello che gioca in borsa) e si elogia il capitale "produttivo" (quello impiegato nell’industria). Questa contrapposizione è fuorviante e falsa.

Fuorviante, perché mirata a far rimanere i lavoratori salariati, i proletari, degli schiavi del e per il capitale, privi di una loro coscienza, di una loro prospettiva di classe antagonista al sistema capitalistico nella sua totalità.

Falsa, perché il capitale, tutto il capitale, è nei fatti "speculativo". Nel senso che vive, prospera e cresce solo ed esclusivamente succhiando e sfruttando il lavoro operaio, speculando e parassitando sull’intero proletariato. Che ciò avvenga "direttamente" sotto forma di investimento in fabbrica, o "indirettamente" tramite complessi giochi finanziari, la sostanza non cambia. L’unica regola che seguono i capitali - e più sono grossi più sono ligi nel rispettarla - è quella di andare là dove si possono meglio valorizzare (in soldoni: dove si guadagna di più). Burro, armi, droga, operazioni in borsa… al capitale non importa il "come", gli interessa solo il "quanto" ricava.

Si pensi al meccanismo del debito estero che, sotto la vigile attenzione del Fmi e della Banca Mondiale, strangola e dissangua interi continenti. Nel tempo una massa di capitali che in Occidente aveva difficoltà a valorizzarsi è stata dirottata verso il Sud del mondo ed impiegata a condizioni di pura usura. Poco o nulla importa se vastissime masse lavoratrici, interi popoli, sono messi alla frusta e letteralmente dissanguati "per pagare gli interessi". L’importante è che i capitali occidentali là impiantati abbiano un "ritorno" altamente remunerativo.

"Ci dispiace, ma -si potrebbe dire- quei popoli se la sono cercata, chi gliel’ha fatto fare a chiedere prestiti?". Il fatto è che in un sistema economico mondiale dominato da un pugno di stati, di banche e di multinazionali, le nazioni del Sud sono costrette a contrarre debiti. Specie se si tratta di nazioni che da secoli (a partire dal colonialismo) sono state depredate del loro possibile fondo di accumulazione originaria necessario ad avviare una "propria" industrializzazione.

Immaginiamo che in una cittadina vengano aperti un paio di megacentri commerciali (tipo Auchan o iper-Coop). I piccoli commercianti iniziano a perdere la clientela e, per far fronte alle montanti difficoltà economiche, si vedono costretti a chiedere denaro in prestito. Ma chi possiede il denaro e può prestarlo sono solo i proprietari di questi centri commerciali. Per un attimo il piccolo esercente intascherà il soldo fresco e tirerà un sospiro di sollievo, ma ben presto si troverà in una situazione peggiore di quella iniziale. Gli affari continueranno a scarseggiare ed in più sarà incatenato dai debiti. Ingrandiamo infinite volte questo esempio e avremo un’idea di come funziona la faccenda del debito del Sud del mondo, e potremo capire meglio come la libertà di quei paesi è pari a quella di un uomo legato a cui si punta una pistola alla tempia.

Il boomerang inizia a tornare indietro

Questo modo (l’unico possibile) di procedere del capitalismo ha da sempre significato fame e miseria per le masse lavoratrici del Sud del mondo. Per i lavoratori occidentali, invece, ha per vari decenni avuto ricadute materiali anche parzialmente "favorevoli". I "nostri" padroni banchettavano lautamente sulle carni di quei popoli e, grassi di profitti, erano anche disposti a cedere qualcosa qui in termini di spesa sociale, assistenza, salario e condizioni generali. Chiaro, questo "qualcosa" te lo dovevi sempre conquistare con la lotta, però in un certo qual senso te lo "potevano" accordare. Ed è proprio sulla base di questi reali differenziali di vita che, negli anni, l’imperialismo è riuscito a realizzare in grande stile il divide et impera di romana memoria, approfondendo alla grande il solco che tiene divisi e separati i lavoratori e proletari del Nord "ricco" del pianeta dalla sterminata massa degli sfruttati del Sud. Quel solco che troppe volte ci ha portato e ci porta a guardare con indifferenza e distacco alle lotte ed alla resistenza che gli oppressi -dall’Iraq all’Argentina, dall’Asia all’America Latina- muovono contro l’Occidente e la sua azione di rapina, guerra, oppressione e saccheggio.

Il caso Parmalat deve far riflettere anche su questo. L’insopprimibile sete di profitto dei capitali internazionali non solo impone che anche qui, nel centro del sistema, i salari e le complessive condizioni di vita e lavoro dei proletari inizino ad essere bruscamente sospinte all’indietro, ma comincia anche a produrre fenomeni che fino a ieri si volevano confinati altrove. Di colpo e "incredibilmente" crollano aziende dalle dimensioni colossali, migliaia di posti di lavoro fino a ieri ritenuti "sicurissimi" rischiano di essere spazzati via…e una serie di "certezze" prendono il volo. E l’Argentina, cominciano a sospettare non pochi lavoratori, si avvicina...

Su chi verranno rovesciate le perdite?

Al momento l’iniziativa del governo, delle banche e della nuova amministrazione aziendale targata Bondi sembra tutta tesa a far sì che "a pagare non siano i risparmiatori". A sentir costoro, i possessori di obbligazione Parmalat (tra cui vi è anche una quota di semplici lavoratori) possono stare tranquilli, perché in un modo o nell’altro si troverà il mezzo per rimborsarli di tutto o quasi.. Ma da dove verranno le risorse?

Maggiori

controlli?

"Con controlli, come in USA, maggiori e più efficienti in futuro si potrà impedire il ripresentarsi di nuovi casi Parmalat": questo dice il governo, questo dice l’opposizione. Ma per cortesia, fateci il piacere. Primo: proprio l’affare in questione ha dimostrato – caso mai ve ne fosse bisogno – che i "controllori" sono invischiati nelle truffe e negli scandali quanto se non più dei "controllati". Secondo: gli Usa, cioè il modello a cui ci si dovrebbe rifare, sono il paese che produce il massimo numero di scandali finanziari al mondo. Terzo: anche ammesso (e non concesso) che i "controlli" funzionassero, resterebbero sempre operanti i famosi paradisi fiscali (vedi scheda), cioè quelle autentiche fogne a cielo aperto dove i capitalisti di tutto il mondo possono lasciarsi andare ad ogni sorta di traffico lecito e "illecito" senza remora alcuna.

A sanare il "buco" (al di là delle apparenze) non saranno certo le banche, lo stato o gruppi imprenditoriali. A compiere la missione, stiamone certi, sarà chiamato a suon di sacrifici l’intero mondo del lavoro. Ai dipendenti Parmalat si chiederanno le "necessarie rinunce". Tutti i lavoratori dovranno fare i conti, ad esempio, con un aumento -diretto e appariscente o meno che sia- delle spese bancarie (chi di noi non ha un mutuo o un conto corrente) e con prossime manovre finanziarie con cui lo stato mirerà -direttamente o indirettamente- a togliere ai salari per "sanare la falla".

Di fronte a questo scenario è necessario che si inizi a ragionare collettivamente sull’urgenza di dar vita ad organismi e a momenti di mobilitazione per la tutela intransigente delle condizioni dei dipendenti Parmalat (tanto dei quattromila in Italia, quanto dei 32mila all’estero) e per impedire che, per una via o per un’altra, i costi del crac vengano scaricati sulle spalle proletarie. La vicenda Parmalat, inoltre, col suo legame con il declino del capitalismo italiano, chiama i lavoratori a fare i conti con la pesante offensiva borghese che tale declino spinge avanti. Ne parliamo nell’articolo di prima pagina. Qui concludiamo con un cenno a un altro problema messo sul piatto dal crac Parmalat: la natura anti-sociale del capitalismo.

Milioni e milioni di esseri umani, di bambini, sono ogni anno condannati alla morte per fame. Avrebbero bisogno anche di latte... Eppure questo prezioso alimento lo si produce solo ed esclusivamente nella misura in cui e se ci si fa profitto. Se non ci si guadagna abbastanza allora le mucche possono pure schiattare, gli allevatori cambiar mestiere, i lavoratori esser mandati "a spasso", le attrezzature andare in malora e qualche decina di milioni di uomini, donne e bambini continuare "tranquillamente" a morire di stenti.

Il disastro globale (la Parmalat ne è uno dei molteplici segnali) verso cui il capitalismo sta spingendo l’umanità, rende urgente che a partire da ogni lotta, anche se piccola o "limitata", inizi a farsi strada tra i lavoratori la necessità di battersi per la distruzione completa di questo barbaro sistema e l’instaurazione di un sistema sociale alternativo. Un sistema sociale dove il lavoro associato degli uomini, la tecnologia ed il progresso scientifico non siano finalizzati, storpiati e schiacciati dalle necessità del profitto e del denaro, ma siano messi al servizio del soddisfacimento dei bisogni della specie umana. Un sistema dove la produzione non sia dettata dal mercato, ma dalle reali esigenze dell’uomo. Un mondo non più dominato dalla concorrenza e dalle guerre, ma dalla fraterna cooperazione a scala mondiale dell’intera umanità lavoratrice. Il mondo del comunismo internazionalista.