I paradisi fiscali,

specchio del capitalismo

 

Avete in mente le file degli immigrati di fronte alle questure, i ricatti e le estenuanti trafile burocratiche cui devono sottoporsi per regolarizzarsi e poter mettere in vendita legalmente le loro braccia e lavorare?

Bene, è l’esatto contrario dell’atmosfera che i cosiddetti paradisi fiscali riservano al capitale ed ai capitalisti. Massima discrezione ed efficienza. Come nel Delaware, stato Usa, dove in meno di due ore e con meno di cento dollari è possibile registrare una società anonima (facendo sparire cioè gli effettivi titolari) e dove gli uffici del registro sono aperti fino alla mezzanotte. Là ha sede oltre la metà di tutte le società quotate a Wall Street. Lo stesso alle isole Cayman, dove per costituire una società basta un (un!!) dollaro e non vi è nemmeno l’incombenza di presentare un bilancio.

Ma queste zone franche sono presenti anche nel cuore dell’Europa, quell’Europa il cui "carattere sociale" e la cui "diversità" rispetto alla brutalità americana ci vengono propinate a destra e a manca: Andorra, Lussemburgo, Liechtenstein, Svizzera, isola di Man ed isole del canale fra la Francia e l’Inghilterra, principato di Monaco, Gibilterra, Malta, San Marino ed infine, ma non per ultimo, Città del Vaticano.

Per limitarci alla sola Italia, sono 422 le società domiciliate nei "territori offshore". Esse fanno capo alle 30 principali imprese nazionali quotate alla borsa di Milano (Fiat ne ha 73, Enel 60, Eni 44, Unicredit 22). La ragnatela costruita da Parmalat rappresenta la normale pratica di qualsiasi impresa di un certo spessore che voglia competere sul mercato mondiale.

Questi "paradisi", lungi dal rappresentare "uno scandalo" o un’anomalia, sono funzionali ed organicamente legati alla vita di questo sistema. Lo sono per almeno tre ordini di motivi.

Primo. Dal punto di vista del singolo borghese, i paradisi fiscali costituiscono i luoghi ideali a protezione del proprio tesoro privato, tanto per sfuggire alla tassazione quanto per essere al sicuro da possibili perturbazioni sociali e politiche all’interno delle metropoli stesse.

Secondo. Queste zone franche sono i luoghi ideali ove può avvenire il lavaggio e la rimessa nel circolo "legale" dell’enorme massa di capitali detti "sporchi", provenienti dall’economia detta "criminale" (i profitti annuali del solo traffico di droga si aggirano sui 500 miliardi di dollari). Tale settore, con il suo prodotto mondiale lordo stimato ampiamente sopra i 1.000 miliardi di dollari annui, rappresenta il 20% del commercio mondiale, ed è in realtà una componente fondamentale della moderna economia capitalistica che "è basata sul sodalizio fra governi, imprese transnazionali e mafie" (giudizio più che corretto espresso da C. De Brie su Le monde diplomatique, aprile 2000).

Terzo. I "paradisi fiscali" sono i posti dove al meglio il capitalismo ed i suoi funzionari possono operare quei "giochi di prestigio finanziari", quelle artificiali creazioni di valore che sono caratteristica intrinseca e normale del moderno capitalismo drogato. Il caso Parmalat è in questo senso esemplare: in queste zone franche, fuori da ogni vincolo, società di comodo costituite e "garantite" da capitali ridicoli ed irrisori hanno potuto tranquillamente e legalmente emettere obbligazioni per milioni di euro garantiti dal nulla.

Volendolo, i governi occidentali potrebbero nel giro di qualche settimana azzerare tutti i paradisi fiscali di questo mondo, loro che sono specialisti di embarghi e guerre "uminatarie". Non lo fanno, non lo possono fare perché, dietro i paradisi fiscali, si tratta di colpire, non già popolazioni che non si genuflettono ai loro ordini, ma i loro stessi "interessi vitali" capitalistici.