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Dal Che Fare n.68 supplemento dicembre 2007

Il saccheggio in Romania

I "benefici" riservati dall’Italia ai lavoratori rumeni non si limitano al trattamento riservato loro dai padroni italiani e dalle istituzioni tricolori entro i confini italiani. Essi comprendono anche quelli offerti direttamente in Romania. Innanzitutto agli 800mila rumeni che lavorano nelle 23 mila aziende italiane ( il 16,5% di quelle straniere) e nell’indotto di queste ultime per un salario lordo (quando va bene) di 300 euro lordi mensili e in assenza quasi completa di sindacati. Nel distretto di Timisoara soprattutto, dove tante piccole e medie imprese, in primo luogo del Nord-Est, hanno stabilito una parte dei loro impianti nel settore tessile e calzaturiero, trovando nella forza-lavoro a basso prezzo il segreto della loro competitività e un’arma da usare per ricattare i lavoratori italiani a piegarsi al comando dispotico delle direzioni aziendali nelle condizioni di lavoro. Ma non è questo l’unico canale attraverso cui l’Italia sta saccheggiando le risorse naturali e umane della Romania.

L’Enel ha acquisto la maggioranza del pacchetto azionario delle importanti società di distribuzione Electrica Dobrogea e Electrica Banat e si è aggiudicata per 800 milioni la più importante società di distribuzione della Romania, la Muntenia Sud, la quale ha in mano un milione di clienti nelle zone di Bucarest (l’area industriale e finanziaria centrale del paese e una delle più importanti dell’Europa orientale), Ilfov e Giurgiu. Assaporati i ghiotti bocconi, l’Enel si prepara ad acquisire alcuni impianti termo-elettrici che lo stato rumeno si appresta a privatizzare sotto i disinteressati consigli del Fondo Monetario Internazionale e dell’Ue (v. documento del Fmi "Staff report for the 2007"). Inoltre, in attesa di riprendere il programma nucleare in territorio italiano e come palestra per allenarsi all’evento, l’Italia lo sta portando avanti in Romania con la partecipazione dell’Ansaldo all’ampliamento della centrale nucleare di Cernavoda e con il progetto dell’Enel di inserirsi nel pacchetto di controllo della centrale.

L’Italia sta, in più, partecipando alla ristrutturazione di alcune vitali infrastrutture della Romania: il porto di Costanza sul mar Nero con l’Impregilo, il collegamento viario tra Bucarest e Costanza con il gruppo Astaldi, il sistema di controllo radar civile e militare con l’Alenia Marconi e la Finmeccanica, gli aeroporti di Brazov e di Bucarest. Oltre a fruttare al grande capitale italiano lucrosi proventi, questi affari gli permettono di partecipare al controllo del sistema infrastrutturale della Romania, dall’alto valore strategico per estendere i tentacoli delle imprese italiane nell’area circostante vista la collocazione geografica dal paese che ne fa, secondo le parole dell’Istituto per il Commercio Estero Italiano, una "piattaforma strategica per l’intera macro-regione che va dai Balcani e dall’Europa centro-orientale al mar Nero, al Caucaso e alle repubbliche centro-asiatiche" (v. la nota sulla Romania dell’Istituto Nazionale per il Commercio Estero Italiano" per il secondo semestre). Ne fornisce un esempio la costruzione in Romania da parte della Pirelli Pneumatici nel 2006 di un impianto di pneumatici, il maggiore dell’Europa centro-orientale, destinato alle fabbriche dell’area, della Russia e del Medioriente.

C’è, poi, da considerare il drenaggio della ricchezza prodotta dai lavoratori rumeni realizzato dal capitale italiano attraverso la pompa del sistema finanziario. Sia con la diretta acquisizione di una fetta del sistema finanziario della Romania: la Unicredit ha acquisito la turca Demierbakb, Banca Intesa-San Paolo la maggioranza della West Bank, la Cassa di Risparmio di Firenze la Daewoo Bank Romania, la banca popolare di Vicenza il 5% della filiale romena della Volksbanken A. G. austriaca, per non parlare della partecipazione nel 2006 alla privatizzazione della Banca Commerciale Rumena per oltre due miliardi di euro. E sia con l’incasso delle rate spettanti alle banche italiane del gigantesco debito estero rumeno (42 miliardi di euro nel 2006, il 40% del pil), per rimborsare il quale il governo di Bucarest ha accettato di portar avanti un vasto piano di privatizzazione delle imprese pubbliche (dopo il sistema energetico e bancario, toccherà alle infrastrutture) e di orientare all’esportazione la produzione agricola nazionale (con l’effetto di portare alla dipendenza alimentare un paese fertile come la Romania, l’undicesimo produttore agricolo mondiale).

A completare l’opera vi sono, inoltre, altri due tubi aspira-soldi: da un lato, il disavanzo commerciale tra la Romania e l’Italia (verso cui è diretto il 20% delle merci esportate da Bucarest e da cui arriva il 15% delle merci importate in Romania), che si traduce in un drenaggio di 10 miliardi di euro l’anno; dall’altro lato, il trasferimento supplementare di ricchezza nascosto sotto lo scambio ineguale tra i prodotti semi-lavorati esportati dalla Romania (alcuni esempi) e quelli finiti importati dall’Italia (alcuni esempi).

A richiamare questo torrente di investimenti italiani in Romania sono stati i bassi salari, la buona qualificazione della manodopera (di cui non ci si accolla le spese di formazione), il regime fiscale favorevole (un cui tassello è la flat tax al 16%), la possibilità di trascurare senza troppi problemi la sicurezza dei lavoratori e la salvaguardia ambientale, l’accondiscendenza di un apparato statale e politico succube degli strozzini internazionali, la prospettiva –illustrata in recenti documenti Ice- di mettere le mani su altri gioielli rumeni in procinto di essere svenduti, tra cui il patrimonio artistico, l’infrastruttura turistica, le risorse forestali e la proprietà fondiaria, rimasta eccessivamente concentrata (si lamentano i documenti del Fmi e dell’Ue) nelle mani dei contadini che l’acquisirono dopo la secondo guerra mondiale in seguito alla nazionalizzazione dei grandi latifondi che fino ad allora avevano punteggiato le campagne rumene.

Negli ultimissimi anni, però, qualcosa sembra non funzionare più alla perfezione. In Romania comincia a scarseggiare la manodopera per effetto dell’emigrazione: si va via perché i salari in Occidente e in Italia sono pur sempre preferibili a quelli in Romania. Il che è tutto dire della civiltà portata dalle nostre imprese, ben rappresentata dall’attuale tasso di povertà (20%) e di mortalità infantile (17 per mille). Grazie anche a questa carenza di manodopera, i lavoratori rumeni rimasti nel paese, attraverso la pressione di un apparato sindacale in via di costituzione, hanno avviato una serie di iniziative per rivendicare l’aumento dei salari (v. Rassegna Sindacale, 22 marzo 2007). Anche in conseguenza di questa pressione, oltre che dell’interesse dei capitalisti rumeni di non ridursi a semplici kapo’ dei capitalisti italiani e occidentali, il governo comincia a fare qualche bizza: ha varato una legge sul lavoro che rende meno agevole il licenziamento e che gli imprenditori italiani hanno visto come fumo negli occhi; non procede a tagliare con determinazione i dipendenti del settore pubblico e la spesa pensionistica (150 euro lorde); continua a ritardare l’applicazione di una serie di misure che porterebbero all’espulsione di milioni di persone dalle campagne (dove è concentrato ancora il 35% della popolazione lavoratrice, stimata in circa 10 milioni) e che il Fmi e l’Ue caldeggiano per mettere a disposizione degli investitori internazionali il patrimonio agricolo rumeno e un’altra leva di proletari eslege sul mercato del lavoro rumeno e internazionale. La campagna razzista del governo e della grande stampa dell’Italia è finalizzata anche a rimettere al loro posto i lavoratori rumeni nel loro stesso paese e a richiamare i governanti di Bucarest al loro ruolo di quisling dell'Italia e dell'Ue.

Quello che è sicuro è che la sottomissione e la funzionalizzazione della Romania al capitalismo internazionale compiute dall’Italia democratica e dalle altre democrazie occidentali sono in continuità con l’intervento in Romania del Terzo Reich e dell’impero fascista. Benché non occupata formalmente dalla Germania e dall’Italia, di cui fu, invece, un alleato "indipendente", durante la seconda guerra mondiale la Romania, il Terzo Reich ed il suo alleato fascista saccheggiarono il petrolio e le campagne rumene (grano, semi oleosi, carne), fecero del paese una piattaforma per portare avanti la guerra d’occupazione dell’area, l’Ucraina e le pianure della Russia ad occidente degli Urali. Un quarto del bilancio statale rumeno era specificamente destinato a finanziare le armate naziste nella guerra verso i Balcani meridionali e verso la Russia.1 Gli esecutori testamentari del nazi-fascismo sono andati più avanti anche sul piano militare. Dal 2004 la Romania è entrata a far parte della Nato. L’evento è stato "festeggiato" con l’invio in Iraq e Afghanistan di un contingente di 500 e 600 militari. E con l’avvio della ristrutturazione, sotto il controllo degli Usa, dell’aeroporto di Mihail Kogalniceanu (in prossimità della località strategica di Costanza) con una spesa di quasi 100 milioni di dollari entro il 2006. La base sarà destinata ad ospitare 1000 militari Usa e 10 F-16. Nel frattempo i militari Nato sono già installati in altre località del paese (a Babadag, sul mar Nero, a Smardan, sul Danubia, a Cincu, sui Carpazi)…

Ma nel "favoloso 1989" non s’erano presentati, l’Italia democratica ed i suoi soci in affari, come i liberatori dei lavoratori rumeni?

Dal Che Fare n.68 supplemento dicembre 2007

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