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Dal supplemento del Che Fare  n.° 69 maggio 2008. Speciale elezioni

Appena sorto, l'Arcobaleno è sfumato. E ora?

Il tracollo elettorale della sinistra Arcobaleno chiama ad un bilancio quei lavoratori e compagni che, bene o male, avevano visto nel corso di questi anni nell'esperienza di Rifondazione una sponda utile per il rilancio (nel sindacato e nella società) di un'iniziativa di classe, e che adesso non vogliono "tornare a casa" in preda alla delusione e allo scoramento.

La strada da imboccare per risalire la china non è assolutamente quella indicata da Giordano e Vendola. Essi propongono di portare avanti con più decisione proprio quel processo "costituente" che ha dato origine alla Sinistra Arcobaleno. IL limite scontato finora, a sentir costoro, è quello di essere stati esitanti e di non avere saputo e voluto fare per tempo i conti con la necessità di abbandonare in modo inequivocabile ogni "residuo del passato". Basta richiami, sia pur solo ed esclusivamente di pura facciata, a falci e martelli vari, agli interessi specifici di classe, all'idea stessa che possa e debba esistere finanche un penoso simulacro di partito "comunista" a mo di Rifondazione. Basta con queste zavorre e spazio totalmente libero alle "nuove" (sic!!!) forme di far politica per accordarsi ancor più esplicitamente al vecchio e solito carro del capitale, magari come ala laburista del Pd.

Tornare allo "spirito del 1991"?

Sia i compagni interni al Prc cotrari alla linea Giordano-Vendola, sia alcuni compagni ed organismi esterni a Rifondazione che si collocano alla sua sinistra ritengono, tagliando con l'accetta, che per risalire dal burrone in cui si è precipitati dopo il "disastro" del 13 aprile, occorre riappropriarsi dello "spirito originario" di RIfondazione (quello, per capirci, del 1991) e, su queste basi, torare a far politica tra la "gente" e nei luoghi di lavoro, e riconquistare così anche quel consenso elettorale "svanito improvvisamente".

Voler "tornare tra i lavoratori" è giusto. Ma, a nostro avviso, un simile indirizzo politico (in tutte le sue più o meno esplicite varianti) non può portare ad alcun esito positivo. Come abbiamo discusso in tanti numeri del che fare, la cancrena bertinottiana non origina dalle, più o meno recenti, (e presunte) "svolte" governiste di Rifondazione. Essa viene da molto, ma molto più lontano. Per combattere seriamente un male bisogna coglierne le radici e non limitarsi a criticarne esclusivamente le sue più recenti e palesi manifestazioni. Bertinotti e Giordano sono "soltanto" gli epigoni (e forse neanche gli ultimi) di un processo degenerativo che nasce a cavallo tra gli anni venti e trenta dello scorso secolo e che si afferma "grazie" all'arresto ed alla sconfitta dell'ondata rivoluzionaria che nel primo dopoguerra aveva infiammato il "vecchio continente". La rivoluzione proletaria vittoriosa a Mosca e Pietrogrado non riuscì a dilagare in Germania e nel resto dell'Europa Occidentale. L'imperialismo tenne botta. La Russia sovietica, economicamente arretrata, si trovò isolata e circondata. Ciò favorì l'avvio di un'inesorabile e progressiva degenerazione del partito e dello stato russo, nonché della stessa internazionale comunista.

La prospettiva della rivoluzione internazionale viene abbandonata. Con Stalin si afferma la teoria della costruzione del "socialismo in un solo paese" (che in realtà significò l'edificazione dell'industrializzazione capitalistica in Russia). Poi vengono i fronti popolari antifascisti da costruirsi con la cosiddetta borghesia democratica (vera e propria "rincorsa al centro" di antica data) e le tante "vie" (una per nazione e ognuna per i fatti suoi) al "socialismo". Tutto ciò in Italia si manifesta e si afferma tramite il Pci togliattiano. Lo stato costituzionale "nato dalla resistenza" non è più l'organo del dominio politico della borghesia da abbattere, ma un qualcosa da conquistare progressivamente attraverso una lunga marcia nelle sue istituzioni parlamentari amministrative. Una marcia che per avere qualche possibilità di successo implica necessariamente un continuo e progressivamente sempre più esplicito ed accentuato "scivolamento" verso il "centro", verso le esigenze dei ceti accumulatori, verso le ragioni del capitale. In questa ottica la classe operaia deve trovare il "suo" spazio non contro, ma all'interno di un capitalismo nazionale democratizzato.

La lunga fase di crescita economica seguita al secondo conflitto mondiale ha fatto ritenere possibile ( illusoriamente!) la conquista ( pur se sempre al prezzo di dure lotte) di uno stabile posto "al sole" all'interno della società capitalistica. IL mondo del lavoro assume questa politica, la fa sua, ne beve il veleno sino in fondo. Togliatti, Berlinguer, Occhetto, Fassino, Veltronie ... Bertinotti sono tra di loro in piena linea di continuità (una continuità che si adegua con le opportune discontinuità ai tempi ed alle esigenze del capitale). Tant'è che, più coerenti dei loro dirigenti, on pochi elettori della Sinistra Arcobaleno hanno votato direttamente il Pd. Il processo attraverso il quale il proletariato è stato (e si è) diseducato a concepirsi come classe antagonista ha profonde radici teoriche, politiche ed economiche. O si inizia a fare i conti con esse, o i tentativi di risalire la china, per quanto animati da buona volontà, sono destinati ad arenarsi in partenza.

 Una "crisi di direzione"?

Ci vuole, dunque, un indirizzo politico completamente differente, di cui torniamo a ripresentare alcuni cardini negli altri articoli del giornale. Non crediamo affatto che questo cambiamento riesca magicamente e a breve a coagulare significative minoranze del mondo lavorativo. L'attuale stato di profonda difficoltà politica del proletariato non deriva solo dalla politica portata avanti dalle direzioni riformiste nei lunghi decenni che ci stanno alle spalle. Ad ostacolare una reale ripresa di classe oggi operano anche e sopratutto potenti fattori oggettivi.

Certo, gli anni del "boom economico", della "crescita e dello sviluppo" per "tutti" sono da tempo alle spalle. Pezzo dopo pezzo, il padronato ha cancellato e sta cancellando buona parte delle conquiste strappate nei decenni precedenti. I lavoratori ormai sanno che nessun "posto al sole" li attende dietro l'angolo. Ma tutto ciò accade mentre l'Occidente, e in sottordine il proletariato occidentale, non ha più il monopolio della produzione industriale e i proletari occidentali sono stati messi sotto la pressione della concorrenza del mercato del lavoro mondializzato. Al momento, ciò sta producendo l'effetto devastante per cui i lavoratori sono "spontaneamente" (anche grazie all'opera di diseducazione politica di cui sopra)  indotti a vedere nella salvezza della "propria" azienda la loro unica realistica possibilità di salvataggio. È da qui, da questo materialissimo fenomeno, che oggi la nostra classe è in parte preda di derive aziendalistiche, territorialistiche e anche razziste. Tutto ciò bisogna saperlo e dirlo con chiarezza.

Quello che, di conseguenza, serve è dare corpo ad un lavoro di lunga lena che (senza escludere improvvise e sempre auspicabili accelerazioni nello scontro sociale) si ponga l'obiettivo di riconquistare gli assi centrali del marxismo internazionalista e rivoluzionario per farli vivere, sia pur da posizioni molto minoritarie, in tutte le occasioni di dibattito, lotta e mobilitazione. È questo il modo con cui si può realmente preparare il terreno ad una futura ripresa generale di classe. E questa la via per cui si potrà favorire, accompagnare e orientare quel processo di rigenerazione politica del proletariato che dovrà esser e sarà suscitato dal processo stesso del capitalismo.

 Una classe in ascesa

I risultati del 13 aprile non hanno significato nessuna "catastrofe"  per il proletariato. ben altri, che non le cabine elettorali, sono i luoghi dove si sono consumati e si potranno consumare le sconfitte ed i trionfi della classe operaia. Il proletariato, tanto a scala nazionale quanto ed enormemente di più a scala internazionale, è tutt'altro che una classe residuale e sulla via del declino storico. Mai come adesso, al contrario, le sue fila sono andate a ingrossarsi a livello planetario, mai come adesso si è configurato oggettivamente come classe mondiale.

Fino ad alcuni decenni fa l'industria, e con essa la classe operaia, era sostanzialmente "ristretta" e concentrata in Europa, nel Nord America, in Giappone e in qualche altra "oasi" sparsa negli altri continenti. Oggi non è più così. A partire dall'Asia, dove centinaia di milioni di operai iniziano a far sentire la loro voce, il proletariato si è diffuso coma mai in passato era avvenuto. Circa seicento milioni di operai industriali, un altro miliardo e passa di proletari in senso lato, quasi due miliardi di contadini del Sud e dell'Est del pianeta proletarizzati o in via di proletarizzazione: questi poderosi numeri dicono come e quanto si stia realizzando la "profezia" di Marx secondo cui il capitalismo con il suo "sviluppo" fa sorgere anche la classe sociale che è deputata a distruggerlo e a gettarlo nella pattumiera della storia.

Certo, al momento la globalizzazione della produzione e dei mercati sta generando concorrenza tra i lavoratori e conseguenti difficoltà politiche. Ma a date condizioni, è già successo negli anni venti, tutto ciò può e deve rovesciarsi nel suo contrario e far emergere prepotentemente nella massa il bisogno e la necessità dell'unità internazionale ed internazionalistica della classe lavoratrice. Lavorare a predisporre il terreno a tutto ciò è un compito dell'oggi a cui dedicarsi senza faciloneria e senza alcun senso di disfatta.

 

Dal supplemento del Che Fare  n.° 69 maggio 2008. Speciale elezioni

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