Dal Che Fare supplemento al n.° 69 maggio 2008
Speciale elezioni 2008 e dopo elezioni
È nata la terza repubblica: più che mai contro i lavoratori
La vittoria della destra non sta tanto nel numero dei voti o in un pressoché insignificante travaso di voti proletari dal centrosinistra al centro-destra. I voti (960 mila) che guadagna la coalizione di Berlusconi (soprattutto attraverso i partiti leghisti della Lega Nord e dell'Mpa) provengono dall'Udc, dall'Udeur e, in misura minore, dai settori moderati del Pd. I due milioni e 800 mila voti perduti dall'Arcobaleno, una vera disfatta elettorale!, sono quasi interamente finiti nell'astensione (quasi un milione), nei partiti della "sinistra radicale", (380 mila) e, soprattutto, nella coalizione guidata da Veltroni, che aumenta i suoi voti rispetto al 2006 di oltre 800 mila unità. La vittoria della destra sta essenzialmente nel fatto che da destra e da sinistra gli elettori hanno dato la loro sanzione ai valori e alle priorità prescritti da tempo dai grandi poteri capitalistici (fine della contrapposizione di classe tra sfruttatori e sfruttati, funzionalizzazione completa della vita sociale alla competitività, disarticolazione aziendale e territoriale della condizione e dei diritti dei lavoratori, "sicurezza", ristrutturazione efficientista e reazionaria dell'apparato statale, ecc.) A tirare la volata, da destra e da sinistra, sono stati gli imprenditori, i commercianti, i coltivatori, gli artigiani e le rispettive famiglie, cioè la pletora (tale è ancora in Italia) degli accumulatori di tutte le taglie, o aspiranti tali, in maggioranza da sempre ostili alla sinistra e per lo più inviperiti dalle misure fiscali del governo Prodi.
I poteri forti capitalistici avrebbero preferito che le urne sancissero anche un ruolo centrale per il loro uomo di paglia, Casini, in modo da pesare ancora di più sul nuovo governo. Ma anche così gli va più che bene. C'è stata la semplificazione della rappresentanza politica a cui da tempo aspiravano. Il nuovo parlamento è essenzialmente bipolare. Avrà 5 - 6 gruppi e partiti, da trentadue che erano. E sarà omogeneo nei valori di riferimento dei suoi membri: i "valori" del mercato, del capitale, sacri e intangibili più che mai. La stessa presenza fisica di deputati di estrazione operaia - è un dettaglio, ok - crolla dall'11% al 4%, il minimo storico. Montezemolo gongola per la "netta sconfitta delle forze anti-impresa". E intende approfittare del momento propizio per regolare i conti con i sindacati, che sono, a suo dire, gli ultimi "santuari" da violare per dare corso ad un "dialogo" diretto imprese lavoratori. La Marcegaglia prende il testimone e si precipita a chiedere al nuovo governo la fine dei contratti nazionali, il via libera al potere incondizionato dei padroni nelle aziende, la cancellazione o la riduzione delle penali per gli omicidi sul lavoro.
Non si è formato il governo di grande coalizione chiesto da Confindustria alla caduta di Prodi, ma lo spirito bipartisan invocato dal grande capitale per provare a mettere dei paletti agli appetiti particolaristici-territoriali interni alla maggioranza e per provare a condurre a fondo, senza scosse sociali, la ristrutturazione sociale e istituzionale auspicata per l'Italia, è una realtà. Il cavaliere "riconosce" l'opposizione (di sua maestà),che, a sua volta, dà ampi "riconoscimenti" al Pdl e al suo capo divenuto da "cavaliere nero e piduista" che era, uno statista di vaglia. Senza vergogna Fassino può dire: "Fini ci rappresenta tutti". Ed è vero. Patria (anche se per la Lega la patria è padana), tradizioni cristiane, sicurezza (per la proprietà privata) , legge (del mercato), ordine: questo è quanto! Per gli uni e per gli altri. Sulla commedia dell'antagonismo tra fascismo e antifascismo (borghese) cala il sipario. Napolitano "apre" ai giovani di Salò, Alemanno assicura: la Resistenza non si discute. È finalmente finito il dopoguerra, sospirano i reduci dell'Msi. E per la prima volta dai tempi del fascio le Camere saranno prive di "comunisti", sebbene da tempi immemorabili fossero tali solo sulla carta.
È nata la terza repubblica e il suo primo governo, più anti-proletario che mai.
Ma attenzione: la destra che torna al governo è meno immatura di quella del 1994. A cominciare dal suo capo, essa è consapevole della speciale gravità della crisi internazionale in arrivo, e degli speciali pericoli che vi corre l'Italia. Il suo programma non si riduce al liberismo miracolistico degli esordi. Grazie anche ai "consigli" del grande capitale, è divetato più articolato, più isidioso. Specie nella capacità di produrre divisioni nel mondo del lavoro. Ne sono un saggio le prime mosse del nuovo governo: l'attacco agli immigrati e la detassazione degli straordinari.
Con l'aggressione, di violenza senza precedenti, agli immigrati "clandestini", equiparati a criminali, il governo punta ad attizzare l'odio e la contrapposizione tra lavoratori autoctoni e immigrati. Ma questo attacco agli immigrati è fatto in modo tale da cercare di dividere i regolari e gli "integrati" da chi, contro la propria volontà, e senza permesso di soggiorno, di divider le immigrate (che ci servono, e debbono continuare a servirci) dagli immigrati. E perfino fra quelli che sono sotto diretto attacco nelle retate e nei primi pogrom di stato o camorristi, c'è chi è il bersaglio primo, i rom, e chi, pur essendo sotto tiro, come i romeni, potrebbe forse, in qualche modo, scampare al peggio se sarà disposto a collaborare contro gli "untori" del momento.
Con lo stesso metodo il governo si rivolge ai lavoratori. Ad onta della della demagogica proposta di Rosi Mauro e del Simpa di una nuova scala mobile su base territoriale; ad onta dell'attenzione esibita in campagna elettorale dai figuri del Pdl verso chi non arriva alla quarta settimana; non c'è nessuno spazio nell'azione del governo per la protezione dei salari dall'inflazione. Ma ai più giovani, agli operai delle aziende che tirano, ai lavoratori del Nord, la destra getta l'amo della detassazione degli straordinari: lavorate di più, guadagnate di più! Una "soluzione" che non darà assolutamente nulla alle donne, agli operai avanti egli anni, ai dipendenti delle imprese in difficoltà, ai milioni che lavorano in nero, mentre accrescerà la divisione tra occupati e disoccupati, la concorrenza fra gli occupati, lo sfruttamento e la pericolosità del lavoro, togliendo con una mano (con gli interessi) i pochi spiccioli che darà con l'altra.
Anche l'accelerazione sul federalismo fiscale produrrà altre divisioni. Ci sarà forse qualche risorsa i più per i servizi sociali e gli investimenti al Nord: ma in un quadro di ulteriori tagli al welfare su tutto il territorio nazionale, il Nord incluso, specie in campo sanitario, dove è stato tagliato perfino il ministero. A pagarne il conto saranno soprattutto i lavoratori del Sud e i precari. Ancora: con la campagna sui nullafacenti tra i pubblici dipendenti (che ci sono) si vuole incrementare tra loro competizione e produttività, e aizzare la cosiddetta insofferenza degli operai e degli impiegati privati verso i "privilegi" di quanti sono inseriti ella pubblica amministrazione.
Il sindacato nel mirino
L'attacco delle destre alla classe dei salariati sarà, dunque, più articolato che nel 1994 e nel 2001, non però meno duro e generale. Anzi! Esso punta in modo esplicito ad andare più in profondità, a ridurre drasticamente la forza - declinante da tempo - delle organizzazioni sindacali in quanto unica struttura in qualche modo unitaria dei lavoratori. La "pubblica opinione" è stata già istruita a puntino dai pamphlet a grande tiratura, rigorosamente bipartisan, curati dalla banda di Feltri, I sindacati (2007), e dal redattore de L'Espresso Livadotti, L'altra casta (2008). L'enfasi sul burocratismo, sui "fatturati da multinazionale" dei maggiori sindacati, sulle carriere politiche e la crescente distanza dai lavoratori comuni dei loro dirigenti, tutti dati reali, servono ad attaccare ad alzo zero "l'inutile e anacronistica cultura del conflitto sociale". Che, parola del ministro Brunetta, va buttata a mare insieme con il "ruolo politico del sindacato". Negli anni passati, nel mezzo delle continue ristrutturazioni delle vecchie forze riformiste, i sindacati, in specie la Cgil e la Fiom, avevano svolto un ruolo oggettivo di supplenza politica, funzionando come il polo principale della resistenza alle politiche neo-liberiste. Una resistenza blanda e ideologicamente compromessa, ma che va ora smobilitata. Con la nascita del Pd che ha proclamato la fine dell'antagonismo capitale-lavoro, con la disfatta della "sinistra radicale", fragilissima sponda extra-sindacale della "cultura del conflitto sociale", questa fase si avvicina al suo punto terminale. I vertici di Cgil- Cisl - Uil ne hanno preso atto a tempo di record. Appena chiuse le urne, eccoli offrire ai padroni, con la speranza che questi ultimi si accontentino, la durata triennale dei contratti e il semi-affondamento del contratto nazionale. Alla Confindustria, però, questo harakiri non basterà.
I padroni non si accontentano più di sindacati compatibilisti e aziendalisti. Puntano ad un aziendalismo di massa dei lavoratori senza sindacati ("gli operai sono più vicini a noi che ai sindacati" , si vanta Montezemolo), o con i sindacati ridotti a un mero ruolo di yes men e di gestori di servizi assistenzialisti e di fondi pensioni. Fremono per avere le mani libere sui licenziamenti, sull'allungamento degli orari, la flessibilità, i premi individuali. Per loro, la massiccia diffusione di una mentalità individualista e localista tra i sindacati avvenuta in un quindicennio di americanizzazione della società italiana, è un'eccellente pre-codizione per mettere all'ordine del giorno la demolizione del residuo "potere sindacale". Sul modello, appunto, degli Stati Uniti d'America e della Gran Bretagna.
Da parte sua, il governo vede in questa incipiente grande crisi degli apparati sindacali la caduta di un diaframma tra sé e le masse lavoratrici. È una fondamentale chance per rivolgersi ad esse in modo diretto e coinvolgerle, se possibile, in modo attivo nelle aggressioni agli immigrati, nel sostegno delle missioni militari sempre meno "di pace" in Libano, Afghanistan, ecc. e nell'appoggio dell'aggressione in preparazione contro l'Iran. Oltre che la politica delle singole aziende, anche la politica dell'azienda-Italia punta sulla mobilitazione degli sfruttati contro sé stessi.
Di questa pesante svolta a destra l'azione del partito di Veltroni è parte integrante. Ne condivide gli assi portanti, obiettando, al più, sui particolari e le modalità di applicazione dei provvedimenti in cantiere. E, sia tramite i quadri sindacali che in prima persona, opera in modo sistematico per convincere i tanti lavoratori presso cui ha ascolto che la sola possibilità di allontanare lo spettro di un futuro più nero del presente è di accrescere la forza competitiva dell'Italia.
E i lavoratori?
La massa dei lavoratori arriva a questo importante svolto della politica nazionale nella peggiore delle condizioni. In enorme difficoltà politica e profondamente divisa. Sui lavoratori collocati a sinistra, siano essi convinti, perplessi o disgustati dalla coalizione guidata da Veltroni e dall'Arcobaleno, pesa una sconfitta elettorale che si sperava di evitare o un'inattesa disfatta. Essa getta altra acqua sui pochi tizzoni accesi. Tra i tanti lavoratori che hanno votato per le destre (nessuna novità, è quello che accade ad almeno dieci anni), c'è l'attesa, venata comunque da scetticismo, di potere porre un alt alla riduzione del potere d'acquisto dei salari (ad esempio con le misure annunciate da Berlusconi sull'Ici e sugli straordinari). Tra gli uni e gli altri, tra i lavoratori che hanno votato il cetro-sinistra e quelli che hanno votato la coalizione berlusconiana, c'è, infine, la speranza, del tutto mal riposta, di poter risalire la china legandosi più strettamente alle "proprie" imprese, ai "propri" territori, alle "proprie" comunità, alle "proprie" radici, e regolando i conti "come si deve" con i "clandestini" con gli immigrati. Solo alcuni settori, ristretti, di lavoratori intuiscono il baratro a cui conduce tale indirizzo, ma essi, al momento, non sono in grado di intravvedere e di presentare alla propria classe la via d'uscita dal tunnel a cui l'ha condotta il riformismo. Tale via d'uscita rischia, invece, di essere disgraziatamente cercata nella prospettiva offerta dalla destra sociale, come indica la rilevante crescita del consenso raccolto nelle periferie di Roma, di Milano e di alcune città emiliane dalla destra "popolare" di Storace e della miliardaria Santachè e, elemento ancora più sintomatico, da Forza Nuova.
Non sarà né facile, né indolore uscire da questa devastante frammentazione e intossicazione della classe lavoratrice, che ne esprime la mancanza di autonomia di fronte alle imprese, al governo e allo stato. Ma, ci piaccia o no, da qui si deve ripartire. Con la massima fiducia nella forza esplosiva incontenibile degli antagonismi di classe, delle inevitabili catastrofi capitalistiche. La ripresa del movimento proletario sarà fatica ardua e di lunga lena. I terreni di questa ripresa sono dettati dallo stesso attacco di Confindustria e governo. Ripresa della lotta sul salario e sulla spesa sociale, contro la precarietà, conto il degrado sociale. Unità militante con i lavoratori immigrati e la loro autodifesa. Denuncia dell'incremento della spesa bellica e del militarismo. Riorganizzazione politica e sindacale dei salariati su solide basi di classe. Prenderemo parte a questa lotta senza alcuna forma di preclusione razzistoide nei confronti dei proletari provvisoriamente scivolati a destra, o di contrapposizione settaria nei confronti di chi, provvisoriamente rassegnato, si riconosce nel Pd perché crede che la sola cosa possibile sia qualche minimo ritocco di equità al capitalismo. Siamo sicuri della forza delle nostre ragioni. E le faremo valere.
Dal Che Fare supplemento al n.° 69 maggio 2008
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA