Afghanistan, primavera 2001: 
la vita di un bambino, di una donna e la politica mondiale del capitalismo globalizzato


Hafizullah ha tre anni, è scalzo, tossisce a colpi catarrosi da bronchite acuta, il naso pieno di muco. Vive, temo ancora per poco, in una tenda a malapena ancorata a terra da mucchi di fango. Con lui, nella stessa tenda, altre quindici persone, otto sono bambini, quattro vecchi. I quattro adulti restanti sono in cerca di cibo, forse torneranno più tardi, non è detto che troveranno qualcosa. Fuori, la notte, la temperatura scende sotto i dieci gradi centigradi. Tutto intorno altre tende, molte delle quali sfondate dalla neve, testimoniano tragedie già consumate.

Come Hafizullah vivono ad Anabah cinquemila persone. A decine muoiono ogni settimana, quasi tutti bambini. Aspettano una lontana primavera, a 2700 metri, in mezzo a montagne altissime ancora coperte di neve scintillante, come una speranza per sopravvivere. Provengono quasi tutti dai villaggi a nord di Kabul. Sono fuggiti ai combattimenti tra taleban e mujaheddin (…)

Il campo profughi di AnabahScende la notte e il campo di Anabah precipita nel buio, inghiottito nel silenzio. Non c’è petrolio per riscaldarsi, figurarsi se ne resta per illuminare. (…) Le donne, con il loro burqa in testa, escono dalle tende per andare a prendere l’acqua gelida del fiume Anjumar. Sotto i teli si preparano i giacigli di paglia sulla terra nuda, indurita dagli escrementi. In nessuna delle tende ho visto qualcosa che assomigliasse a un letto: solo coperte polverose in una lordura che permea ogni cosa, in mezzo a un lezzo inesorabile, pungente. (…)

Non so se Hafizullah sarà ancora vivo quando queste righe andranno in stampa. Ma ho la sensazione che il suo destino abbia dei responsabili. Certo non solo tra coloro che si rivelano incapaci di aiutarlo a vivere. Non riesco a togliermi dalla testa l’idea, sommamente sgradevole, che ci sia un nesso, mediato ma preciso, tra coloro che hanno finanziato i signori della guerra afghani, quegli altri che hanno loro venduto le armi e quegli altri, infine, che controllano ogni mattina le quotazioni di borsa a Wall Street o a Milano, senza neanche sospettare di avere a che fare con il destino di un piccolo bambino di Gulbahar. E non riesco neppure a togliermi dalla testa l’altra idea, ancora più sgradevole, che un nesso preciso esista anche tra il destino di quel bambino scalzo e i miei scarponi impermeabili da inviato speciale.

In queste tende quelli che hanno avuto la fortuna di trovare qualcosa da mangiare, stanno cucinando. Per gli altri c’è il sonno della fame, e della morte. L’intera, aspra vallata si spegne in un silenzio irreale. Qui la storia si è fermata. Non ci sono nemmeno i pianti dei bambini. I bambini afghani non hanno tempo per piangere."

 

(da G. Chiesa e Vauro, Afghanistan, anno zero, Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA, Milano, 2001)