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Testo pubblicato nel "Che fare" N. 33 novembre - dicembre 1994.
Conversando con i lettori

Che cos'è

l'Organizzazione Comunista Internazionalista

Sommario

Sono tanti i compagni ai quali il nostro giornale capita nelle mani per la prima o per le prime volte ed è lecita la domanda che essi spontaneamente si pongono od anche direttamente ci rivolgono: "Ma che cos’è questa OCI?", ed anche chi si trova d’accordo con quel che scriviamo non può fare a meno di domandarsi: "Ma da dove saltano fuori costoro? Com'è che non ne abbiamo sentito parlare e non li abbiamo già incontrati prima?". Ed è persino legittima una certa perplessità, in particolare tra i compagni proletari di non primissimo pelo, che troppe volte nella loro esperienza di lotta hanno visto apparire ed altrettanto rapidamente sparire gruppetti e grupponi (molto più robusti numericamente del nostro) che si presentavano ad essi come il "nuovo", il "vero" partito della classe operaia. Non è il nostro caso...

Noi non abbiamo, innanzitutto, vergogna di dire: sì, la nostra organizzazione è tuttora piccola, anche se tutt’altro che nata ieri (come gruppo formalizzato in quanto OCI e soprattutto in quanto tendenza organizzata in seno al movimento operaio), e tuttora ci capita di presentarci a settori importanti del proletariato per la prima volta e dall'esterno. È una nostra debolezza (una debolezza che non riguarda però solo noi, ma si riconnette alla generale debolezza delle forze di classe del proletariato). E tuttavia noi pretendiamo, responsabilmente e senza alcuna boria, di rappresentare qualcosa, di avere qualcosa da dire.

Lo pretendiamo, cioè, non per una stupida autoesaltazione di noi stessi come gruppo o, peggio, insieme di "individualità", ma perché ci sentiamo forti della tradizione di battaglie, teoriche e pratiche, cui ci rifacciamo: la tradizione del comunismo. E siamo certi che ad essa dovrà e saprà tornare da protagonista quello che ne è storicamente il soggetto storico: il proletariato. Qui poniamo il nostro futuro; non il nostro ristretto futuro di "gruppo", ma quello del proletariato e del suo partito, al quale tendiamo e lavoriamo.

                          Chi siamo? Comunisti.

Siamo comunisti. E lo siamo nel senso autentico che questa parola ha: quello, invariabile, ad essa consegnata dal marxismo, dal "Manifesto" del 1848 alla costituzione del Partito Comunista d’Italia nel ’21 a Livorno, dalla formazione della Terza Internazionale di Lenin alla battaglia delle sue sinistre (italiana e russa in primo luogo; due nomi per tutti: Bordiga e Trotzkij) contro la degenerazione successivamente manifestatasi in essa.

Essere comunisti significa vedere scientificamente che il capitalismo, mentre ha enormemente sviluppato e "socializzato" la produzione, se l’è anche appropriata privatamente sottomettendola non al soddisfacimento dei bisogni sociali, ma alle proprie leggi del profitto; che il capitalismo si fonda sullo sfruttamento sistematico e crescente del lavoro salariato (la merce-lavoro), il quale, pertanto, rappresenta un elemento antagonista ad esso; che il famoso mercato "autoregolatore" cui il capitalismo si richiama, è in realtà un fattore di anarchia permanente destinato ad un certo punto ad esplodere attraverso crisi e guerre; che a questa anarchia, pagata da sofferenze e sangue proletari, l'unica via d’uscita è la distruzione del sistema presente e l’organizzazione di una società finalmente basata su una razionale amministrazione delle risorse sociali (e naturali) per i bisogni sociali dell'uomo.

La Rivoluzione d'Ottobre del ’17 e i vari tentativi rivoluzionari verificatisi in tutta Europa nel primo dopoguerra hanno tentato di affermare concretamente questi principi. Sono essi, oggi, sorpassati?No.

È vero che la rivoluzione è stata poi sconfitta e noi tutti ne paghiamo attualmente le conseguenze. Il capitalismo ha saputo scongiurarne l’estendersi e l’affermarsi definitivo, ha ripreso il suo corso "ascensionale" ed ha potuto (nelle metropoli imperialiste) legare a sé i partiti, precedentemente rivoluzionari, del proletariato trasformandoli in sue appendici "riformiste", offrendo transitoriamente alle masse (sempre e soltanto nelle metropoli, non dimentichiamolo!) le briciole dei propri ritrovati profitti. L’ha fatto, però, passando per un’ulteriore carneficina mondiale e, successivamente, imponendo il proprio dominio -finanziario ed armato- alla maggioranza dell’umanità extra-metropolitana.

E, tuttavia, neanche questo gli è bastato. La crisi ritorna oggi inarrestabile e non è più "limitata" ad un secondo o terzo mondo su cui poterla scaricare, ma sta penetrando nelle metropoli stesse annunciando, per il proletariato, nuove lacrime e sangue. Tutti i borghesi ed i loro manutengoli piangono sulle difficoltà del sistema e chiamano (sappiamo già chi!) ai "necessari sacrifici". I comunisti soli denunziano il carattere reale della crisi capitalista: il capitalismo soffoca non per "penuria" di merci, ma per un’ipertrofia produttiva rispetto alla domanda solvibile del mercato, proprio mentre i bisogni sociali rimangono sempre più insoddisfatti. E solo il comunismo, strappando questa potenziale ricchezza sociale all’appropriazione privata capitalistica, può risolvere i problemi della società. Non sono i proletari che debbono fare sacrifici: è il capitalismo che dev’essere finalmente sacrificato!

Non siamo comunisti "rifondati" o da rifondare. Giudichiamo bubbole i discorsi su un "mercato regolamentato", su un capitalismo "sociale" guidato dallo Stato, sulla possibilità di progressive "riforme" attraverso le quali mettere assieme le leggi del profitto e quelle dei bisogni sociali, del "potere dei lavoratori". Consideriamo falsità e tradimento ogni prospettiva di "cambiamento", di "alternativa", basata sulla negazione del proletariato, forte del suo partito comunista, quale forza antagonista centrale della lotta anticapitalista, per sostituirvi un gioco di "alleanze" tra classi e partiti diversi da far agire, naturalmente, attraverso le alchimie elettorali e parlamentari.

Questo genere di "comunismo" è semplicemente il frutto delle abitudini contratte durante il precedente ciclo "riformista" di sviluppo capitalista, della nostalgia per esso, della speranza di poterlo conservare e sviluppare proprio mentre esso sta inarrestabilmente franando. Su ciò si possono anche fare delle battaglie dentro ed in nome del proletariato, ma il risultato di esse non può essere altro che la confusione e la sconfitta: perché indietro non si torna. All’ordine del giorno, oggi, si ripropone prepotentemente l’antagonismo borghesia-proletariato, capitalismo-socialismo, ed esso non può in alcun modo essere scongiurato da (impossibili) rattoppi "riformistici".

Dicendo questo noi non diciamo affatto che la rivoluzione comunista stia dietro l’angolo, e non neghiamo affatto la necessità di lotte difensive, immediate, parziali. Diciamo però che queste stesse lotte non possono essere condotte a buon fine coi metodi e le prospettive del "riformismo". Diciamo, con Marx, che il vero risultato della lotta è il conseguimento del massimo di unità e di coscienza antagonista da parte della classe, vale a dire di addestramento comunista alla lotta per il potere.

Questo, secondo noi, l’insegnamento che scaturisce anche dalle vicende in corso nel nostro paese, dove è in atto non un perverso disegno "berlusconiano", ma un attacco centralizzato al proletariato dall’insieme della borghesia italiana ed internazionale. Come tale esso va fronteggiato e sconfitto sul terreno di una lotta di classe altrettanto centralizzata e decisa. L’esatto contrario della "strategia riformista" che riduce questa lotta a trampolino di lancio per la costituzione di "alleanze" con classi e partiti extra ed anti-proletari in vista di ipotetici governi "alternativi" (sempre e comunque rispettosi delle leggi del mercato, dei conti pubblici -della borghesia-, dell’improrogabilità di un’"efficace opera di risanamento" e di "giusti sacrifici per tutti"...).

Da dove veniamo?

In quanto OCI abbiamo poco più di dieci anni di vita, ma il nostro percorso politico ed organizzativo viene da assai più lontano, da una mai interrotta battaglia dei comunisti autentici in seno alla classe.

Veniamo dalla tradizione, italiana ed internazionale, di quella Sinistra Comunista che fu alla testa del Partito di Livorno e dell’Internazionale, e rimase poi schiacciata dal trionfante stalinismo per il venir meno dell’ondata rivoluzionaria degli anni venti, riducendosi a piccolissime formazioni prive d’influenza sulle masse e rose al proprio interno da dissensi e deviazioni opportuniste (in particolare nel caso dei "trotzkisti") o settarie nel senso deteriore del termine (com’è accaduto a molti gruppi e sottogruppi "bordighisti").

Stalin aveva proclamato la teoria del "socialismo in un solo paese": si affermò che l'URSS poteva da sola "costruire il socialismo", rimanendo tuttavia a baluardo della rivoluzione internazionale. Nel ripiegamento del movimento, questa parola d’ordine poteva suonare accattivante per una massa proletaria costretta in Europa sotto il giogo della "ristabilizzazione democratica" o, peggio, del fascismo. "Ha da venì Baffone!", si diceva. Ma, intanto, questo significava -come denunziarono le sinistre- spezzare l’unità del movimento comunista internazionale, e sottometterlo ad esigenze di stato sovietiche che, in quanto tali, non avrebbero portato ad alcun socialismo, bensì ad una nuova forma di "capitalismo di stato". I suoi esiti ulteriori sarebbero consistiti, contro tutte le speranze e promesse staliniste, nell'affondamento del "socialismo" sovietico da una parte, e dall’altra nella separazione da esso dei partiti "comunisti" metropolitani in nome dei "propri interessi", della "propria autonomia" nazionali, cioè del proprio capitalismo.

Se il "muro di Berlino" e tutti gli altri muri pseudo-socialisti sono caduti da poco, il muro del comunismo autentico si era già infranto con la partecipazione dell’URSS alla seconda guerra imperialista mondiale in alleanza con i briganti "democratici" USA e consorti e, in Italia, con la collaborazione di classe nella guerra di "resistenza" a fianco dei peggiori arsenali della borghesia nostrana ed alla coda delle grandi potenze imperialiste.

A cosa ha portato la direzione stalinista del movimento operaio?

In URSS, "la patria del socialismo", al riconoscimento esplicito della natura capitalistica di quella struttura economico-sociale ed al suo "selvaggio" adeguamento alle esigenze della "modernizzazione" (ad opera della stessa nomenklatura del partito e dello stato "comunisti", e non già di "agenti controrivoluzionari esterni"!). In Italia all’abbandono altrettanto esplicito da parte del vecchio PCI di ogni richiamo, anche solo verbale, al comunismo, col pieno riconoscimento delle leggi "eterne" del mercato, degli "interessi nazionali", del blocco tra le classi "progressiste" (dai lavoratori salariati alla grande borghesia "produttiva"), ed anche questo a titolo di riconoscimento postumo di un processo già compiutosi in precedenza.

Nell’uno e nell’altro caso, si è giunti alla piena adesione alle esigenze del capitale (ivi comprese le spinte imperialiste all’esterno), dietro le quali il proletariato è chiamato semplicemente a schierarsi con la promessa che, in quest’ambito, i "progressisti" saranno capaci di salvaguardarne margini di stato sociale "compatibili".

In tutti questi decenni le ridottissime forze comuniste, pur progressivamente ridotte di numero e costrette a fronteggiare infinite crisi interne, hanno tenuto alta la propria voce, denunziando questa deriva liberaloide ("social-imperialista") ed indicando la prospettiva a venire. Ad esse sono sinora mancati i "numeri", e non a caso: perché non può darsi un vero partito comunista al di fuori delle fasi di ardente lotta sociale e politica e, qui, la bruciante sconfitta degli anni venti ha significato il venir meno di una tale eventualità per tutto un lunghissimo arco di tempo.

Oggi, però, la realtà stessa delle cose fa tornare d’attualità la "vecchia" e "dimenticata" prospettiva antagonista del comunismo rivoluzionario. Ed a nulla varranno i tentativi di esorcizzarla da parte di "progressisti" andati a male e di nostalgici del defunto riformismo combattivo alla "vecchio PCI". Le stesse lotte di questi mesi dimostrano (se ne rendano immediatamente conto i proletari e i compagni) che lo scontro in atto non sarà tra una variante "selvaggia" ed una "regolatrice", "sociale", del capitalismo, ma tra capitale e lavoro salariato. E proprio dallo sviluppo di questo scontro noi ci aspettiamo non solo un rafforzamento della nostra organizzazione, ma un rafforzamento generale della capacità di autonomia ed organizzazione del proletariato, di cui noi, in quanto organizzazione, siamo parte ed organo agente.

Ciò significherà, necessariamente, il recupero da parte del proletariato d’avanguardia delle analisi e delle prospettive sviluppate in tutto il corso precedente dalla sinistra comunista: perché non si tratta di "idee" distillate da alcuni cervelli "a parte" del movimento, ma dell’anticipazione scientifica -nel contatto militante con la classe operaia- del terreno di battaglia su cui esso sarà chiamato a manifestarsi, frutto di un coerente e continuo lavoro di generazioni, da Marx (e prima) in poi.

Riproponiamo "il vecchio"? Il vecchio, e cioè il capitalismo, sistema sociale storicamente superato che ha già dato da tempo il meglio di sé, lo ripropongono gli altri. Utopia non è il comunismo; micidiale utopia è, più che mai, il "riformismo", messo ormai definitivamente K.O. dalle leggi inesorabili del capitalismo imperialista putrescente.

Come lavoriamo

La nostra organizzazione svolge un lavoro centralizzato di verifica, conferma e sviluppo dei punti cardine teorici e programmatici del comunismo "di sempre" e, in ciò, si sforza di stringere tutti i legami possibili con analoghi sforzi a scala internazionale, nella chiara coscienza che le sorti del comunismo e del suo partito si pongono su un terreno internazionale ed internazionalista.

Elemento centrale della vita dell’organizzazione è il lavoro di redazione e diffusione della stampa, cui tutti i militanti sono chiamati. Periodiche riunioni (ristrette ai militanti ed aperte ai simpatizzanti ed al "pubblico") hanno il compito di illustrare ed approfondire i temi svolti dalla nostra stampa, confrontandoli con le posizioni delle altre forze politiche presenti nel movimento operaio. Non si tratta affatto di un lavoro "intellettuale", ma di un lavoro eminentemente pratico, di battaglia, senza il quale ogni pratica d’intervento a nulla varrebbe. A misura che il proletario lotta sul serio, esso anche sul serio studia per diventare un militante cosciente in grado di dirigere la lotta, il movimento.

Contemporaneamente, i nostri militanti sono impegnati a stringere ogni possibile legame con l’esperienza quotidiana del proletariato ed i suoi problemi, ed a partecipare attivamente a tutte le sue lotte, sostenendole incondizionatamente senza mai rinunciare ad intervenirvi con la propria totale autonomia di posizioni e di organizzazione.

Nessuna di queste lotte è per noi "insignificante". Nessuna è "disprezzabile" solo perché si dà tuttora sotto il segno delle direzioni "riformiste". Non siamo dei predicatori di buone novelle e radiosi futuri che prescindano dal presente. Siamo dei militanti convinti che solo attraverso la lotta materiale possa svilupparsi la chiarificazione, la lotta politica, di partito, di cui essa ha bisogno.

Prendiamo proprio il caso dell’attuale lotta contro la finanziaria berlusconiana. È per noi scontato (mentre non lo è affatto per la massa) che una sua conduzione ed una sua conclusione ad opera incontrastata delle direzioni "riformiste" significherebbe un disastro per le sorti, presenti e soprattutto future, del proletariato. Questo esito, però, non è inevitabile; esso può essere scongiurato solo dalla radicalizzazione di questa stessa lotta -comunque e da chiunque sia stata dichiarata-, dallo scontro tra le forze antagonistiche implicatevi e dall’apparire in essa di un embrione almeno di direzione politica comunista. A tal fine è indispensabile innanzitutto che scenda in campo il maggior numero possibile di proletari "incazzati" perché solo da una tale dimostrazione di forza possono scaturire i dati successivi, una contrapposizione decisa e coerente al blocco borghese ed un inizio, quanto meno, di condizionamento ed autonomizzazione rispetto alle sirene "riformiste".

A ciò noi lavoriamo, senza alcun settarismo e senza, insieme, alcun codismo. Lo sanno bene i lavoratori che ci conoscono da più tempo e più da vicino.

È tempo che chi condivide od è comunque interessato alle nostre posizioni senta che non si tratta di "idee" con cui confrontarsi nella propria testa, fuori dal terreno materiale di lotta, ma cominci a prender parte alla attività che da esse origina ai vari livelli possibili: dalla discussione fattiva alla collaborazione alla stampa (con osservazioni, contributi informativi, cronache operaie, etc.), sino alla richiesta di adesione al lavoro dell’organizzazione in qualità di simpatizzanti e militanti futuri.

Non facciamo campagne di "reclutamento". Non cerchiamo dei "militanti" fittizi tanto per "riempire la bottega". Vogliamo fare dei militanti veri. La militanza piena è una cosa estremamente seria, che richiede l'adesione non solo al lavoro "pratico" indicato dall’organizzazione, ma all'insieme organico delle sue posizioni teorico-programmatiche e politiche. Questo è il tipo di militante che noi vogliamo. Ma questa è anche la conclusione di un lavoro di lunga lena alla quale chi si avvicina a noi e noi stessi dobbiamo sentirci impegnati. Si tratta, però, di cominciare, e crediamo che non ne manchino le occasioni.

Non inseguiamo un rafforzamento numerico fittizio della nostra organizzazione "in quanto tale". Crediamo che la sua forza reale sta nella sua capacità di sapersi legare ed influenzare in modo via via più stringente settori sempre più vasti delle masse in relazione alla loro riattivizzazione. Siamo perfettamente consci che lunga e difficile è la strada che dovrà portare al superamento dell’infezione opportunista che per decenni ci ha ammorbato e che, pertanto, non è ipotizzabile -né da noi agitato- un immediato distacco di quote decisive del proletariato dall’influenza "riformista". Perciò non siamo assolutamente "settari", ma al contrario fronte-unitari nei confronti delle masse (e condanniamo anzi ogni tentativo di precostituire artificialmente forme organizzativi, sindacali e politiche, anti-fronteunitarie). Al tempo stesso, siamo decisamente "settari" e "dogmatici" -per chi così ami chiamarci- nella difesa delle nostre basi teorico-programmatiche e politiche. Su questo terreno non siamo disposti a cedere un grammo dell’eredità trasmessaci da un secolo e mezzo di marxismo, perché si tratta di un'arma che non custodiamo "per noi", ma di un’arma per e del proletariato.

Un appello

Il nostro giornale si sta conquistando un ancora ristretto, ma sicuro "pubblico". Quello dei proletari, innanzitutto, che ci vedono costantemente e senza esitazioni al loro fianco, nei momenti della lotta come in quelli in cui la lotta non c’è od è, magari, rifluita. Ma anche quello di giovani non-proletari che comunque subiscono sulla propria pelle gli effetti devastanti della società presente, e che noi chiamiamo a lottare a fianco del proletariato perché da esso solo può venire la soluzione della cosiddetta "questione giovanile" . E ai quali mostriamo come l’impegno comunista riassuma e risolva in sé tutti i problemi che l’ideologia borghese presenta come "specifici" per disarticolare il fronte di classe e vanificare ogni sforzo di cambiamento (la scuola, l’associazionismo, l’impegno "pacifista" e di "volontariato", il problema "ecologico", la questione della droga...). Ma anche quello di settori femminili che sentono il problema della "doppia oppressione" consumata sulla pelle delle donne lavoratrici. Ma anche quello di immigrati decisi a non farsi chiudere in un ghetto (foss’anche quello della "carità" -lucrosa- che a volte viene loro "concessa"). Ed anche, poi, quello di compagni di altre parti del mondo, per rivolgerci ai quali spendiamo il massimo delle nostre disponibilità finanziarie e delle nostre energie con edizioni della nostra stampa in altre lingue (sinora in inglese, tedesco, francese, serbo-croato, arabo).

Non chiediamo a questo "pubblico" alcuna "adesione" immediata, nessuna "delega in bianco". Chiediamo ad esso, però, di aiutarci a redigere un giornale sempre più ricco di interventi "esterni", di esporci i loro problemi, le loro osservazioni, le loro critiche, di contattarci direttamente. Gli chiediamo anche di contribuire finanziariamente per una stampa che, comunque, mostra di apprezzare. Chi ci segue con interesse non potrà non rendersi conto che è ora di rompere col proprio isolamento individuale o di piccolo gruppo "familiare". È ora di lavorare per un’organizzazione reale di comunisti militanti, e di dedicare a ciò anche qualche sacrificio per il proprio portafogli.

Per quel che ci riguarda, noi facciamo l’impossibile grazie alla spontanea e totale adesione dei compagni dell’organizzazione. Non dubitiamo che i nostri "lettori", da comunisti, sapranno fare anch’essi la loro parte.

    ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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