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22 giugno  2011

 La "prima volta": flash su cosa successe

Riprendiamo da uno studio di Del Boca alcuni passaggi sui provvedimenti stabiliti dal governo libico nel 1970 sulla confisca delle proprietà degli italiani in Libia e sulla cacciata di questi ultimi dal paese. A seguire un altro stralcio dallo stesso testo sulle informazioni raccolte nel censimento libico del 1984 sui danni compiuti dalla dominazione coloniale italiana sulla Libia.

I brani sono tratti dal libro di Del Boca A., Gli italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi, Laterza, Bari, 1991

 Primo brano

 Il 21 luglio 1970 il CCR promulga tre leggi di importanza capitale, che prevedono la confisca di tutti i beni degli italiani e degli ebrei e l'espulsione di tutti i membri delle due comunità. Il decreto di confisca delle proprietà italiane viene letto dallo stesso Gheddafi alla radio. Esso dice: « In nome del popolo, il Consiglio del Comando della Rivoluzione, visto l’art. 8 dello statuto provvisorio dell’11 dicembre 1969, e nella ferma convinzione del popolo libico che è giunto il momento di recuperare la ricchezza dei suoi figli e dei suoi avi usurpata durante il dispotico governo italiano, che ha oppresso il paese in un periodo oscuro della sua gloriosa storia in cui l’uccisione, la dispersione e l’aggressione alle cose sacre è stata l’unica base per occupare i beni del popolo da parte dei colonialisti italiani e controllarne le risorse, decreta: Art. 1. Siano restituiti al popolo tutti i beni immobili degli italiani esistenti nel momento dell’entrata in vigore del presente decreto, che siano essi terreni agricoli, coltivabili, steppici o desertici, oppure terreni incolti, o edifici, ovunque essi siano, senza pregiudizio per lo Stato di richiedere il risarcimento in vece del popolo per i danni subiti durante l’occupazione italiana. Questi beni immobili ritornano allo Stato con tutto quello che vi è piantato, con le installazioni e macchinari fissi o moventi, i mezzi di trasporto, gli animali ed altri accessori relativi al servizio di detto bene. Art.2. Ogni proprietario sottomesso alle disposizioni del presente decreto, od il suo rappresentante legale […], dovranno presentare al Ministero degli Alloggi e Servizi o all’Ente Generale per la Riforma Agricola e per la Bonifica delle Terre, secondo i casi, entro trenta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto, una dichiarazione di ciò che possedevano e l’atto comprovante, se esiste ». Il comma 5 del decreto stabilisce inoltre che « saranno puniti con la prigione, per un periodo non inferiore ad un anno ed un’ammenda non inferiore alle mille sterline e non superiore alle tremila, tutti coloro che si asterranno dal presentare la dichiarazione indicata nell’art. 2 od avranno presentato dati contrari alla verità, come pure tutti coloro che agiranno in maniera da provocare delle distruzioni o dei danni agli edifici e agli accessori ».

La comunità italiana di Libia ascolta questa sentenza , che forse prevedeva, ma non così spietata ed inappellabile, con rabbia e indicibile amarezza. Essa non può accettare, è umano, che le si applichi la legge del contrappasso. Poiché non si sente affatto responsabile delle violenze, degli inganni, delle confische operati in Libia in nome di Giolitti e di Mussolini. Essa non vede alcuna giustificazione nelle decisioni libiche e interpreta il decreto del 21 luglio soltanto come una vendetta, ingiusta ed infame. E per di più è consapevole che il governo italiano, al di là di una rituale protesta, non farà nulla per proteggere i suoi beni. Si sente perciò due volte tradita.

Non bastassero le parole di Gheddafi a seminare rabbia e panico tra gli italiani di Tripoli, il 30 luglio il ministro degli Esteri libico Salah Bouissir tiene ad Ankara una conferenza-stampa nel corso della quale commenta ampiamente e con toni assai aspri le decisioni del 21 luglio. Innanzi tutti egli tiene a precisare che non si è trattato di una confisca di beni italiani, ma soltanto del recupero delle proprietà che l’Italia ha confiscato agli arabi nel corso di 32 anni di dominio coloniale. Una dominazione che descrive a fosche tinte, mescolando episodi realmente accaduti con altri volutamente esagerati, sino a denunciare una decimazione della popolazione in realtà mai consumata nei termini indicati. « L’Italia ha compiuto ogni possibile atto inumano ― dichiara testualmente Salah Bouissir ―. Per avere un’idea delle atrocità commesse dagli italiani basti ricordare che mentre la popolazione della Libia nel 1911 ammontava a due milioni, nel 1955 essa era scesa ad un milione e 250 mila. Vi erano campi di concentramento circondati di filo spinato, che rinchiudevano più di 100 mila persone. Dappertutto vi erano patiboli; nel paese regnavano la miseria e le malattie. Le nostre terre erano state prese e la popolazione araba deportata nel deserto. Ci era persino vietato l’ingresso nelle città. Per 32 anni l’Italia ci ha privato dell’istruzione. Durante questo periodo non è uscito da noi né un medico né un ingegnere. La politica italiana di quell’epoca tendeva addirittura all’annientamento della natura arabo-islamica della Libia. I famosi lager nazisti non sono per noi cose estranee, perché ne avevamo di ben peggiori in Libia ».

Poi Bouissir attacca direttamente e pesantemente gli italiani di Libia, accusandoli di aver conservato una mentalità imperialistica. « Non hanno mai voluto apprendere l’arabo, ―  spiega Bouissir ― né prendere la cittadinanza libica. Si sono sempre ritenuti una casta superiore a noi. Tutto quello che c’era di case e di terre era nelle loro mani, pur essendo di nostra proprietà […]. Noi vediamo in questa minoranza di italiani rimasti nel nostro paese la vecchia Italia coloniale. La nostra azione non è diretta contro l’Italia di oggi, ma contro questa minoranza di italiani rimasti in Libia con le vecchie idee ». Rivolgendosi infine al governo di Roma, Bouissir dichiara: « Se il governo dell’Italia d’oggi è diverso da quello di ieri, siamo pronti a discutere con esso e ci potremo mettere d’accordo su ogni questione. Comunque questa minoranza di italiani deve andarsene via e con questo gesto laviamo una macchia che risale al 1911 ». Bouissir conclude sostenendo che l’Italia si trova a dover scegliere fra due vie: « O riconoscere i torti compiuti nel passato o persistere nell’errore, con le conseguenze che ciò potrà comportare a causa del giusto rancore che noi ancora nutriamo ». La conferenza-stampa non è però finita. Un giornalista chiede un chiarimento: che cosa abbia inteso dire Bouissir quando ha accennato ad ulteriori rivendicazioni, oltre alle confische già attuate. Bouissir risponde: « Essere stati privati dell’istruzione e della civiltà per 32 anni, lo sterminio di un milione e mezzo di nostri connazionali durante la dominazione italiana, rappresentano ben qualcosa. Una apposita commissione sarà incaricata di fare una valutazione e in base a questa presenteremo le nostre rivendicazioni ». (pp. 470-472)

 In meno di tre mesi, grazie alla polizia libica, che in questo particolare caso rivela un’insolita efficienza, l’esodo degli italiani viene completato. Il 18 ottobre 1970 Gheddafi può annunciare che l’ultimo scaglione di italiani indesiderati ha lasciato il paese. « In Libia ―  riferisce Mino Vignolo ― rimangono 500 italiani residenti, riconosciuti come ‘buoni’ dal Consiglio della Rivoluzione, e 1800 pendolari fra lavoratori, tecnici e dirigenti di imprese di lavori pubblici e petrolifere. Sono il nucleo attorno al quale i nuovi dirigenti di Tripoli intendono ricostruire la trama dei rapporti tra Libia e Italia ». cacciati gli italiani, le autorità libiche vogliono anche cancellare i segni della loro passata presenza. Così viene chiuso il loro organo di stampa, « Il Giornale di Tripoli ». Mentre la cattedrale di Tripoli, dedicata al Sacro Cuore di Gesù, è trasformata in moschea e dedicata a Nasser, il cui ritratto è stato posto sull’altare.

«Il valore delle proprietà confiscate è stato stimato, con calcoli approssimativi e prudenziali, in circa 200 miliardi di lire del 1970 ― dichiara Giovanna Ortu, presidente dell’Associazione italiana rimpatriati dalla Libia ― . La svalutazione intercorsa tra il 1970 e il 1986 è, secondo l’ISTAT, di circa sei volte, per cui il valore attuale dei beni espropriati supera i 1200 miliardi ». Secondo l’agenzia libica JANA, sono stati confiscati agli italiani352 fattorie per complessivi 37 mila ettari, 1750 case, ville e appartamenti, 500 fra negozi, magazzini, ristoranti, supermercati, cinematografi, studi professionali, 1200 tra autoveicoli, aerei e macchine agricole. Nel fornire questi dati, nel dodicesimo anniversario della « Giornata della Vendetta», la JANA scrive inoltre: « Questa rivoluzione ha distrutto i troni dei traditori, ha cacciato le basi imperialiste, ha sconfitto i nemici del popolo e coloro che derubarono le sue risorse. Infine sono stati cacciati i rimanenti fascisti protetti nella corrotta era monarchica, perché rappresentavano una quinta colonna che complottava contro la libertà del popolo arabo-libico e si impadroniva delle sue risorse ». Replicando a queste accuse, l’organo dell’Associazione italiana rimpatriati dalla Libia così si esprime: « Proprio l’elencazione dei beni confiscati rende invece testimonianza della composizione prevalentemente artigianale e microimprenditoriale della nostra collettività e della straordinaria capacità agricola che ha donato alla Giamahirija 1.786.000 piante al posto della sabbia, 322 pozzi audacemente trivellati nel deserto, nonché 153 cisterne ». (pp. 475-476)

 Secondo brano

 Da un censimento compiuto in Libia nell’agosto del 1984, ad opera di 10 mila ricercatori su un complesso di 100 mila famiglie scelte tra le 660 mila che costituiscono l’intera popolazione libica, sono emersi 199.269 casi di danni, suddivisi come segue: 21.123 deceduti negli scontri che si sono svolti tra il 1911 e il 1932; 5868 uccisi o imprigionati dalle forze di occupazione senza alcun appropriato procedimento penale; 25.738 libici costretti ad arruolarsi con le truppe dell’esercito di occupazione e obbligati a partecipare alle operazioni di repressione del ribellismo libico oppure alla campagna per la conquista dell’Etiopia; 37.763 persone internate nei campi di concentramento; 30.091 libici costretti ad emigrare in Egitto, Tunisia, Algeria, Ciad, Sudan; 12.058 persone rimaste uccise a causa dei bombardamenti aerei e terrestri e dall’esplosione delle mine, in modo particolare durante la seconda guerra mondiale; 14.910 persone mutilate dalle esplosioni delle bombe e delle mine, durante e dopo la guerra mondiale; 19.871 libici che hanno avuto beni immobili o terre danneggiati a causa delle guerre tra il 1911 e il 1943; 30.231 persone che hanno subito perdite di bestiame o danni alle proprie aziende agricole; 840 persone che hanno denunciato distruzioni di moschee, musei, costruzioni di importanza storica o la perdita di libri e manoscritti; 463 persone che hanno denunciato avvelenamenti di pozzi, incendi di boschi o altri danni all’ambiente naturale; 239 libici che hanno denunciato danni a beni di utilità pubblica, quali porti , strade, edifici; 175 persone che hanno denunciato casi di imposizioni illegali, quali il lavoro forzato di ragazzi, donne e uomini anziani nelle costruzioni stradali.

I dati qui elencati non sono ovviamente completi perché si riferiscono soltanto a 100 mila delle 660 mila famiglie libiche, anche tenuto conto che già è stata operata una scelta su segnalazione degli stessi danneggiati. Gli internati nei campi di concentramento, ad esempio, non sono 37.763, ma oltre 100 mila, come abbiamo visto nel capitolo sulla riconquista fascista della Cirenaica. Anche il numero dei morti nel periodo compreso tra il 1911 e il 1932 è di gran lunga superiore ai 21.123 uccisi emersi dal censimento. Un discorso a parte, poi, merita il problema delle mine, poiché gli ordigni di morte continuano ancora oggi a mietere vittime. Secondo il professor Ahmed Bishara, che è il maggior esperto libico sul problema, i tre eserciti che si sono battuti in Libia tra il 1940 e il 1943 hanno disseminato dai 5 ai 14 milioni di mine di tutti i tipi. Di queste, sinora, ne sono state disinnescate un po’ più di un milione, in gran parte dalle società petrolifere nazionali e straniere. Dal 1945 al 1982 (mancano i dati precisi per il periodo della guerra) sono morti a causa delle mine circa 4000 libici, mentre altri 3000 sono rimasti feriti o mutilati. Dal 1982 in avanti, i morti non sono mai stati meno di una cinquantina all’anno.

Ai danni alle persone bisogna aggiungere quelli di carattere economico. Tra il 1957 e il 1982 sono saltati sulle mine 75 mila cammelli, 36 mila pecore, 12 mila capre e 1250 bovini. Intere regioni, un tempo adibite al pascolo e alle colture, per una superficie complessiva di 3.308.000 ettari, sono state abbandonate a causa delle mine, con un danno valutabile in centinaia di milioni di dinari libici. Si aggiunga l’enorme costo, diviso a metà fra lo Stato libico e le compagnie petrolifere straniere, per la bonifica delle concessioni. Lungo le strade, inoltre, si è dovuta operare una bonifica integrale per 500 metri sui due lati. Alcune zone, poi, definite « calde », sono pressoché impraticabili, come quelle intorno a Tobruk e lungo le linee di difera Bardia - Sidi Omar, Derna - el Mechili, al Gazala - Bir Hacheim. Ma campi minori di mine sono sparsi su tutto il territorio libico, anche nelle zone desertiche dell’interno. Va infine ricordato che ancora non sono stati completamente bonificati i porti di Bengasi e di Derna. « Un eventuale intervento globale, sistematico e completo, ― scrive l’ex ministro della Difesa Lagorio ―  richiederebbe l’intervento di ditte specializzate in operazioni siffatte, con costi e tempi elevatissimi sia per le condizioni ambientali sia per le incertezze circa tipi, giacitura e densità delle fasce minate. Si tratterebbe, in ogni caso, di intervenire in modo sistematico, su alcune migliaia di chilometri quadrati e in condizioni logistiche precarie. Non risulta, comunque, che il ministero della Difesa italiano abbia presentato un progetto di sminamento sistematico ».

Tra le richieste di Tripoli c’è infine quella che concerne i deportati libici in Italia. Di 4000 di essi non si hanno notizie. Sono come spariti nel nulla. Né l’Italia ha rilasciato certificati che comprovino la loro morte. Poiché la maggior parte di questi desaparecidos fu internata in Italia alla fine di ottobre del 1911, e poi nel 1915, le ricerche non sono facili, ma neppure impossibili. Negli archivi del disciolto ministero dell’Africa Italiana ci sono alcuni elenchi di internati; altri dovrebbero essere reperibili al ministero degli Interni, altri all’Archivio Centrale dello Stato. Ma già sappiamo, pur senza conoscerne i nomi, che in gran parte sono morti nei primi mesi di detenzione per le epidemie, lo scarso e cattivo vitto e le condizioni non proprio ideali dell’ambiente carcerario.

Questo, dunque, è il contenzioso libico. E si può capire perché Gheddafi ogni anno, con crescente insistenza, sino a passare alle minacce, lo rammenti al governo italiano. Anche Gheddafi, nonostante il suo potere quasi illimitato, deve fare i conti con un’opinione pubblica, con 100 mila famiglie che hanno un conto in sospeso con l’Italia. I loro dossiers sono allineati negli scaffali dell’edificio che al tempo dell’occupazione italiana era la Casa del Mutilato. Sono 100 mila fascicoli il cui contenuto è stato convalidato da due testimoni e controfirmato dal capo quartiere. Negli stessi scaffali ci sono centinaia di album con migliaia di fotografie a colori di mutilati e di storpi. Una vera corte dei miracoli. Una visione raccapricciante. Con Gheddafi o senza Gheddafi, queste 100 mila famiglie non rinunceranno ai loro diritti, non rinunceranno a conoscere il destino dei loro parenti scomparsi. A meno che l’Italia non si dimostri generosa. Con un gesto simbolico, ma anche munifico, che abbia due precise finalità: quella di dotare la Libia di un grande complesso ospedaliero che consenta ai libici di curarsi in patria e non all’estero e quella di chiarire in maniera inequivocabile che questo dono viene fatto dall’Italia repubblicana per cancellare i torti dell’Italia di Giolitti e dell’Italia di Mussolini.

Questa strada è già stata percorsa in parte dalla nostra diplomazia. E’ del 1984, infatti, l’offerta del ministro Andreotti di costruire a Tripoli un Centro cardiologico. In seguito si è recata in Libia una commissione medica italiana per indagare sulle reali necessità dei libici. Da allora sono passati quattro anni. Nel gennaio del 1987 si stava ancora discutendo sul numero dei letti. I libici ne volevano 1200, la Farnesina ne controffriva 100. Le contrattazioni non debbono aver fatto molti progressi, se Gheddafi, rievocando il 29 ottobre l’offerta italiana, ha commentato stizzito « che era solo propaganda ». (pp. 540-543)

22 giugno  2011

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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