Cosa vuol dire dare la priorità,

per davvero, alla vita umana

 

Ha ragione Gino Strada (il manifesto, 9 settembre) a dire che è difficile, al momento, stabilire le motivazioni del rapimento delle due volontarie di “Un ponte per…”.

È difficile dire se esse siano state rapite da chi non vuole più che in Iraq ci siano pacifisti o associazioni non totalmente allineati alla politica criminale del governo Allawi e dei suoi criminali burattinai statunitensi, inglesi ed italiani. Oppure se le due donne siano state rapite da un gruppo della resistenza irachena perché italiane, perché cittadine di un paese che sta partecipando direttamente al saccheggio dell’Iraq e alla repressione dell’indomito popolo che lo abita. Oppure, ancora, se la ragione stia nella rabbia di tanti iracheni per l’intreccio inseparabile che si è stabilito (le denunce in tal senso non mancano) tra l’intervento delle organizzazioni non governative in Iraq e la politica dei macellai occidentali, i quali attraverso non poche ong (e al di là della buona volontà di tanti volontari che vi lavorano) fanno arrivare un cerotto al popolo iracheno dopo averne martoriato il corpo, il tutto con il neanche troppo nascosto obiettivo di creare una dipendenza, di sgretolare un orgoglio nazionale (Uno dei progetti, ad esempio, in cui è impegnata una delle volontarie rapite, lo abbiamo letto sulla Repubblica del 9 settembre, è quello di ricostruire la biblioteca di Baghdad distrutta nell’aprile 2003 dall’aggressione militare occidentale; il progetto è finanziato anche dalla Regione Lombardia, guidata dal polo delle Libertà...).

Qualunque sia la ragione del rapimento, c’è un fatto che è invece arci-sicuro, e davanti al quale non possiamo continuare a chiudere gli occhi: qui in Italia, il movimento contro la guerra neo-coloniale si è insabbiato, è scomparso.

In primavera gli sono giunti appelli da parte di vari gruppi della resistenza irachena affinché si demarcasse dall’azione del governo Berlusconi, affinché accompagnasse con i fatti la sua opposizione alla presenza delle truppe italiane a Nassiriya. (Ricordiamo ad esempio l’appello lanciato da al-Sadr dalle colonne della Repubblica del 26 aprile.) Cosa ha fatto durante quelle settimane in concreto il movimento per la pace? Cosa ha fatto contro le stragi compiute dai “nostri” militari sui ponti di Nassiriya? Non sono stati uccisi decine (in realtà centinaia, ne ha parlato anche l’Unità) di manifestanti? Non erano vite umane le loro?

Se quegli appelli fossero stati raccolti, se il movimento contro la guerra fosse tornato a far valere le sue ragioni in piazza e non più soltanto nella coscienza individuale, se avesse riconosciuto nella resistenza irachena ciò che essa è, la più grande forza di pace al momento in campo, ciò avrebbe determinato un cambiamento decisivo del quadro dello scontro mondiale in corso. Lo avrebbe fatto corrispondere a quel che esso in effetti è: non uno scontro tra Occidente e mondo musulmano o tra religioni, come si presenta oggi, bensì uno scontro tra oppressi e oppressori, tra i signori della finanza e delle armi e i popoli e i lavoratori che non vogliono inginocchiarsi ai loro ordini. Questo cambiamento, al quale miriamo con tutta la nostra politica internazionalista, è l'unico in grado di porre le basi per una lotta efficace contro la "guerra infinita" e le sue radici.

Purtroppo, non è stato così. Nel movimento “no war” ci si è anzi preoccupati, spesso, di prendere le distanze dalla resistenza irachena o ci si è limitati ad invocare il cessate il fuoco in Iraq “da ambo le parti”, come è accaduto con l’appello di Emergency, che di fatto è stato (al di là delle intenzioni) un invito agli sfruttati e al popolo iracheno ad alzare le mani e ad accettare di diventare gli schiavi degli Stati Uniti, dell’Italia e della banda di cavallette arabe e curde che i “gringos” hanno reclutato in Iraq. Di più, nel movimento “no-war” si è legata e delegata l’azione contro la guerra al rilancio elettorale di un’“opposizione” parlamentare che oggi, coerentemente con le sue posizioni di sempre, arriva al patto con il governo Berlusconi.

Anche a noi, come a tanti lavoratori e a tanti giovani “no war”, questo patto fa ribrezzo e fa intravedere i tempi cupi che prepara la “casta” bifronte che tiene in mano il potere politico italiano per conto dei veri detentori del potere seduti nei consigli di amministrazione delle multinazionali e delle banche. Questa “sintonia” tra opposizione e governo, però, non ci sorprende. Perché i parlamentari “pacifisti” sono coloro che, in gran parte, hanno votato la guerra al popolo dell’Afghanistan nell’autunno 2001 e che hanno essi stessi condotto le operazioni di guerra contro i popoli jugoslavi nel 1999. Non ci sorprende perché essi condividono i pilastri di fondo della politica razzista e neo-colonialista del governo Berlusconi, al pari di quanto avviene negli Stati Uniti tra Kerry e Bush. Non è in questa “opposizione” che la lotta contro la guerra poteva e può trovare una sponda politica. Lì c’è solo un’ala del blocco guerrafondaio che guida l’Occidente capitalista e che rappresenta il nemico numero uno dei veri pacifisti occidentali.

“Dobbiamo tenere distinte la questione della guerra da quella del rapimento delle due volontarie”, ha detto Bertinotti. Ha spiegato che in quest’ultimo caso è in gioco la “priorità” di “salvare vite umane” e a tal fine è meglio tenere (come afferma anche il comunicato di “Un Ponte per...”) un profilo basso nell’opposizione alla presenza delle truppe italiane in Iraq, così da attivare ogni canale per il rilascio delle rapite, anche i canali del governo, a cui si chiede di adoperarsi per salvare due vite italiane, mentre esso, in Iraq, partecipa quotidianamente alla distruzione di tante vite umane...

Salvare vite umane. Ma, appunto, non sono vite umane quelle degli iracheni uccisi ogni giorno dai bombardamenti degli alleati? Non sono vite umane quelle falciate, ad agosto, nelle marce verso Najaf dalle mitragliatrici della polizia irachena e dalle forze Usa? E come mai queste vite non hanno avuto e non hanno la “priorità” per l'aspirante neo-ministro Bertinotti? Evidentemente il valore della vita di un iracheno è inferiore a quello della vita di un cittadino italiano, orgoglioso discendente del genocida Cristoforo Colombo...

Salvare vite umane. Già: e poiché non se ne dichiara la “priorità”, non sono evidentemente considerate vite umane neanche quelle che muoiono e soffrono in Serbia e nella ex-Jugoslavia grazie all’intervento "umanitario" del governo D’Alema e all’aiuto portato dopo di esso dalle ong italiane, dal contingente tricolore in Kossovo e dalla democrazia made in Italy. I grandi mezzi di informazione, così amanti della vita umana, si guardano bene dal darne notizia, ma chi voglia può trovare un quadro aggiornato della drammatica situazione nel numero di luglio 2004 di “Yugoslavia notizie”. E c’è da sospettare che non siano considerate vite umane neanche quelle delle tante ragazze condotte a forza o dalla miseria nei bordelli dei Balcani per concedere il “meritato riposo del guerriero” ai militari occidentali in missione... Se così non fosse, se non si facesse questa distinzione razzista, ci si batterebbe con tutte le forze per imporre il ritiro delle nostre forze armate dai Balcani, per mettere fine allo scempio che l’Italia vi ha provocato e vi provoca, per denunciarlo, per far comprendere ai lavoratori italiani quanto tutto questo è rivolto anche contro di loro, perché ad esempio costringe i lavoratori jugoslavi e balcanici a vendersi a poche lire ai padroni italiani ed europei.

Salvare vite umane prima di tutto. E come mai questo nobile sentimento non è scattato nell’onorevole Bertinotti quando a giugno, ad Ostia, due padroncini, in linea con la politica del governo in carica, hanno ucciso a sprangate un immigrato che aveva reclamato la sua paga? Come mai la “priorità” non è fatta valere, in concreto e non solo nelle dichiarazioni, per le vite degli immigrati a rischio nelle acque del Mediterraneo? Forse perché anche Rifondazione faceva parte del governo Prodi, quando nel 1997 una nave militare italiana speronò e affondò la nave Kater i Rades carica di immigrati albanesi?

Salvare vite umane? Va bene, ma che sia così per davvero e si smascheri chi si mette in bocca queste parole per difendere, gratta gratta, il privilegio della razza bianca di dominare e spellare vivi i popoli dei continenti di colore. Salvare vite umane per davvero richiede di distinguere tra coloro che attentano alla vita umana con le loro guerre "umanitarie" e le loro politiche economiche, di destra o di "sinistra" che siano, e coloro che, dall’altro lato, ai crimini di queste guerre e di queste politiche cercano di resistere, come possono e devono, come accade in Iraq nel totale isolamento internazionale e con un crescente radicamento popolare, come persino un Bush e la stampa ufficiale statunitense sono arrivati a riconoscere.

Non saremo certo noi comunisti internazionalisti a negare la necessità di portare avanti, in Italia e in Occidente, una politica umanitaria verso il popolo iracheno. Tutt'altro! Ma essa non può andare a braccetto con coloro che, come ha scritto Strada, sono “in sintonia” di “valori” con il governo di Berlusconi, non può accettare che costoro stiano dentro il movimento “no-war”. Né può consistere nell’aumento del numero dei pacifisti presenti in Iraq. A far cosa? L’aiuto fondamentale di cui hanno bisogno gli iracheni e la loro lotta di resistenza è quello che possiamo dare qui in Italia con lo sviluppo di una vera lotta per il ritiro immediato e senza condizioni delle truppe italiane. Per loro e per noi stessi.

Siamo sicuri che non pochi giovani e lavoratori sentono questa urgenza, ma non sanno come portarla avanti. Non vogliono che gli iracheni li considerino occidentali come i Bush e i Berlusconi, ma si sentono impotenti a far valere le loro ragioni. Bene, questa “diversità” va dimostrata con i fatti, e non solo con le parole, non solo con le manifestazioni-sfilate ogni qualche mese: altrimenti non ci si lamenti che la resistenza arabo-islamica verrà a colpire qui “alla cieca”, una cosa del genere non sarà altro che il prezzo della nostra cecità. L’impotenza la si potrà superare, se le persone di “buona volontà” si daranno da fare in prima persona per un lavoro di auto-organizzazione e auto-chiarificazione finora quasi del tutto eluso.

C’è bisogno di costituire dei comitati, degli organismi stabili, per mettere a fuoco le ragioni della guerra infinita, la natura sociale degli schieramenti in campo, la funzione pro-imperialista delle organizzazioni umanitarie, le ragioni per cui il movimento di resistenza degli sfruttati in Iraq non può esprimersi (contingentemente) che dietro l’islamismo radicale, il legame indissolubile esistente tra il destino degli sfruttati del Nord del mondo e quello degli sfruttati iracheni e del Sud del mondo.

C’è bisogno di organizzare e portare avanti, parallelamente, una campagna di propaganda verso i lavoratori nella quale chiarire il loro interesse a battersi per il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq (e dal resto del mondo) e il legame della guerra esterna del governo Berlusconi con quella interna che esso conduce a colpi di tagli allo stato sociale, liberalizzazione del mercato del lavoro, assedio contro gli immigrati, riforme federaliste.

C’è bisogno di appoggiare concretamente le iniziative di lotta dei lavoratori immigrati e di denunciare a tutto campo la campagna razzista ed anti-islamica che, per vie istituzionali ed extra-istituzionali, si sta abbattendo su questi nostri fratelli di classe.

Abbiamo bisogno, sulla base di questo impegno organizzato in prima persona, di arrivare ad una mobilitazione generale che, a furia di scioperi e di manifestazioni, blocchi l’Italia, leghi insieme nella lotta lavoratori italiani e lavoratori immigrati, imponga il ritiro delle truppe dall’Iraq (e dal resto del mondo), unisca la lotta contro la guerra esterna di Berlusconi con quella contro la sua guerra interna… Questo sì che si chiamerebbe salvare vite umane, anche quelle delle due volontarie rapite a Baghdad. Questo sì che permetterebbe di svolgere un ruolo davvero umanitario alle iniziative di aiuto materiale al popolo iracheno che un movimento di lotta del genere potrebbe e dovrebbe organizzare: non sarebbero più l’elemosina, fatta anche con buon cuore, ai poveretti affinché accettino con rassegnazione il loro destino. Sarebbe la condivisione del pane (comunque ancora disegualissima) tra fratelli di lotta che si sentono tali e come tali si battono insieme contro il comune nemico capitalista, per una condizione sociale umana, a Baghdad, a Roma e nel resto del mondo.

9 settembre 2004

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA

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