Un breve aggiornamento dopo la battaglia di Najaf

 

Il 10 agosto, mentre era in corso l’assedio statunitense a Najaf, il Sole 24 Ore ha scritto: “Gli americani assediano Muqtada al-Sadr e le sue milizie nella valle della pace di Najaf, ma a loro volta anche gli occupanti sono assediati.” Il giornale della Confindustria, pur masticando amaro, ha colto nel segno: la battaglia di Najaf, il suo svolgimento ed i suoi (temporanei) esiti sono stati un’ulteriore dimostrazione di come e quanto la resistenza irachena alle truppe d’occupazione Usa-italo-inglesi abbia profonde radici popolari e di massa.

Lo stato maggiore yankee aveva preparato con cura l’attacco contro la città. Schiacciare Najaf avrebbe significato dare una dura lezione a tutto il moto di resistenza iracheno e realizzare una delle condizioni per la "normalizzazione democratica" dell’Iraq, cioè il disarmo delle milizie popolari del Mahdi. I generali a stelle e strisce avevano denominato l’operazione “trappola per topi”, convinti che la loro enorme superiorità in mezzi bellici avrebbe permesso una celere e completa distruzione dell’esercito del Mahdi. Ed in effetti dal punto di vista strettamente militare non ci poteva essere partita. Si trattava solo di dare il via alle operazioni e i “topi” (ecco, a proposito, uno dei tanti epiteti con cui il razzismo imperialista battezza le masse lavoratrici del Sud del mondo) sarebbero stati spazzati via in un batter d’occhio.

Ma le cose non sono affatto andate così.

I “topi” si sono difesi con le unghie e con i denti, l’esercito americano ed i mercenari iracheni del burattino Allawi si sono dovuti scontrare non solo con le milizie del Mahdi, ma con buona parte della popolazione della città santa. Nello stesso tempo, la resistenza della città di Najaf ha trovato simpatia militante in tutto l’Iraq (tanto nella parte sciita, quanto in quella sunnita) e, ad un certo punto, migliaia di iracheni si sono messi in moto dalle città circostanti, compresa Falluja, per marciare su Najaf e spezzarne l’assedio. Si è ripetuto quello che si era verificato ad aprile durante l’assedio della “sunnita” Falluja, quando da Baghdad decine di migliaia di iracheni avevano marciato sulla città assediata al grido di “Non siamo né sciiti né sunniti, ma fratelli musulmani ed iracheni. Via gli occupanti dal nostro paese”.

Alle porte di Najaf, i marciatori sono stati accolti e falciati a decine dal fuoco delle mitragliatrici dell’esercito governativo (cioè, è bene sempre sottolinearlo, dalle bande mercenarie al soldo dell’imperialismo). Nonostante ciò, l’imponente corteo è entrato nella città, dove ha fraternizzato con i guerriglieri. Lo stesso Corriere della Sera ha dovuto ammettere, sbigottito, che il clima era di lotta ed orgoglio, e che nella successiva e grande manifestazione, tutti (musulmani “radicali” e “moderati”) gridavano assieme “via gli occupanti” e “Allawi assassino”.

È vero che, dopo giorni di bombardamenti e di combattimento, la milizia popolare del Mahdi ha dovuto “lasciare” da un punto di vista strettamente militare la città. Ma non come avrebbero voluto i macellai occidentali (e, forse, lo stesso al-Sistani, almeno a stare ad alcune cronache pubblicate su Znet sull’“improvvisa” partenza di al-Sistani per motivi di salute per Londra alla vigilia dell’attacco statunitense). E poi, soprattutto, sul piano politico la battaglia di Najaf ha rafforzato la fiducia del popolo iracheno nella propria forza e la simpatia per al-Sadr, ben oltre i confini degli iracheni sciiti. Tant’è che lo stesso Bush è stato costretto ad ammettere che una larga parte della popolazione non si riconosce nel governo Allawi ma nei gruppi insorti, e che questi controllano intere città e aree del paese.

Chi, come Rossanda sul manifesto, afferma che in Iraq è in corso una guerra tra “due destre estreme”, dimostra solo una cosa: la propria cecità davanti alle ragioni che spingono gli iracheni, “civili” e combattenti, ad opporsi alle truppe di occupazione, alle truppe di polizia irachene, alle imprese occidentali che hanno già iniziato il saccheggio del petrolio e delle risorse del paese, alle bande di mercenari e trafficanti (magari travestiti da agenti umanitari) che contornano il regime di occupazione. Ragioni, al fondo, non diverse da quelle che nell’ottobre 2003 hanno spinto milioni di boliviani a rovesciare il governo che aveva svenduto gli idrocarburi alle multinazionali degli Stati Uniti. O da quelle che spingono i palestinesi a resistere come possono all’occupazione dello stato sionista o che portano i contadini brasiliani ad occupare le terre o che hanno spinto la popolazione lavoratrice argentina, nel dicembre 2001, ad una sollevazione che ha cacciato via i governi assoldati all’imperialismo. Sono le ragioni che alimentano l’odio di miliardi di persone nel Sud e nell’Est del mondo contro il capitalismo globalizzato.

Chi sproloquia di “guerra tra due destre estreme” si schiera, piaccia o meno, con uno dei due fronti, quello capeggiato da Bush. C’è chi arriva a sostenerlo apertamente, come fa un Barenghi dalle colonne del manifesto. C’è chi punta i piedi davanti a questa conclusione. Ma è lì che si va a parare quando si equiparano le ragioni della guerra popolare di resistenza irachena e le ragioni della guerra neo-coloniale del proprio governo. Si va a parare, volenti e nolenti, alla difesa dell’assetto economico internazionale fondato sullo schiacciamento dei popoli di colore.

Contro questo assetto, i popoli e i lavoratori dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia possono contare solo sulla propria forza. Una nuova conferma l’ha data la battaglia di Najaf: se gli Stati Uniti e i loro alleati non sono riusciti a schiacciare Najaf e quello che essa rappresentava, lo si è dovuto solo ed unicamente alla scesa in campo della popolazione e all’enorme forza che ciò sta conferendo al generale moto di resistenza iracheno. Esso non ha ottenuto niente dagli appelli rivolti, durante l’assedio, al Papa, all’Onu o... all’Italia. Chi ha parzialmente legato le mani ai macellai del Pentagono sono state le masse povere irachene, la loro determinazione ed il loro eroismo. Solo sul loro protagonismo possono contare, senza alcuna delega neanche alle classi possidenti locali al momento in rotta di collisione con gli Stati Uniti e con l’Italia. Anche su questo punto, la battaglia di Najaf ha offerto più di un insegnamento.

Al-Sistani era volato a Londra proprio quando erano in corso i preparativi dell’assedio. Diversi commentatori hanno rilevato come al-Sadr e ciò che le masse lavoratrici vedono in lui, ossia la volontà di far pesare le loro esigenze nella vita del paese, siano un problema per al-Sistani e per la classe di proprietari terrieri e commercianti che egli rappresenta. Questa classe è sicuramente colpita nei suoi interessi materiali dall’occupazione delle cavallette occidentali, ma si guarda bene dal portare avanti la lotta contro di esse con i soli metodi che contino, quelli rivoluzionari: teme che ciò possa portare ad una crescita dell’organizzazione di massa degli sfruttati iracheni e dare peso alla loro rivendicazione di usare la ricchezza petrolifera ripresa dalle mani occidentali per lo sviluppo sociale di “tutta la nazione, irachena e araba”, e non solo di alcuni strati sociali privilegiati.

Chi bestemmia di “due destre estreme”, inoltre, non vede e non vuol far vedere che la guerra del popolo e degli sfruttati iracheni (e islamici) non è cosa diversa dall’esigenza dei lavoratori italiani e occidentali di difendersi dall’attacco ai salari, ai contratti, all’agibilità sindacale, agli orari, allo “stato sociale”, ecc. che i governi, il padronato e il capitalismo internazionale stanno continuando a portare avanti. E che è proprio il ritardo nello sviluppo della lotta di massa dei proletari in Occidente a far mancare alla guerra di liberazione degli iracheni, e alle lotte del Sud del Mondo, l’ossigeno indispensabile perché esse riescano a liberarsi fino in fondo dall’abbraccio con i settori della borghesia nazionale e a dotarsi di un’organizzazione e di un programma adeguati allo scontro con il capitalismo globalizzato. Questa organizzazione e questo programma non possono essere quelli di al-Sadr, come non possono essere quelli di un Chavez o di un Lula o di un Mandela. Ma è solo a partire dalla lotta ingaggiata dietro queste bandiere, le uniche al momento a disposizione degli sfruttati del Sud del mondo, che essi potranno liberarsene. E riusciranno a farlo, se anche i lavoratori occidentali cominceranno a fare la loro parte, se arriveranno a vedere nella sconfitta delle potenze occidentali in Iraq da parte della resistenza popolare la loro vittoria, se in un loro nucleo inizieranno a liberarsi dall’oscurantismo delle panacee riformiste e parlamentariste della “sinistra” nostrana e a percepire che la conquista di un programma e di un’organizzazione efficaci da parte degli sfruttati di “là” non è cosa diversa e disgiunta dalla conquista di un programma e di un’organizzazione efficaci per gli sfruttati di “qui”...

 

12 settembre 2004

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