La sospensione della leva obbligatoria serve a rendere più efficiente la macchina bellica dell’Italia. Contro i popoli del Sud e dell’Est del mondo, contro i lavoratori immigrati e contro gli stessi lavoratori e giovani proletari italiani.

 

Dal 1° gennaio del 2005, la chiamata obbligatoria alle armi lascerà “definitivamente” (?) il posto ad un esercito di professionisti. Lo si è deciso il 29 luglio 2004 con la quasi unanime approvazione alla Camera di un disegno di legge che abolisce, dopo 143 anni, il servizio militare obbligatorio. È il compimento di un lungo percorso iniziato con il governo di centro-sinistra, che già aveva preparato una riforma della leva con l’allora ministro della difesa Mattarella.

 

Il disegno di legge che Antonio Martino ha definito “epocale”, ridisegna l’assetto delle forze armate a partire proprio dalla naja, che ufficialmente non viene abolita ma solo sospesa. Dall’inizio del 2005 l’esercito sarà composto esclusivamente da volontari il cui periodo di ferma avrà durata minima di un anno. Preoccupato dall’eventualità sempre più concreta che pochi, fra i giovani, scelgano volontariamente di indossare la divisa, e alla luce dei recenti dati sul reclutamento, assai inferiori alle aspettative, il governo ha studiato una serie di misure volte ad incentivare la scelta della leva volontaria. Fra le più importanti, l’obbligo di destinare il 100% dei posti disponibili nelle forze di polizia a quanti si sottopongano volontariamente ad un anno di militare. In poche parole, per fare il poliziotto e il carabiniere, ma anche il vigile del fuoco o la guardia forestale, bisognerà in futuro aver fatto prima il soldato. Sono previste inoltre facilitazioni per tutti i concorsi statali.

 

Le reazioni, da parte della maggioranza come dell’opposizione, sono state entusiastiche. A sentire i due schieramenti la riforma si presenta come una vera e propria liberazione dall’obbligo della leva, il che andrebbe a favorire i giovani e tranquillizzare le famiglie rispetto ai rischi di operare in teatri di guerra o partecipare alle “missioni umanitarie”. Superficialmente, la riforma si presenta in effetti in una veste positiva, dal momento che “congela” temporaneamente l’obbligo di leva e dà quindi la possibilità di evitare quello che per molti ragazzi è un incubo di dieci mesi. In realtà questa legge non guarda affatto agli interessi e ai bisogni dei giovani e delle loro famiglie, ma ad un obiettivo che è rivolto anche contro di loro: il rafforzamento e miglioramento della macchina bellica italiana e del suo ruolo nello scacchiere imperialistico internazionale.

La professionalizzazione dell’esercito è un mezzo per cementare un blocco sociale e militare in grado di operare al meglio là dove gli interessi neo-colonialisti dell’Italia trovano popolazioni non disposte a chinare la testa (dai Balcani al Medio Oriente). Con questa riforma, dice il governo, gli obblighi militari, le frustrazioni della leva, le gerarchie e le violenze gratuite e soprattutto l’incubo della guerra sono definitivamente allontanati dalle vite degli italiani. È vero esattamente il contrario: ci si deve dotare di un esercito adeguato ai compiti militari imperialisti crescenti. Questa riforma non mette al riparo da guerra ed esercito; determina invece le condizioni per poter andare in guerra con strumenti migliori. E per re-imporre, un domani, quando le condizioni della “guerra infinita” lo richiederanno, la leva obbligatoria di massa (non a caso l’obbligo della leva è soltanto sospeso).

 

In effetti, la professionalizzazione dell’esercito non è l’unica novità che riguarda le attività del ministero della difesa. Recentemente Ciampi ha officiato a Genova il varo della prima portaerei italiana, la Cavour. Un progetto da 3,5 miliardi di euro! Progetto che, secondo le parole del presidente, permetterà all’Italia “di aspirare a ruoli strategici di comando in tutte le operazioni militari dell’Unione Europea”. Nello stesso periodo la Finmeccanica, la società che opera nel settore della difesa, dell’aeronautica, ecc., ed è per il 33% di proprietà pubblica, ha perfezionato la collaborazione con l’americana Lockheed Martin per “esplorare le opportunità di collaborazione nella difesa missilistica”. Per non parlare poi della decisione del Pentagono di trasferire da Londra a Napoli il quartier generale delle forze navali Usa in Europa, trasferimento che interessa anche il quartier generale della Nato Response Force, la forza di rapido spiegamento composta da 20mila uomini. La missione ufficiale del nuovo comando è quella di “pianificare e condurre l’intera gamma di operazioni militari in qualsiasi parte del mondo allo scopo di scoraggiare l’aggressione e contribuire all’efficace gestione della crisi.”

È in questo quadro di rafforzamento militare a 360 gradi che s’inscrive la riforma dell’esercito: non una diminuzione del ruolo militare dell’Italia, ma al contrario un rafforzamento che vede interessati, in negativo, sia chi intende partecipare al nuovo esercito, sia chi pensa che il non “mettere la firma” allontani dagli echi di guerra e di crisi che invece ci riguardano tutti.

Coloro che decideranno di far parte del nuovo esercito, spinti anche da una propaganda martellante fatta di patriottismo e di difesa della civiltà occidentale, saranno costretti a guardare in faccia la realtà: anche i militari professionisti vengono trattati come carne da macello, indotti a diventare veri e propri assassini, strumento nelle mani dei governi per imporre il proprio dominio e per domare la ribellione di chi sfida la loro arroganza. Salvo poi esser considerati con disprezzo dallo stato e dalle autorità quando muoiono o si ammalano per le conseguenze dell’uranio impoverito.

Anche per i giovani che non intendono partecipare al nuovo esercito la riforma della leva è un duro colpo. Essa genera l’illusione della guerra come qualcosa di lontano, cui può partecipare solo chi vuole. Ma le aggressioni scatenate nel mondo con il diretto contributo dell’Italia ci riguardano tutti, così come il rafforzamento militare operato dal governo interessa concretamente la vita di tutti i giorni, di tutti i lavoratori (chi paga i costi di queste riforme?). Così come riguardano tutti le umiliazioni, i disagi e le offese tipiche della “naja” perché di essi è intrisa la vita sociale e lavorativa anche al di fuori della caserma. Le gerarchie, il nonnismo, la precarietà e la solitudine non sono forse pane quotidiano per tanti giovani lavoratori anche quando non sotto sotto la “naja”? La disciplina, la competizione e lo sfruttamento del lavoro non sono all’ordine del giorno nei posti di lavoro proprio come avviene nelle caserme? La professionalizzazione delle forze armate e il rafforzamento del militarismo italiano servono anche per rendere più solide queste gerarchie e questa torchiatura nei posti di lavoro e in tutta la vita sociale.

 

La riforma della leva guarda, inoltre, anche al mondo degli immigrati. Come già accade negli Usa, essa prepara le condizioni per permettere alle forze armate italiane di trovare i suoi “volontari” anche tra i lavoratori immigrati, facendo leva sui ricatti e le condizioni di miseria in cui vivono questi ultimi . Il che darà al governo e ai capitalisti italiani anche un cuneo per stratificare il mondo degli immigrati e per crearvi una base di supporto alla loro politica di aggressione ai popoli del Sud e dell’Est del mondo, agli immigrati e agli sfruttati tutti. Da questo punto di vista, la riforma della leva converge con altre iniziative politiche della destra, dalla proposta di allargare (a certe condizioni!) agli immigrati il diritto di voto per le amministrative agli incontri tra le istituzioni statali ed ecclesiastiche con il fronte dei “musulmani moderati”.

 

I lavoratori e i giovani italiani, i lavoratori immigrati hanno interesse a discutere in profondità della riforma dell’esercito varata dal governo Berlusconi, a comprenderne bene le finalità e lo scenario a cui fanno riferimento. Da questo scenario i giovani, le famiglie, i lavoratori, hanno tutto da perdere!

La riforma della leva e la politica del governo in cui essa si inserisce possono essere respinte con l’unico mezzo che i proletari hanno a disposizione: l’organizzazione collettiva nei posti di lavoro, nelle scuole, nei quartieri, per lottare contro il governo, la sua macchina bellica, il suo ordine militaresco nei posti di lavoro e nella società, le sue guerre “umanitarie” neo-coloniali, il suo tentativo di scagliare contro i popoli del Sud e dell’Est gli sfruttati italiani e una parte degli stessi sfruttati immigrati.

 

12 settembre 2004

 

 

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