La mobilitazione contro la guerra negli Usa:

qualcosa si muove anche nel movimento sindacale.

 

Dopo le mobilitazioni dell’aprile scorso, è ancora una volta dagli Stati Uniti che arriva un segnale significativo su quale sia la strada da percorrere per fermare la macchina da guerra messa in campo dall’Occidente capitalista contro i popoli del Sud del mondo, contro gli immigrati e contro gli stessi lavoratori occidentali.

Per un’intera settimana, la Convention repubblicana è stata assediata da mille iniziative di base, convocate da un variegato spettro di associazioni con l’obiettivo di mettere sotto accusa l’“agenda di Bush” sia in politica interna che in politica estera. Per impaurire i lavoratori e i giovani che intendessero parteciparvi, per ridurre la dimensione di massa dell’iniziativa, la democrazia statunitense, sorgente ed esempio della democrazia universale, ha fatto scattare una poderosa repressione preventiva: ben 30.000 poliziotti sono stati schierati nelle strade, oltre 2.000 gli arresti preventivi effettuati [1]. Malgrado ciò, la mobilitazione non è andata deserta. L’iniziativa centrale, la manifestazione del 29 agosto, ha visto addirittura la partecipazione di 400mila persone (“e qui nei calcoli, ha scritto Sansonetti da New York sull’Unità, sono molto rigorosi e non tendono ad esagerare, in Italia avremmo detto un milione”). Le cronache raccontano di gente indignata e offesa per quanto sta succedendo negli Stati Uniti e in Iraq. Indignata contro l’amministrazione Bush, considerata il primo responsabile di una situazione che, dentro e fuori i confini nazionali, non va affatto bene per chi campa solo del proprio lavoro.

Sta qui il primo messaggio da raccogliere dagli Usa: il nemico principale è in casa nostra, è il nostro governo, sono le nostre multinazionali, il nostro potere economico monopolistico. E non potremo aspettarci niente di nuovo, qui e altrove, se non ci daremo una mossa per cambiare l’“agenda” di chi governa la “nostra” potenza capitalistica.

 Ma andiamo con ordine e vediamo meglio chi e per cosa è sceso in piazza.

 

I lavori si sono aperti il 27 agosto, con l’Iraq War Crimes Tribunal –di cui fanno parte anche Sara Flounders e Ramsey Clark–. Il meeting, da un lato, ha riconosciuto il diritto dei popoli iracheno e afgano, e di ogni altro popolo preso di mira, a resistere all’aggressione e all’occupazione imperialista; dall’altro, ha riconosciuto la necessità che i lavoratori occidentali, dal cuore stesso del capitalismo, diano sostegno militante a questa resistenza. Questa posizione non è certo maggioritaria all’interno del movimento “no war” degli Usa. Ma stramaggioritaria è la richiesta del ritiro immediato delle truppe, sostenuta non solo con manifestazioni partecipate, l’ultima appunto quella del 29 agosto, ma in una miriade di iniziative locali fondate sull’attività diretta di associazioni e singoli. Quella che, se si mettesse in moto in Italia, permetterebbe alla lotta contro la “guerra infinita” di fare un decisivo passo in avanti rispetto al pantano e alla paralisi in cui s’è ritrovata da diversi mesi.

Nei giorni successivi sono scese in piazza, chiedendo il ritiro immediato delle truppe, l’associazione dei reduci della seconda guerra mondiale,  quella dei reduci del Vietnam, quella dei reduci della prima e seconda guerra del Golfo –questi ultimi sempre più numerosi e disillusi–, sostenuti dalle stesse famiglie che hanno parenti ancora al fronte. L’esperienza militare, per i reduci, non ha significato altro che un peggioramento materiale delle loro condizioni di vita: probabilmente mai avrebbero immaginato di scendere ancora più in basso nei gradini della scala sociale dopo la carriera militare[2] (le reclute provengono, infatti, nella quasi totalità dei casi dalle fila della popolazione nera, dalla recente immigrazione ispanica e dal proletariato bianco più povero, senza contare i 37.000 soldati non statunitensi, reclutati in prevalenza nell’America Latina, con la promessa di ottenere la green card[3]). Eppure è successo, ed il futuro che li aspetta è fatto di malattie fisiche[4] e psicologiche, di mancato reinserimento nella società, di continui tagli alle pensioni di guerra… Nelle iniziative di New York, erano presenti anche i parenti delle vittime dell’11 settembre, riuniti nei gruppi 9/11 Families Against the War e September 11th Families for Peaceful Tomorrows, che si oppongono all’uso strumentale dell’11 settembre da parte dell’establishment governativo per giustificare politiche basate sulla guerra esterna, sulla repressione interna e sulla militarizzazione della società. Nel corteo delle donne per il diritto di autodeterminazione sull’aborto e sulla procreazione e contro il taglio dei fondi statali per la salute, la guerra è poi stata prospettata come negazione del futuro delle nuove generazioni: “Bush is taking away our children’s future. Money for preemptive war takes away money from child care” [“Bush sta rubando il futuro dei nostri figli. Il denaro per la guerra preventiva viene tolto alla cura dei bambini”][5]. In uno dei discorsi finali si è chiesta la fine di tutte le occupazioni: “quella dell’Iraq, dell’Afghanistan e dei nostri corpi”.

Rispetto alle iniziative contro la guerra avutesi negli Usa dopo il 2001, questa volta c’è stata una consistente partecipazione di lavoratori, anche se limitata ai lavoratori bianchi e non estesa ai tanti lavoratori immigrati che pure subiscono doppiamente l’effetto interno della guerra. Questo limite non è cosa da poco ed ha a che fare, come abbiamo scritto più volte sul nostro giornale, con la mancanza di una politica di netto schieramento contro l’imperialismo e a fianco delle lotte ingaggiate contro di esso dai popoli dei continenti di colore. Un passo decisivo verso di essa lo si è, però, cominciato a fare. Non pochi lavoratori statunitensi stanno vedendo che l’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq sta avendo su di loro effetti opposti a quelli dichiarati da Bush all’indomani nel 2001. La partecipazione dei lavoratori alla manifestazione del 29 agosto è stata un indizio di questo riorientamento. Ma altre iniziative, che la grande informazione democratica si guarda bene dal raccontare, sono state altrettanto e, forse, ancor più significative. Prime fra tutti, le discussioni che durante l’estate si sono svolte in alcune grandi organizzazioni sindacali e le risoluzioni adottate. L’iniziativa era già partita nell’ottobre 2003, quando un cartello di organizzazioni sindacali di base rappresentanti 400mila lavoratori aveva costituito l’associazione U.S. Labor Against the War (Uslaw). Il lavoro capillare svolto dai sostenutori dell’Uslaw e i colpi derivanti dalla politica di Bush hanno permesso ai promotori di cominciare ad entrare nei cuori dei proletari statunitensi.

 

Il 22 giugno l’assemblea della federazione dei Service Employees International Union (Seiu), 1.6 milioni di iscritti, ha votato all’unanimità una mozione che riprende i capisaldi della piattaforma dell’Uslaw. In essa, si afferma che la disoccupazione, il declino dei salari, la crescita abnorme degli straordinari, le pratiche anti-sindacali, i tagli al welfare, lo smantellamento in particolare del sistema sanitario, la crescente insicurezza di vita per i lavoratori “non possono essere risolti senza un cambiamento nella politica estera degli Stati Uniti” e negli obiettivi di essa. Nella mozione si denuncia il fatto che l’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq sta facendo crescere l’odio nei confronti degli Usa e mettendo a rischio la sicurezza dei lavoratori degli Stati Uniti. Si denuncia la crescita vertiginosa delle spese militari e gli effetti di ciò sul debito pubblico e sui tagli alle spese per la sanità, la scuola, ecc. Si mette sotto accusa il fatto che l’esportazione della democrazia in Medio Oriente sta portando ad una restrizione delle libertà democratiche all’interno degli Usa, soprattutto per gli immigrati e i lavoratori. L’assemblea ha rivendicato: la fine dell’occupazione dell’Iraq; l’utilizzo delle risorse indirizzate alle spese militari per investimenti sociali; la difesa dei diritti civili e dei diritti dei lavoratori, con particolare riguardo per quelli immigrati; “la solidarietà con i lavoratori di tutto il mondo che stanno lottando per la difesa delle proprie condizioni di lavoro, per il loro lavoro e per i loro diritti.” Qualche giorno dopo, una mozione analoga  è stata votata dall’assemblea nazionale dall’American Federation of State, County and Municipal Employees (Afscme), a cui sono iscritti 1.4 milioni di lavoratori. E poi, a luglio, dall’intera federazione dell’Afl-Cio dello stato della California, la cui assemblea generale (in rappresentanza di 2.5 milioni di lavoratori, un sesto di tutti gli iscritti al sindacato statunitense) ha anche approvato una mozione di condanna delle iniziative condotte all’estero dall’Afl-Cio in collusione con l’apparato statale. Nella dichiarazione specifica, si chiede “al comitato direttivo nazionale dell’Afl-Cio di rendere conto integralmente di ciò che è stato fatto in nostro nome in Cile, in Venezuela e in altri paesi, descrivendo, paese per paese, esattamente l’attività impegnata all’estero con i fondi delle agenzie governative, e di rinunciare a tali legami che potrebbero compromettere la credibilità del movimento sindacale statunitense e i suoi sforzi per creare solidarietà tra i lavoratori [di diversi paesi] negli Usa e all’estero, e che potrebbero presentarci come agenti del governo o delle forze delle corporations.” La dichiarazione, intitolata “Costruire l’unità e la solidarietà”, chiede inoltre di “stabilire un gruppo di lavoro per proporre una revisione dei programmi finalizzati a rafforzare la solidarietà tra i lavoratori dei vari paesi del mondo" e propone che i fondi per tali iniziative provengano dai lavoratori stessi.

È evidente che siamo ancora lontani da una coerente piattaforma di lotta contro la macchina imperialistica degli Usa, che non può prescindere, ad esempio, dalla rottura con l’ideale della difesa della patria e dal riconoscimento della propria lotta in quella portata avanti dai popoli e dagli sfruttati del mondo islamico e del “Terzo Mondo”. Ciò nondimeno, è difficile sovrastimare l’importanza di queste mozioni e, soprattutto, delle attività molecolari che le hanno sostenute, se si tiene presente che i lavoratori che le hanno votate, fino a qualche mese fa, sostenevano la politica estera di Bush. Lo ha spiegato in un’intervista a David Bacon (pubblicato sul sito di Znet) uno dei dirigenti del Seiu, Eliseo Medina. “I nostri membri tradizionalmente sostengono le nostre truppe all’estero e il nostro paese”, “non sono estremisti di sinistra”. Tuttavia essi hanno riconosciuto che la guerra in Medioriente sta peggiorando la loro situazione: “Essi sono preoccupati soprattutto per il crescente isolamento [internazionale] degli Stati Uniti. Vogliono che gli Stati Uniti sia un paese basato realmente sui valori della democrazia e temono che si comporti come un gangster. (...) La guerra, inoltre, sta drenando risorse dalle politiche interne, i nostri iscritti sono indignati del fatto che l’amministrazione Bush annuncia nuovi stanziamenti per l’Iraq mentre taglia i servizi sociali all’interno.”

 Il legame che si comincia a stabilire negli Stati Uniti tra la politica interna e quella esterna dell’amministrazione Bush, è un altro punto di forza per lo sviluppo di un efficace movimento contro la macchina della “guerra infinita”. E non sarà mai troppo tardi quando anche qui in Italia e in Europa, un primo nucleo di lavoratori, avvierà un’attività organizzata capillare per denunciare questo legame e per incoraggiare una mobilitazione di massa contro la “guerra esterna” e la “guerra interna” del governo Berlusconi e dei capitalisti italiani, il nostro nemico principale.

 

C’è chi ha ridotto la manifestazione di New York del 29 agosto ad una parata a favore di Kerry e del suo programma sostanzialmente non differente da quello di Bush. Siamo completamente d’accordo sul fatto che l’“agenda” di Kerry, come quella di Clinton che l’ha preceduto, abbia le stesse priorità dell’“agenda” di Bush. Riteniamo, anzi, che uno dei maggiori “punti deboli” della mobilitazione in corso tra i lavoratori e gli oppressi degli Stati Uniti sia proprio il ritardo con cui essa sta cercando di dotarsi di una propria autonoma organizzazione politica, fatta dai lavoratori per i lavoratori, e davvero in grado di far pesare sul potere politico le loro esigenze di classe “mondializzata”. Anche qui, però, le ultime settimane hanno riservato piccole, promettenti “novità”.

Da un lato, la manifestazione di New York, come ha notato sull’Unità l’attento Sansonetti, “era più una manifestazione anti-Bush che una manifestazione a favore di Kerry: parecchia gente portava i distintivi del partito democratico, ma non è che ci fosse un grande entusiasmo a favore dei due candidati [democratici]. Anche perché lo spirito fondamentale della manifestazione era uno spirito pacifista, e la richiesta urlata da tutti era: «Via dall’Iraq, basta con le guerre». E «via dall’Iraq» e «basta con le guerre» non sono precisamente le parole d’ordine della campagna elettorale di Kerry.”

Dall’altro lato, l’International Longshore and Warehouse Union, local 10 ha lanciato un appello alle organizzazioni sindacali, alle associazioni, alle comunità religiose, ai lavoratori non sindacalizzati per organizzare per il 17 ottobre, alla vigilia delle elezioni presidenziali, una marcia di un milione di lavoratori a Washington. Il sito web della marcia è www.millionworkermarch.org.  Le rivendicazioni della piattaforma sono quelle emerse nelle mobilitazioni dei mesi scorsi, sia sul piano della politica interna che su quello della politica estera. L’importanza dell’iniziativa sta nel fatto che essa nasce dalla volontà di “non lasciare un assegno in bianco nelle mani dei politici” che saranno eletti con il voto dei lavoratori, com’è invece tradizione che avvenga. Secondo gli organizzatori della marcia, in giugno, il presidente dell’Afl-Cio, J. Sweeney, ha trasmesso una circolare interna nella quale ha invitato le strutture sindacali a non aderire e a non dare supporto organizzativo alla manifestazione, in quanto essa viene da lui considerata dannosa per la cacciata di Bush a causa della diffidenza che susciterebbe nel “centro moderato” verso i democratici. La riuscita dell’iniziativa, che sembra stia raccogliendo l’adesione dei militanti sindacali più avanzati, sarebbe invece un bel passo in avanti per lo sviluppo di una coerente opposizione all’“agenda” di Bush, che poi è quella del capitalismo globalizzato. Ma su questo torneremo in un prossimo intervento, nel quale daremo qualche notizia in più sulla marcia del 17 ottobre e cercheremo di svolgere una riflessione di più largo respiro sul tema cruciale “lavoratori-e-politica”, “lavoratori-e-partiti politici” negli Stati Uniti.

15 settembre 2004


[1] Basterebbe citare l’arresto in un sol colpo di 200 ciclisti aderenti alla CriticalMass

[2] Carriera intrapresa nella maggioranza dei casi per avere accesso all’istruzione o garantirsi un posto di lavoro.

[3] La carta di soggiorno, che non equivale affatto all’ottenimento della cittadinanza, caso quest’ultimo possibile solo in caso di decesso in campo di battaglia.

[4] Basti pensare agli effetti dell’uranio impoverito…

[5] http://www.workers.org, numero del 9 settembre 2004.

12 settembre 2004

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