“Mettere al bando la miseria e la guerra” del Nord del mondo contro il Sud è possibile.

Chi e come può farlo?

 

Oggi molte persone sono qui in piazza per denunciare, come è scritto nell’appello di convocazione della marcia, un “mondo sempre più affamato, disperato, violento e violentato”, dove “crescono la miseria, le malattie, le disuguaglianze e l’ingiustizia che le alimenta. Crescono lo sfruttamento e la spoliazione dei paesi ricchi a danno di quelli più poveri...

Coloro i quali provano indignazione e rabbia per tutto questo e vorrebbero fare qualcosa per cambiare le cose sono chiamati a ragionare a fondo. Occorre chiedersi quali sono le cause profonde di questa situazione di “pace-guerra senza giustizia”, che cosa si può fare per cambiarla veramente, contro quali responsabili e insieme a quali alleati lo si possa e debba fare.

 

Prendiamo sul serio Bush&C.!

Nell’appello di convocazione si dice che “la miseria non è un fenomeno naturale ma la più crudele delle ingiustizie. Essa cresce in un’economia organizzata per il profitto di pochi anziché per il benessere di tutti, che mette il mercato al di sopra delle persone e privilegia la competizione selvaggia anziché la cooperazione.”

Siamo d’accordo, le radici profonde dell’ingiustizia stanno in un’organizzazione dell’economia e della società che subordina entrambe al profitto e al mercato. Ma anche questa organizzazione non è “un fenomeno naturale”. Di questa organizzazione, al cui centro campeggia lo sfruttamento del lavoro salariato nel mercato globalizzato, è necessario cogliere il carattere di sistema. Non basta vedere e denunciare i tanti alberi che descrivono i mali del mondo, perché occorre vedere che, dalle radici ai rami, essi si intrecciano in un’unica mondializzata foresta. E questa foresta, questa economia organizzata per il profitto, si chiama capitalismo.

È un sistema marcio, che ha esaurito da un pezzo ogni funzione “progressiva” e minaccia di precipitare l’umanità nello scannatoio fratricida e nella barbarie. Un sistema che tenta di risollevarsi dalla sua crisi scatenando l’offensiva contro il mondo del lavoro e innanzitutto una ancora più ampia e profonda e cruenta aggressione verso i popoli e gli sfruttati del Sud e dell’Est del mondo. Le discussioni strategiche aperte nella “classe dirigente” Usa e le promesse di Bush di trent’anni di guerra vanno prese sul serio: esse descrivono la direzione di marcia dei capitali e degli eserciti imperialisti che, oltre l’Afghanistan e l’Iraq, guardano verso l’Iran, l’Asia centrale e la Cina, perché confidano di potersi rilanciare sottomettendo la forza lavoro, le risorse e i mercati di quei paesi. Per fermare questa corsa alla guerra, per lottare per un “mondo con giustizia” non possiamo che confrontarci con questa situazione e questo orizzonte mondiali.

 

Ma contro chi dobbiamo lottare?

Chi sono i responsabili e i profittatori di questa situazione?

Sono “i pochi” sull’altare dei cui profitti viene sacrificato il benessere di tutti, sono “i paesi ricchi” che depredano e razziano i paesi più poveri. È una classe, la classe dei re della finanza e delle multinazionali -occidentale e bianca al 99,9 per cento-, che da diversi secoli serra il mondo nella morsa della sua rete di interessi, sfruttando l’umanità che lavora e negando alle popolazioni che opprime nel Sud e nell’Est del mondo la giustizia e “la pace vera”. E ci sono ben precise forze sociali, politiche e statali che difendono questo sistema e si fanno carico di organizzare l’economia e la società in questo modo. È necessario identificarle e lottare contro la loro politica. Non si tratta semplicemente della parte più reazionaria del capitalismo e dei suoi eccessi, né di guerrafondai texani o americani a fronte di un’Europa e un’Italia che invece vorrebbero e saprebbero dialogare e garantire benessere nel mondo. Né ancora di governi di centro-destra contro i quali ci si possa illudere ancora -dopo le guerre dei D’Alema-Clinton-Blair, prima tra tutte quella in Jugoslavia- di politiche “altre” condotte dagli Ulivi mondiali o -chissà perché e chissà dove- dalle istituzioni locali. Né infine di organismi internazionali -come l’Onu, il Fmi, la Banca Mondiale e il Wto- da “rivitalizzare” e cambiare. A chi non voglia apprendere la storia dalle invettive di una Fallaci, ricordiamo che la criminale “vitalità” dell’Onu ha già ben contribuito a preparare e benedire quasi tutte le guerre dell’Occidente bianco contro le popolazioni del Sud e dell’Est del mondo: dalla Corea (1950) al Congo (1964), dalla Somalia (1993) alla Jugoslavia (1999), dalla guerra del Golfo (1991) agli oltre dieci anni di embargo e al disarmo dell’Iraq prima della nuova aggressione.

Per questo è necessario lottare anche contro l’ipotesi di una riverniciatura sotto bandiere Onu dell’occupazione dell’Iraq e anche contro quel cambiamento di segno della “missione” a cui lavora in Italia il centro-sinistra (del tutto in sintonia, tra l’altro, con i piani di guerra imperialisti contro il prossimo bersaglio: l’Iran).

 

L’Onu non è e mai potrà diventare un organismo in grado di fermare le aggressioni imperialiste in corso e quelle in preparazione.

Nei consessi dell’Onu gli Usa e gli altri stati occidentali controllano i voti dei paesi attraverso mille fili. Per rescinderli occorrerebbe distruggere il meccanismo che sottostà ad essi, attraverso una lotta reale a scala mondiale tra classi sociali sfruttate e sfruttatrici e non con un galante confronto di proposte costituzionali. Questa lotta è la “sfida epocale” che l’“economia organizzata per il profitto” ci obbliga ad organizzare. Ed essa non può trovare alcun aiuto nell’Onu.

La miseria, infatti, “uccide ad ogni istante, anche quando le pistole sono silenziose”, uccide innanzitutto con la “pace senza giustizia”, con il cappio del debito, con le politiche delle multinazionali e il protezionismo degli stati occidentali soprattutto in campo agrario, con i brevetti e quant’altro. E l’Onu non ha mai messo all’ordine del giorno anche solo un j’accuse contro il mercato capitalistico, i monopoli capitalistici e i meccanismi di dominazione finanziarî con cui dai centri di potere occidentali si decide della vita e della morte di miliardi di persone. Come la Società delle Nazioni che lo ha preceduto, l’Onu è un covo di briganti.

Altro che “riforma” dell’Onu! Oggi si è scesi in piazza “per la rimozione delle cause e delle istituzioni dell’ingiustizia”! Siamo d’accordo: nessuna ingiustizia! Ma dobbiamo aggiungere che nessuna ingiustizia potrà essere anche solo attenuata senza “rimuovere” veramente tutta l’impalcatura mondiale del potere capitalista, con i suoi stati, i suoi governi, le sue istituzioni e i suoi organismi internazionali (Onu compreso) e locali, che operano da sempre come supporto tecnico e agenti attivi dell’intromissione e della rapina occidentali in ogni angolo del pianeta. E chiamiamo anche a riflettere sul ruolo giocato dalla chiesa di Wojtyla contro la lotta degli oppressi in America Latina e a favore della disgregazione della Jugoslavia; e sulla manovra di Benedetto XVI per un allineamento con ancor minori attriti ai piani di guerra dell’imperialismo occidentale. E chiediamo inoltre se operino veramente per la pace e la giustizia la stragrande maggioranza delle cosiddette organizzazioni non governative, che portano i “cerotti” alle popolazioni massacrate dai governi e dalle istituzioni occidentali che le finanziano, guardandosi bene dal denunciarne i crimini.

 

La guerra scatenata dall’Occidente inizia a tornare indietro come il boomerang.

Di fronte agli attentati di luglio a Londra il governo “ulivista” di Blair, che si avvia a introdurre il reato di “giustificazione del terrorismo”, ha detto che non c’è nessun nesso tra gli attentati e la guerra in Iraq. E ha aggiunto: “l’11 settembre sarebbe stata la risposta a quale guerra, visto che non erano ancora cominciate le operazioni contro l’Iraq?”

Davvero? E la prima guerra contro l’Iraq? E dieci anni di embargo e bombe, il massacro dei palestinesi, i bombardamenti di Tripoli, Bengasi e Karthoum, l’invasione della Somalia, etc. etc.? Per limitarci agli ultimi 15 anni e al mondo arabo-islamico, che subisce oggi la più accanita aggressione dei “nostri” civili governi d’America e d’Europa, Italia imperialista nel mazzo! E poi: quand’anche “non erano cominciate le operazioni contro l’Iraq”, non erano comunque puntate ben prima dell’11 settembre le “pistole silenziose”? E chi le impugna se non i governi occidentali e la rete dei grandi poteri capitalistici che li sorregge?

Il nesso tra l’aggressione plurisecolare dell’Occidente imperialista contro il mondo arabo-islamico e gli attentati dell’11 settembre, di Madrid e di Londra c’è, eccome! Perché nel Sud del mondo non ci sono soltanto le vittime, “i poveri uccisi ad ogni istante” dalla miseria e dalle guerre portate dall’Occidente. In quei paesi c’è una grandissima parte dell’umanità che lavora e produce, un’umanità che desidera anch’essa -come i manifestanti in buona fede di oggi, e diversamente dai parlamentari rutelliani e ulivisti che li accompagnano- niente altro che la pace nella giustizia e per questo resiste e combatte da sempre -come è suo sacrosanto diritto e dovere- contro le intromissioni e le conquiste coloniali e neo-coloniali dell’Europa e dell’Occidente. Gli sfruttati arabo-islamici non si inginocchiano ai “nostri” imperialismi che li aggrediscono e si difendono come possono contro i “nostri” bombardieri che sganciano uranio, napalm e cluster bombs. Gli attentati di Londra sono parte di questa complessiva resistenza dei popoli e degli sfruttati del Sud del mondo. E dunque il nesso c’è, eccome: la guerra imperialista scatenata dai “nostri” governi in terre lontane, “di importanza strategica” (per chi? per quali interessi?), inizia a tornare qui, nel cuore di quelle metropoli da dove da secoli la si pianifica e conduce.

 

Per allontanare la paura dalle città d’Occidente, l’orrore deve essere innanzitutto allontanato  dall’Iraq, dall’Afghanistan, dalla Palestina.

Ma questo non può essere fatto con blande richieste di ritiro e magari invocando una prosecuzione dell’occupazione sotto le bandiere dell’Onu o dell’Europa. Mentre le cosiddette protezioni statali con le “misure anti-terrorismo” non serviranno ad altro che a imbrigliare la capacità di organizzazione e di lotta dell’insieme degli sfruttati, immigrati e italiani.

Se veramente si vuole la pace nella giustizia, occorre il coraggio di gridare che essa passa soltanto per la più bruciante sconfitta morale, militare e politica dei “nostri” eserciti occupanti e della classe dei capitalisti che li arma. La resistenza irachena sta tentando di fermare i massacri dell’imperialismo e l’estensione della sua aggressione infinita all’Iran, alla Siria, etc. Questa resistenza per vincere ha bisogno del nostro sostegno, che noi la si riconosca come parte di un'unica battaglia mondiale contro la “pace-guerra senza giustizia”.

Che con essa si intreccino legami di conoscenza, di solidarietà, di comunanza di sentimenti e di lotta per poter veramente “rimuovere”, da qui e da lì, le cause e le istituzioni dell’ingiustizia. Legami che si facciano anche carico di discutere fraternamente quale sia la prospettiva di questa battaglia, dichiarando sin da subito, ma non come precondizione escludente, che per noi questa prospettiva è quella di un altro mondo possibile e necessario senza e contro il capitalismo. Di un altro sistema sociale: il comunismo. È la prospettiva del vero internazionalismo di classe, di una battaglia che vada alla radice dei problemi identificando il suo protagonista nell’unificazione di lotta della classe proletaria del mondo intero. Se le masse arabo-islamiche sono tuttora lontane dal guardare con fiducia a questa prospettiva è perché il silenzio e la complicità degli sfruttati occidentali troppo spesso ha mostrato ad essi un Occidente unito e indistinto che li opprime e aggredisce.

 

Dai popoli e dai lavoratori dell’Iraq e del mondo musulmano giungono molti appelli a noi “popoli” occidentali.

Ad essi occorre rispondere. Come è possibile marciare “per la pace” senza rispondere a chi vuole “pace con giustizia” dall’altra parte del fronte dell’aggressione imperialista? È veramente così difficile pensare che chi in Iraq e in Medio-Oriente resiste con le armi all’occupazione militare del suo paese si sta battendo proprio per quel mondo ”giusto e fraterno”, e tanto per cominciare senza occupazioni e saccheggi imperialisti, di cui si parla nell’appello per la marcia?

Ecco chi sono i nostri alleati. Rispondere ai loro appelli significa assumere come primo compito la lotta contro il nostro governo, le nostre istituzioni statali, il nostro capitalismo che concorrono ad occupare l’Iraq e incombono come l’avvoltoio su quel paese devastato. Questo è il dialogo con l’islam che è nostro interesse sviluppare. Senza porre condizioni, né pretendere di dividere chi resiste in “buoni” e “cattivi”: criminali e cattivi sono “i nostri” che occupano l’Iraq dopo averlo distrutto. Un dialogo è tutt’altra cosa dal “dialogo con l’islam moderato” che propongono alcuni settori del governo Berlusconi o la “sinistra”. Il dialogo che vogliamo sviluppare si rivolge agli sfruttati di fede islamica e richiede la mobilitazione dei lavoratori e degli sfruttati in Italia e in Occidente, per poter conquistare una politica realmente in grado di lottare contro la radice dell’ingiustizia ed estirparla per sempre, con -e non contro- i lavoratori e gli sfruttati arabo-islamici. Il loro raggrupparsi attorno a bandiere, laiche o religiose, incapaci di una coerente lotta all’imperialismo, fa il paio con la speranza -vana- dei lavoratori occidentali di potersi difendere dalla morsa che inizia a stringerli con un’impossibile riforma “equa e solidale” del mercato capitalistico.

 

I lavoratori occidentali sono chiamati a schierarsi.

Sono chiamati a respingere e denunciare la canea di criminalizzazione contro i lavoratori immigrati -innanzitutto quelli musulmani-, fatta di retate, arresti ed espulsioni di massa, di provvedimenti cosiddetti “anti-terrorismo” varati dal governo Berlusconi, che, puntando a  terrorizzare e colpire la massa degli immigrati, rappresentano una minaccia che non tarderà a far vedere i suoi effetti anche contro l’insieme dei lavoratori e degli sfruttati, anche di quelli italiani.

Abbracciare un coerente indirizzo di battaglia contro la guerra in Iraq e a sostegno della resistenza degli iracheni e degli sfruttati di tutto il Sud ed Est del mondo è interesse primario dei lavoratori occidentali, perché è anche l’unica strada per poter riprendere un’iniziativa che punti a difendere i propri stessi interessi, colpiti nei posti di lavoro e nella società con la riduzione del potere d’acquisto dei salari, la precarizzazione, la restrizione degli spazi di agibilità sindacale, i tagli al welfare, la crescente subordinazione dell’esistenza alle esigenze inumane del mercato capitalistico, ecc.. La morsa che i “nostri” governi e le forze sociali che li sostengono vogliono imporre sull’Iraq rappresenta il lato più crudo di una morsa complessiva che questi stessi poteri sono determinati a imporre sull’intero mondo del lavoro: sono due facce di un’unitaria politica condotta da tutti i governi d’Occidente, dal governo Berlusconi e, non ne dubitiamo, anche dal governo di centro-sinistra che dovesse rimpiazzarlo.

Solo unitariamente potranno essere denunciate e combattute. Lo hanno iniziato a comprendere i lavoratori degli Stati Uniti che hanno dato seguito alla denuncia e alla mobilitazione contro la guerra, evidenziando, nelle iniziative dei familiari dei soldati e nelle dichiarazioni di molte importanti organizzazioni sindacali, lo stretto legame con la lotta contro l’attacco sul fronte interno alle loro condizioni di lavoro e di vita. Anche qui in Europa siamo chiamati a fare altrettanto, abbandonando ogni illusione su una inesistente vocazione “pacifista” e “sociale” dell’Europa e denunciando fino in fondo per quanto ci compete l’imperialismo di casa nostra, italiano ed europeo, che concorre a tutti gli effetti, con il capofila americano, a depredare e saccheggiare l’intero pianeta.

 

Tutti questi temi sono posti sul tappeto e necessitano di una presa in carico e chiarificazione collettive attraverso un’organizzazione stabile della discussione, della denuncia, delle iniziative. L’esperienza di questi ultimi anni ha insegnato che l’opposizione alle aggressioni occidentali ai popoli del Sud e dell’Est del mondo rimane impotente finché resta confinata nel foro interno delle coscienze individuali o trova espressione, al più, nell’esposizione di una bandiera o in una manifestazione ogni tanto. Affinché questa opposizione diventi una “vera superpotenza” in grado di sbarrare la strada alle politiche dell’imperialismo, c’è bisogno che essa si organizzi stabilmente e mondialmente, c’è bisogno che in questo percorso essa riconosca nella massa dei lavoratori il protagonista della lotta contro la guerra e verso di essa rivolga la sua instancabile iniziativa di propaganda, di denuncia e di indirizzo politico.  


 


 

 


Organizzazione Comunista Internazionalista