LA LOTTA PER IL CONTRATTO

E LA LOTTA CONTRO IL GOVERNO

VANNO UNIFICATE E RADICALIZZATE!

 

Lavoratori, delegati,

gli scioperi per il contratto hanno avuto, in specie l’ultimo, una forte adesione e partecipazione degli operai, qualche volta anche degli impiegati, come stanno avendo una buona riuscita gli scioperi dei siderurgici, dei telefonici e di altre categorie. Ma, nonostante questo, il padronato non si sposta dalle sue ridicole “offerte” iniziali, e siamo quasi ad un anno dalla scadenza del contratto…

La stessa cosa si può dire per quanto riguarda il governo Berlusconi: diversi suoi provvedimenti hanno ricevuto risposte di lotta, e sarà così anche per questa nuova finanziaria anti-operaia con l’imminente sciopero generale. E però il governo, nonostante questo, nonostante l’evidente impopolarità, va avanti per la sua strada come nulla fosse.

Come mai?

Il fatto è che il padronato, forte del sostegno del governo Berlusconi, è più che mai deciso a scaricare la crisi del “sistema Italia” –che è parte di un più generale stato di difficoltà e di caos del capitalismo mondiale- sulle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia. E, nell’ambito delle relazioni sindacali, è più che mai deciso non solo ad abbassare il valore reale dei salari, ma ad archiviare lo stesso contratto collettivo nazionale di lavoro per la forza unificante che esso, comunque, conserva.

E il fatto è che il governo Berlusconi, forte del rinnovato sostegno della Confindustria (alla faccia della presunta “svolta a sinistra” di Montezemolo!), si muove deciso nella medesima direzione, facendo tutto ciò che è in suo potere per tagliare ulteriormente lo “stato sociale”, estendere ancor più la precarietà e indebolire l’organizzazione dei lavoratori, con un continuo, strisciante attacco allo stesso diritto di sciopero.

E’ quanto i lavoratori vivono quotidianamente sulla propria pelle, a cominciare dai posti di lavoro con l’aumento dei ritmi e dei tempi di lavoro e delle relative malattie (vedi la Fiat Mirafiori), con la moltiplicazione dei soprusi e delle ingiunzioni di tipo militaresco, con la difficoltà crescente di arrivare a fine mese e di trovare un nuovo lavoro, etc., per non parlare poi del violentissimo attacco che stanno subendo, in aggiunta a tutto ciò, i lavoratori immigrati, soprattutto islamici.

 

Dobbiamo, quindi, prendere atto che padroni e governi dei padroni fanno sul serio. Come fa sul serio Bush quando promette trenta anni di guerre. Una determinata fase di “sviluppo” e di “pace” è definitivamente dietro le nostre spalle, ma i lavoratori stentano maledettamente a prenderne atto ed a trarne tutte le conseguenze. Preferiscono continuare a mettere la testa sotto la sabbia come gli struzzi, sperando che prima o poi passi a’ nuttata (che, però, non passa).

Molto li “aiutano” in questo atteggiamento, che si sta rivelando sempre più auto-lesionistico, i vertici di CGIL-CISL-UIL, per i quali è sempre e comunque possibile trovare un punto di intesa favorevole tanto alle imprese e alla economia nazionale, quanto ai lavoratori, a condizione che i padroni siano “ragionevoli” e che i lavoratori lo siano ancora di più, accettando di subordinarsi alle “sacre e intangibili” regole della competitività aziendale e nazionale. Nei contratti ancora aperti, ad esempio, essi prospettano il seguente “scambio”: qualche euro in più agli operai (rispetto alle “offerte” iniziali di Confindustria) in cambio di ulteriore “flessibilità” in più. Che è come dire: a noi qualche spicciolo in tasca oggi, ai padroni, un “diritto”, un potere di sfruttarci (oggi e domani) ancor più pieno e incondizionato, che include anche la facoltà di comprimere e segare i nostri salari (la flessibilità salariale), soprattutto quelli dei nuovi assunti.

 

Di questo genere di “scambi” sono pieni gli ultimi trent’anni di vita sindacale, sicché è tempo, ormai, di fare il bilancio di una simile politica. Cosa abbiamo ottenuto? Siamo andati avanti o siamo andati, e continuiamo ad andare, indietro? Più volte ci è stato detto che una svolta positiva si sarebbe prima o poi verificata se non avessimo avuto grilli per la testa. Ma ogni volta tale speranza è andata delusa. I sacrifici accettati (spesso sotto il ricatto della delocalizzazione) sono sempre stati la premessa perché padronato e governo esigessero altri sacrifici, rendendoci più isolati e ricattabili. Mentre di pari passo si allontanava da noi non solo lo “sviluppo”, ma anche la “pace”, con le aggressioni belliche a catena -anche dell’Italia e dall’Italia- contro i popoli della Jugoslavia, della Somalia, dell’Afghanistan, dell’Iraq, etc. (con l’Iran già bene nel mirino), aggressioni destinate a ritornare necessariamente indietro anche qui. Insomma, il bilancio della politica della concertazione e delle “compatibilità” è negativo; questa politica non sa unirci, e svuota di forza anche le lotte più conseguenti e gli scioperi più riusciti. Sfidiamo chiunque a dimostrare il contrario. Ecco perché urge cambiare strada. E batterci con ben altra determinazione.

Ma, ci si dice, anche altrove, perfino nei paesi più ricchi e potenti dell’Italia, sta andando nello stesso modo. Licenziamenti di massa e allungamento degli orari in Germania e in Francia, liberismo selvaggio negli Stati Uniti, quasi una messa fuori-legge degli scioperi in Australia… Verissimo, ed è proprio questo il punto! Le questioni di fondo dinanzi alle quali si trovano oggi, nel contratto, i lavoratori metalmeccanici non sono solo loro. Non sono solo dei lavoratori italiani. Sono di tutti i lavoratori occidentali e, fatte le debite distinzioni, sono anche dei lavoratori del Sud del mondo. Ed è proprio per questo, per la loro generalità e radicalità, che non possiamo uscirne da soli categoria per categoria, nazione per nazione (gli operai di una nazione contro gli operai delle altre); possiamo uscirne solo con la massima unificazione delle forze della nostra classe, riconquistando la nostra autonomia di classe lavoratrice rispetto alla classe sfruttatrice.

 

In “concreto” ciò significa:

unire la lotta dei metalmeccanici con quella delle altre categorie in campo; unire la lotta per i contratti a quella contro il governo Berlusconi, dando allo sciopero generale del 25 un carattere di vera e vibrante protesta (e non di rito a cui non credono neppure gli officianti); radicalizzare l’una e l’altra lotta per strappare ai padroni le nostre già modeste rivendicazioni salariali, senza però alcuna contropartita; imporre la cacciata in piazza del governo Berlusconi, in modo da condizionare sul nascere con la nostra forza e le nostre aspettative anche l’eventuale futuro governo Prodi, a cui sarebbe suicìda rilasciare una cambiale in bianco. E significa, anche, legare la lotta sul fronte interno alla lotta contro le guerre d’aggressione imperialista che il “nostro” governo ed i “nostri” padroni stanno attuando contro i popoli sfruttati e oppressi del Sud del  mondo, contro la loro resistenza all’ordine dell’euro-dollaro. Questa resistenza è parte integrante della nostra stessa lotta contro un nemico che, al fondo, è comune.

Per fare questo è necessario che la classe lavoratrice arrivi finalmente a dotarsi di un’organizzazione e di un programma autenticamente di classe, che sappia integrare a pieno nelle proprie fila i lavoratori immigrati.

È pretendere troppo? No. Per difficile che sia da mettere in atto, è quanto dobbiamo cominciare a fare se non vogliamo, un passo indietro dopo l’altro, trovarci a precipitare all’improvviso nell’abisso.

11 novembre 2005

 

 


Organizzazione Comunista Internazionalista