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2.5.2008

Cosa sta realmente accadendo in Tibet e attorno al Tibet ?

Sono tre le posizioni che, sui fatti del Tibet, vanno per la maggiore nella sinistra di “casa nostra” e d’Occidente. Nessuna di esse, a nostro avviso, corrisponde agli interessi della classe proletaria.

1) La prima posizione è quella di Bertinotti. Egli, grosso modo, dice: “La Cina sta compiendo il terribile delitto di cancellare la cultura rappresentata dal Dalai Lama. Una cultura ispirata alla pace, alla fratellanza umana e alla ricerca di se stessi contro i falsi miti consumistici della società contemporanea. Dunque, bisogna mobilitarsi in favore di questo signore e di questa cultura”.

Il Dalai Lama rappresenta in realtà ben altro.

Fino al 1959, quando il Dalai Lama fuggì dal Tibet in India, egli era il vertice religioso e temporale di una teocrazia basata sul lavoro servile e su una condizione umana abbrutente. Se ne trova la descrizione articolata anche in saggi scritti da studiosi non sospettabili di simpatie né per il comunismo né per la Cina, non esattamente comunista, di Mao, di Deng Xiaoping e di Hu.[1] Ci limitiamo a ricordare qualche dato.

Le terre coltivabili e i pascoli erano quasi completamente nelle mani di un’aristocrazia (il 15% della popolazione) composta da duecento famiglie nobiliari e dalla gerarchia clericale lamaista. L’attività economica e sociale era frantumata nella vita quasi completamente autarchica dei grandi latifondi. I contadini erano schiacciati dal lavoro gratuito da svolgere per conto dei signori laici e lamaisti, dalle tasse, dai debiti. La speranza di vita per la maggioranza della popolazione era di 35 anni. Solo il 2% della popolazione aveva accesso all’istruzione. La donna era in una condizione animale e spesso, materialmente, viveva con gli animali.

Il buddismo lamaista era la legittimazione ideologica di questa struttura sociale ben più arretrata di quella medievale europea. È vero che al centro della dottrina lamaista vi era (vi è) la ricerca della via d’uscita dalla sofferenza che era il pane quotidiano per le masse lavoratrici tibetane. Ma quale era questa via? La rivolta contro la classe sfruttatrice? L’espropriazione dei latifondi? La liberazione dalle tenebre in cui erano tenute incatenate? La proiezione verso le correnti più avanzate della cultura e verso i movimenti sociali rivoluzionari (borghesi e socialisti) del resto del continente asiatico? L’esatto contrario. La ricetta buddista lamaista riconduceva le sofferenze del contadino e del mandriano alla cattiva condotta seguita dagli esseri umani nei quali si era incarnata in precedenza l’anima dell’uno e dell’altro. E prevedeva l’uscita dalla sofferenza soltanto sul piano ideale, attraverso il progressivo distacco del proprio animo dalle sensazioni, dai desideri, dalle gioie e dalle sofferenze. Il paradiso prospettato, il nirvana, non consisteva in una vita sociale pulsante e gioiosa, fondata sulla fratellanza umana, ma nell’annullamento dell’elemento prometeico caratteristico della specie umana. Nient’altro, quindi, che accettazione fatalistica dell’oppressione di classe ed oblìo di essa.

La gerarchia religiosa lamaista, nel mentre parassitava sullo sfruttamento dei contadini, dei pastori e delle donne, si era incaricata dell’alta missione sociale di far accettare agli sfruttati questa terribile consolazione per la loro vita terrena. Nel monastero di Drepung, uno dei tre principali monasteri della zona di Lhasa, vi erano 10mila monaci con 185 tenute e 300 pascoli nei quali lavoravano 16mila mandriani e 20mila contadini. Duemila dei diecimila monaci costituivano la milizia armata, la cui funzione principale era quella di punire la fuga dei servi.[2]

Questa è la cultura che, in forme titubanti dallo stesso punto di vista rivoluzionario borghese, fu messa alle corde dall’intervento in Tibet della Cina nata dalla rivoluzione popolare del 1949. Questa è la cultura che l’imperialismo occidentale sostenne come punto di appoggio dell’aggressione lanciata dopo la seconda guerra mondiale contro la rivoluzione anti-coloniale in Asia. In una lettera al presidente Truman del 1947, G. R. Merrel, l’incaricato d’affari degli Usa a Nuova Dehli, scrive: “Il Tibet può essere considerato come un bastione contro l’espansione del comunismo in Asia o almeno come un’isola di conservatorismo in un mare di sconvolgimenti politici. (…) L’altopiano del Tibet in epoca di guerra può rivelarsi il territorio più importante di tutta l’Asia”.[3]

Oggi l’imperialismo non intende ricostituire la servitù della gleba in Tibet. Come sessanta anni fa, però, pur se –come vedremo più avanti- su basi sociali nuove, il sostegno che l’imperialismo sta offrendo al Dalai Lama e alla comunità dei fuoriusciti tibetani serve per rafforzare la propria dominazione di classe in Tibet, in Cina e nel resto del mondo. Inneggiare come Bertinotti al Dalai Lama, perciò, significa non solo inneggiare all’approccio alla vita umana e ai problemi del mondo contemporaneo che costui predica, alla accettazione passiva dello sfruttamento di classe, ma anche rendersi complici dell’aggressione che, facendo leva sulla “cultura tibetana”, l’imperialismo sta portando avanti contro i lavoratori della Cina, compresi quelli tibetani.

Se ne rendano conto quei giovani occidentali, studenti ed esponenti dei ceti medi, che cercano nella filosofia lamaista una risposta alle ansie della loro condizione sociale e del loro futuro. Se erano all’oscuro di tutto ciò e sono sinceri nella loro ricerca, aprano gli occhi, riconoscano la reale sostanza sociale e culturale del lamaismo, e cerchino su un’altra strada la risposta all’infelicità di massa prodotta dal capitalismo e dal suo volgare “materialismo”. La cultura lamaista tradizionale, che non a caso gode di così favorevole stampa in Occidente, ben lungi dall’offrire una reale alternativa alle miserie psichiche e morali della società d’oggi, non può che rafforzare il dominio planetario del sistema sociale, il capitalismo, che le genera. La soluzione non sta nel dimenticarle o nel sublimarle. Sta nella rivendicazione di una vita ricca di bisogni umani autentici e di autentiche relazioni umane. Nella lotta terrena, portata avanti con il resto dell’umanità lavoratrice e sofferente, contro il meccanismo sociale che impedisce di realizzare “l’altro mondo” che è già possibile. Nella messa a frutto per l’insieme della società delle forze produttive del lavoro sociale universale sviluppate in un corso pluri-millenario.

 

2) Alcuni compagni e gruppi politici della “sinistra radicale”, come il Campo Antimperialista e R. Massari, hanno messo in luce tutto ciò, ma hanno invitato a fare una distinzione tra la gente che è scesa nelle piazze di Lhasa e la direzione lamaista della protesta. Hanno affermato che il protagonista della rivolta è stato il popolo tibetano e lasciato intendere, senza però fornire alcuna documentazione, che vi hanno partecipato diserederati, proletari e contadini oppressi socialmente e nazionalmente dalla Cina capitalista, dalla crescente ondata di cinesi-han in arrivo sul “tetto del mondo”. La conclusione cui si giunge in tali prese di posizione è quella di rivendicare l’indipendenza del popolo tibetano (con la parola d’ordine “Padroni a casa nostra!”) come momento dell’internazionale movimento di liberazione degli oppressi e dei lavoratori.

Ora, non c’è alcun dubbio che in Cina sia in corso uno sviluppo capitalistico che sta polarizzando la società sul piano sociale, territoriale e nazionale.[4] È altrettanto indubbio che questa polarizzazione abbia portato e stia portando ad una serie di proteste, rivolte, scioperi, manifestazioni nell’intero paese. Non saremo certo noi a negare l’una e l’altra cosa, anzi. Siamo d’accordo, quindi, a mettere in conto che a Lhasa possa essere accaduta una cosa del genere. Ma è stato davvero così?

Abbiamo cercato di documentarci. In attesa di informazioni più dettagliate, ci sembra che il reportage pubblicato su L’Economist di marzo fornisca un quadro realistico della protesta (l’articolo originale è molto diverso dalla traduzione italiana riportata da L’Internazionale). Il giornalista della rivista britannica racconta che la protesta è cominciata il 10 marzo con la manifestazione di gruppi di monaci in coincidenza con l’anniversario della fuga del Dalai Lama dal Tibet nel 1959 e con i parallelo avvio di una marcia “indipendentista” da Dharamsala da parte di un gruppo di organizzazioni dei fuoriusciti tibetani in disaccordo con la politica “moderata” del Dalai Lama. Lo stato cinese ha lasciato fare, e qualche giorno dopo sono entrati in azione gruppi di tibetani (si parla di qualche centinaia di persone) che hanno dato fuoco ai negozi dei cinesi-han e dei cinesi-hui di religione musulmana e ucciso diverse persone. Chi erano? Ancora monaci e, a fianco ad essi, giovani in abiti civili. Chi erano questi giovani? È probabile che fossero esponenti dei circoli lamaisti fuoriusciti, addestrati sotto la copertura dell’imperialismo e fatti rientrare, come è già accaduto nel passato recente e lontano, sotto spoglie mendicanti. Ma i (pochi) giovani che si sono ribellati a Lhasa potrebbero anche provenire dai tanti tibetani che, come accade ad una parte non piccola del popolo cinese, stanno subendo i contraccolpi dello sviluppo capitalistico dell’ultimo ventennio. La loro protesta non sarebbe, ovviamente, dettata dalla volontà di ripristinare la vecchia schifezza, il feudalesimo, l’analfabetismo di massa, l’oppressione della donna di tipo asiatico, la speranza di vita di 35 anni, ma di trovare una via d’uscita dalle pene indotte dallo sviluppo odierno.

In mancanza di una documentazione dirimente, quello che è davvero importante è cercare di stabilire le dinamiche di classe in atto in Tibet e attorno al Tibet. Incrociando le statistiche ufficiali cinesi e alcune ricerche compiute da studiosi di vario orientamento, il quadro che se ne ricava è quello di una regione che nell’ultimo decennio ha conosciuto uno sviluppo capitalistico a tassi superiori a quelli, già sostenuti, medi cinesi. I settori trainanti sono stati il turismo (in specie quello religioso, carburato dalla politica portata avanti da Pechino dopo il 1990 di controllato rilancio del culto buddista in Tibet e in tutta la Cina[5]), la costruzione di infrastrutture, la trasformazione dell’agricoltura dall’auto-consumo alla produzione per i centri urbani, le imprese della zona speciale d’insediamento industriale nei dintorni di Lhasa. Il processo ha conosciuto un’accelerazione dal 2006 dopo il varo della ferrovia Lhasa-Pechino e l’avvio, agevolato da tale ferrovia e sostenuto dall’intervento di alcune multinazionali canadesi e australiane, dello sfruttamento delle risorse minerarie (rame, ferro, piombo) recentemente scoperte nella regione autonoma del Tibet e nelle regioni confinanti del Sichuan e dello Qinghai.[6] 

Questo sviluppo sta portando non pochi contadini a lasciare i campi per cercare fortuna in città e, qui, a scontrarsi con l’arrivo di proletari, commercianti e imprenditori da altre parti della Cina, più dotati  - in soldi, legami istituzionali e preparazione tecnica - per impiantare imprese autonome redditizie o per trovare lavoro come salariati nelle mansioni specializzate richieste. Il fatto che Pechino abbia dato il via, subito dopo la protesta, alla costruzione di duecento supermercati per far arrivare più facilmente e a più basso costo le merci in Tibet, soprattutto nelle zone rurali, può far pensare che vi è anche del malcontento legato alla speculazione compiuta dai commercianti locali, spesso non tibetani. Un altro motivo di scontento può nascere dal degrado ambientale che lo sviluppo degli ultimi anni sta generando in Tibet: le centrali dell’informazione occidentale e i circoli tibetani collegati al Dalai Lama battono la grancassa su tale problema, che è reale, ma c’è da considerare anche il fatto che Pechino, in questo caso, sta cercando di contenere i danni diversamente da come ha operato nelle zone costiere del paese. Almeno sulla carta, il governo cinese sta obbligando le imprese, cinesi ed estere, desiderose di mettere le mani sulle risorse minerarie del Tibet e della confinante regione del Qinghai, a rispettare alcuni parametri ambientali.[7]

In virtù di ciò, i monaci buddisti, che non hanno mai accettato l’espropriazione delle terre e dei privilegi subìta nel 1959, intravedono la possibilità, proprio grazie agli investimenti in corso, agli aiuti ricevuti da Pechino (che hanno permesso ai componenti dei monasteri tibetani di passare dagli 800 del 1980 ai 50mila attuali) e alla crescita della fede buddista avvenuta nella popolazione cinese negli ultimi quindici anni (si parla di circa 200 milioni di buddisti praticanti nell’intero paese), di ricostituire il loro privilegio di classe su basi capitalistiche, con l’appoggio offerto dalla comunità tibetana in India e dall’imperialismo.

La comunità tibetana in esilio conta 150mila persone. Si tratta di discendenti dei membri dell’aristocrazia feudale tibetana fuoriusciti alla fine degli anni cinquanta. Essi si installarono a Dharamsala in India, in Nepal e nel Butan. Grazie al sostegno delle potenze e delle banche occidentali, grazie alle terre ricevute dal governo indiano, i fuoriusciti e i loro discendenti sono riusciti a impiantare una serie di redditizie imprese nel commercio, nel turismo e nella produzione di articoli artigianali (soprattutto tappeti). A questa “comunità”, i cui affari hanno compiuto un balzo negli ultimi venti anni e i cui rampolli sono stati allevati nelle più rinomate università occidentali, è venuta l’acquolina in bocca per la crescita economica del Tibet, e soprattutto per il crescente afflusso di turisti e pellegrini. Essa aspira a prendere in mano il malloppo legato a questo boom e, probabilmente, allo sfruttamento delle risorse minerarie che, sembra, sono possedute dalla regione autonoma del Tibet e dalle regioni circostanti con forte presenza tibetana. L’attivismo di un’opposizione estremista al Dalai Lama inneggiante all’indipendenza del Tibet rappresenta questo obiettivo economico-sociale.[8] Ad esso vanno, probabilmente, le simpatie dei ceti borghesi tibetani formatisi di recente anche in Tibet[9], che vogliono partecipare alla crescita capitalistica della regione ma che sono al momento penalizzati dalla presenza di imprese cinesi più competitive, o dai più solidi legami con le istituzioni locali, in mano ad elementi non tibetani.

Per realizzare questa loro aspirazione, gli strati borghesi tibetani, sia quelli interni al Tibet che i fuoriusciti, contano, senza nasconderlo assolutamente, sull’appoggio dell’imperialismo. Che, a sua volta, è ben contento di solleticare queste ambizioni, per farne un cavallo di Troia  contro la Cina, magari da gettare a mare non appena dovesse dimenticare di costituire nulla più che una pedina da quattro soldi al servizio dei veri padroni –occidentali- del mondo. L’incorporazione del Tibet entro il proprio spazio vitale permetterebbe all’imperialismo di sottrarre alla Cina e di acquisire per sé un’area di grande importanza strategica. Tale importanza discende dalla collocazione dell’altopiano tibetano al centro dell’Asia, dal fatto che nascono tra le sue montagne alcuni dei grandi fiumi da cui dipende la vita di due miliardi di persone dell’Asia e dalla presenza nell’altopiano del Tibet e del Qinghua, stando ai risultati dell’esplorazione geologica più recente, di alcuni minerali vitali per lo sviluppo economico cinese in grado di ridurre l’attuale dipendenza cinese dalle importazioni di tali minerali dai quattro angoli del mondo.

È possibile che nella situazione sociale creatasi in Cina e nella regione autonoma del Tibet la campagna nazionalista dei monaci lamaisti e dell’Occidente possa aver trovato e possa trovare una qualche rispondenza nel malcontento di nuclei di lavoratori e di contadini tibetani impoveriti in misura differenziale per effetto di discriminazione nazionali compiute verso l’elemento tibetano della popolazione cinese. Pur se in questo campo la disinformazione compiuta dalla documentazione accademica occidentale è, a parte rare eccezioni, gigantesca, le discriminazioni ai danni della componente tibetana sono incontestabili, così come lo sono, del resto, le trasformazioni sociali modernizzatrici realizzate da Pechino in Tibet dal 1959 ad oggi, che hanno prodotto lo smantellamento del feudalesimo lamaista e inserito il Tibet nel circuito storico mondiale. Indicativo quello che accade in campo scolastico. Oggi siamo lontanissimi dal 2% della popolazione alfabetizzata del periodo lamaista, ma la percentuale per i tibetani è inferiore a quella media della Cina. La frequenza scolastica si abbassa poi notevolmente quando si passa dalla scuola elementare alla scuola che conta, quella superiore e soprattutto quella universitaria.

Da questa situazione non deriva però, a nostro avviso, che per lottare contro lo sfruttamento capitalistico in Tibet e contro le discriminazioni nazionali in atto verso i lavoratori tibetani si debba alzare la bandiera del secessionismo tibetano. Come fa capire lo stesso generale Mini nel numero speciale di Limes sul Tibet, nel momento attuale questo secessionismo può andare solo nel senso di creare una specie di parco naturale del buddismo, una Disneyland del turismo pseudo-religioso, con la mietitura di profitti giganteschi per i tour operators occidentali. Questo sarebbe però soltanto il primo passo, aggiungiamo noi, perché dopo di esso, se non prima, seguirebbero decisioni ed insediamenti politico-militari volti a stringere ancor più la morsa sulla Cina e sui suoi lavoratori. Sull’altopiano del Tibet e del Qinghua potrebbe anche esserci il decollo, sotto l’ombrello occidentale, di un’industria legata allo sfruttamento delle risorse racchiuse nel sottosuolo dell’area, probabilmente con scempi ambientali superiori a quelli rimproverati a Pechino, ma questo sviluppo industriale non cambierebbe la sostanza del fatto che nella situazione odierna il secessionismo tibetano è, per gli Stati Uniti e per le altre potenze occidentali, lo strumento per creare un altro quasi-stato “indipendente” modello Kosovo, al servizio cioè della totale affermazione della dittatura del mercato e del profitto.

Nel XX secolo, gli esponenti più avanzati del popolo e dei lavoratori del Tibet hanno evidenziato quanto la loro liberazione dalla teocrazia feudale interna fosse legata alla liberazione dalle fauci dell’imperialismo inglese, giapponese e statunitense, e come l’una e l’altra non potessero svolgersi al di fuori della lotta per la liberazione della Cina tutta e del mondo intero dalle dominazioni di classe pre-capitalistiche e dall’imperialismo. Questa intuizione è oggi più vera che mai nella duplice lotta di resistenza contro l’aggressione imperialista e contro lo sfruttamento capitalistico di Pechino.

 

3) Tutto questo non significa, però, far blocco, come sostengono ad esempio Losurdo, la rivista l’ernesto e, al fondo, Samir Amin, con lo stato capitalistico cinese, visto da loro come argine all’aggressione imperialistica ai lavoratori della Cina e del mondo intero. Sia d’insegnamento, al riguardo, la tragedia serbo-kosovara! La difesa dall’offensiva imperialista attorno al nazionalismo serbista di Milosevic ha contribuito a frantumare la classe proletaria jugoslava e, in forza di ciò, lungi dallo sbarrarla, ha aperto la strada ai colpi della finanza occidentale e delle forze armate della Nato. D’accordo: la Cina non è la “ex”-Jugoslavia, né è scontato, anzi!, che l’imperialismo riesca a piegare Pechino come ha fatto con Belgrado. Tuttavia, la politica di difesa nazionalistica portata avanti da Pechino sul Tibet ha effetti distruttivi analoghi sull’elemento decisivo ai fini di una coerente risposta all’imperialismo: la ricomposizione dell’unità di classe proletaria, entro i confini della Cina e a scala internazionale. Tali effetti discendono inevitabilmente dalla prospettiva di fondo a cui si ispira questa terza posizione della sinistra d’Occidente sui fatti del Tibet: la prospettiva di un ordine capitalistico mondiale multipolare da realizzare sulla base dell’iniziativa degli stati e delle borghesie nazionali dell’Est e del Sud del mondo, la Cina in primissima fila, in alleanza con un’Europa finalmente autonoma dagli Usa.

È la stessa esperienza storica a indicarlo. Tale prospettiva non è, infatti, nuova. Nel XX secolo essa ha trovato la sua incarnazione nello stalinismo e nel blocco di stati che si costituì dopo la seconda guerra mondiale attorno all’Urss. E ha portato a una serie strettamente concatenata di “scelte” politiche micidiali: la consegna impartita durante la seconda guerra mondiale ai partiti comunisti in Iraq, Algeria e India di sospendere la lotta anti-coloniale e di collaborare con le forze armate delle potenze colonializzatrici; i tentativi di funzionalizzare le economie dei paesi di nuova indipendenza a quella dell’Urss (benché meno saccheggiatori di quelli imperialisti); il boicottaggio da parte di Mosca delle spinte più radicali agenti entro il movimento anti-coloniale, in Congo, in Vietnam, in Iraq o con Guevara in America Latina, soprattutto di quelle che cercarono di federare tra loro le ex-colonie per superare le divisioni tra popoli e tra stati scavate in Africa, in America Latina e in Asia dal colonialismo (sulla matrice di quelle lasciate dalle dominazioni di classe pre-capitalistiche).

Nei tentativi di coordinamento in chiave anti-imperialista tra i paesi del Sud del mondo che si ebbero negli anni cinquanta e settanta (dal movimento dei non-allineati, alla conferenza tri-continentale di l’Avana, alle conferenze panafricane), la Cina fu, inizialmente, lo stato che con maggiore energia cercò di promuovere un nuovo ordine multipolare e democratico del mercato mondiale senza i “traccheggiamenti” e le compromissioni dell’Urss con il capitale e la potenza statale statunitense. Ma in seguito, proseguendo in questo cammino, fu proprio la Cina di Mao a mettersi sulla strada della distensione con gli Stati Uniti. E, non a caso, questo avvenne “sul più bello”, quando in Cina la rivoluzione culturale vide il più deciso ingresso in campo della classe operaia con la Comune di Shanghai del 1967, quando in Vietnam la lotta di liberazione conobbe lo slancio seguito all’offensiva del Tet del gennaio 1968, quando nello stesso Occidente (grazie alla scossa prodotta sull’imperialismo statunitense dalla lotta dei vietcong e alle precedenti batoste ricevute dai colonialisti di Parigi e Bruxelles) gli sfruttati tornarono a risvegliarsi dallo stato di amorfa passivizzazione in cui erano caduti dopo il 1945, con la lotta proletaria e studentesca in Europa e il movimento afro-americano negli States: proprio allora la Cina tirò il freno, e si dispose al riavvicinamento con gli Stati Uniti. I quali, impantanati in difficoltà non da poco sul piano interno e internazionale, colsero al volo l’apertura cinese per lanciare la controffensiva contro il resto del movimento anti-imperialista (soprattutto in America Latina e in Medio Oriente), contro soprattutto la sua componente proletaria (per schiacciarla o deviarla lungo binari impotenti), contro una delle sue più riuscite mosse di ricontrattazione con il Nord (l’aumento del prezzo del petrolio, trainato dall’impulso svolto in seno all’Opec dall’Iraq baathista) e contro il movimento operaio occidentale.

Il riavvicinamento tra Pechino e Washington arrivò ad esprimersi nell’appoggio dato dalla Cina agli Stati Uniti nel golpe cileno contro Allende. Nel sostegno di Pechino alla dittatura anti-proletaria insediatasi in Pakistan (dittatura divenuta con la caduta dello scià il pilastro dell’ordine regionale occidentale). Nel contributo dato dalla Cina ad affossare (anziché sostenere) le spinte presenti in Indocina alla costituzione di una federazione antimperialista, e nel consolidamento, all’opposto, delle divisioni e degli odî del passato, che gli Stati Uniti e le potenze capitalistiche europee cercano oggi di sfruttare contro la Cina e il proletariato dell’Asia. È vero: nello stesso periodo la Cina approfittò di tale “ribaltone” per far decollare il suo sviluppo industriale: ma a quale prezzo per il resto dei paesi del Sud del mondo? Nello stesso periodo (anche grazie alla collaborazione con Pechino) l’imperialismo riuscì ad isolare, abbattere o risottomettere alcuni paesi chiave della rivoluzione antimperialista in America Latina, in Africa e in Asia o nei Balcani. E sulla base delle divisioni tra i popoli prodotte con questo rullo compressore nei Balcani, in Medioriente e in Asia centrale, sulla base della repressione delle organizzazioni che la classe operaia aveva generato in queste aree, sulla base dei ricatti connessi alla diffusione dell’espropriazione dei produttori diretti delle campagne, preparare oggi l’accerchiamento della Cina stessa e lo scacco matto al suo proletariato...

Non ricordiamo questi momenti così penosi per tanti sfruttati e militanti antimperialisti per disprezzare la loro battaglia di quegli anni. Esattamente per l’opposto motivo. Perché quelle giravolte delle tante “vie nazionali al socialismo” legate a Mosca o a Pechino non furono dettate dal caso, dal tradimento di qualche dirigente o dalla provvisoria debolezza economica e militare della Cina. Nascevano dalla base di fondo di quelle alleanze: il coordinamento tra stati del Sud del mondo, in alleanza più o meno stretta o in totale autonomia da Mosca, con l’obiettivo di sviluppare una moderna economia industriale in Asia, in Africa e in America Latina attraverso il conflittuale e democratico inserimento nel mercato capitalistico mondiale. Questa prospettiva non solo non ha niente a che vedere con il socialismo – un termine con cui ancora questi impenitenti stalinisti si riempiono la bocca -, ma non ha alcuna possibilità di realizzarsi entro le maglie delle relazioni economiche internazionali del capitalismo, se non provvisoriamente, in modo incompleto e al prezzo di azzoppare i propri alleati antimperialisti. Essa, ecco il punto cruciale, porta inoltre non all’unificazione delle lotte dei proletari, dei diseredati e dei contadini poveri dei vari paesi del Sud e dell’Est del mondo, ma alla loro innaturale contrapposizione lungo linee geografiche, religiose e statali.

Vero ieri, nella seconda metà del XX secolo. Tanto più vero oggi, anche se il potere di contrattazione del blocco tri-continentale in corso di tessitura attorno a Pechino è enormemente più grande e la crisi degli Stati Uniti, sul piano finanziario e sociale interno, enormemente più avanzata. Oggi il “terzomondismo” sembra avere più chance per la forza della Cina e per la maggiore industrializzazione raggiunta nel Sud del mondo. Ma questa maggiore forza sul piano capitalistico implica, allo stesso tempo, una maggiore blindatura delle borghesie nazionali contro un proletariato nel frattempo diventato più esteso, una più profonda preventiva opera divisoria da parte di esse sui lavoratori.

Ancora più perfido e devastante per il movimento proletario è l’altro aspetto della proposta dei Losurdo, Giannini, Amin, etc., ossia l’evocazione di una Europa finalmente autonoma dagli Usa poiché questa Europa può esistere solo in quanto Europa attivamente concorrente con gli Usa per il dominio sul mercato mondiale, come Europa che si propone a “guida” dei capitalismi ascendenti per avviarsi, sfruttando la loro energia e la loro massa d’urto, ad una nuova gigantesca contesa economico-militare nella quale riscattarsi dalle sconfitte subite nelle due guerre mondiali. Difficile dire se una tale Europa, bellamente camuffata come Europa “sociale”, Europa “dei popoli”, Europa “delle sinistre”, ossia un’Europa capitalistica con una politica social-nazionale (o… nazional-sociale, nazional-socialista) volta a coinvolgere in modo attivo i propri lavoratori nella contesa mondiale, potrà mai esistere. Sicuro però, che, ove potesse mai esistere, lungi dallo svolgere una funzione liberatrice, sarà, come lo furono le democrazie anti-fasciste e anti-naziste degli anni ’30 e ’40, un’Europa in tutto e per tutto colonialista e schiavista. Se i proletari cinesi e il popolo tibetano dovessero mai confidare in essa per la propria auto-determinazione di classe e di oppressi, sarebbero davvero spacciati.

 

4) Ciò a cui occorre sfuggire è l’alternativa tra il secessionismo borghese (e pre-borghese) tibetano filo-imperialista e l’unitarismo capitalistico di Pechino, l’alternativa tra gli Usa e l’Europa. Ciò è possibile se si mette a fuoco l’elemento decisivo per fermare l’una e l’altra lama della tenaglia: la costituzione di un’organizzazione di lotta unitaria del proletariato di tutta la Cina, dell’Asia e del mondo intero.

Siamo convinti che, data l’attuale struttura del capitalismo della Cina e planetario, tale processo richieda anche il riconoscimento al Tibet del diritto all’autodecisione nel senso stabilito dall’I.C. di Lenin, ma crediamo che esso non vada agitato in astratto, bensì legato al livello effettivo di maturazione soggettiva dell’antagonismo proletario, in Cina e a livello planetario. Cosa è in gioco oggi su questo terreno? La messa in moto delle gambe e del cervello per impostare una battaglia internazionalista, al di fuori della quale la rivendicazione dell’autodecisione è destinata a decadere in vuota contesa costituzionalista e, peggio, a essere strumentalizzata a proprio favore dalle centrali occidentali e dai borghesi tibetani per opporre i lavoratori del Tibet a quelli cinesi, a danno degli uni e degli altri, e accentuare le divisioni già esistenti tra le fila del proletariato internazionale.

Ciò che è in gioco nei prossimi anni è la formazione di associazioni, di sindacati, di un partito dei lavoratori della Cina sovra-nazionali e autonomi da quelli delle altre classi sociali. Premessa e conseguenza di questa battaglia è la lotta contro ogni discriminazione nazionale e territoriale, contro le limitazioni alla libertà di circolazione, contro la condizione di clandestinità in cui sono ridotti gli immigrati nelle città. Comprese quelle di cui sono vittime i contadini poveri e i proletari tibetani, anche sul piano linguistico, scolastico e, persino, religioso. Questo riconoscimento non ha niente a che fare con la mano che il potere di Pechino sta tendendo alla gerarchia religiosa buddista, tibetana e non tibetana, per cercare in essa (una volta staccata dal ruolo di quinta colonna imperialista) una stampella al proprio potere.

I lavoratori cinesi sono chiamati a non farsi coinvolgere dall’ondata dai tratti sciovinisti anti-tibetana e anti-uigura che sta salendo, in risposta all’aggressione occidentale, tra i settori studenteschi e borghesi cinesi. Sono chiamati a comprendere le ragioni dell’ostilità nutrita nei confronti del “loro” governo, e anche nei loro confronti, dai lavoratori tibetani e, forse, dai lavoratori musulmani delle regioni interne della Cina (e dell’intera Asia centrale), e a farsene carico in modo da sottrarli alle lusinghe delle rispettive borghesie e dell’imperialismo. Lotta proletaria contro le discriminazioni nazionali condotta innanzitutto in seno al proletariato, rifiuto dell’appello all’unità nazionale attorno allo stato cinese lanciato dai governanti di Pechino: la sconfitta della manovra imperialista sul Tibet, prima e dopo le Olimpiadi, passa per questa via.


 

[1] V. ad es. M. C. Goldstein, A History f Modern Tibet (1913-1951), University of California Press, 1991.

[2] Questa valutazione del buddismo lamaista non ci impedisce, ovviamente, di riconoscere  che il buddismo sia stato in un paio di occasioni un vettore di contestazione dell’esistente oppressione di classe. Una prima volta, negli ultimi secoli precedenti l’era cristiana, contro il sistema delle caste in India e la sua legittimazione ideologica induista. Una seconda volta, nel XX secolo, contro la dominazione imperialista in Asia. In questo secondo caso, però, tale ruolo è stato assunto da correnti buddiste diverse da quella lamaista, fiorite attraverso il fecondo incrocio con le elaborazioni culturali materialistiche e panteistiche presenti nella tradizione filosofica indiana e del Sud-Est asiatico. E comunque, pur se hanno concorso al grandioso movimento storico denominato risveglio dell’Asia, tali correnti non hanno saputo e non sanno offrire una prospettiva di coerente e autentica liberazione dall’imperialismo e dal capitalismo.

[3] J. Kenneth Kraus, Orphans of the Cold War. American e Tibetan Struggle for Survival”, Pubblic Affairs, New York, 1999

[4] Ne abbiamo parlato nel nostro dossier sulla Cina pubblicato sul n. 64, aprile-maggio 2005.

[5] V. L. Tamburrino, Il silenzio del Tibet. Conflitti e drammi tra Pechino e Lhasa, Editori Riuniti, Roma, 1999

[6] V. l’articolo pubblicato su Fortune Magazine il 17 febbraio 2007, l’articolo dell’agenzia ufficiale cinese Xinhua intitolato “Huge mineral resources found on Qinghai-Tibet plateau” del 13 febbraio 2007 e i comunicati pubblicati sul sito “Mac: Cines and Communities”.

 

[7] Oltre ai documenti citati nella nota n. 6, v. il documento “Tracking the Steel Dragon. How China’ economies policies and the railway are transforming Tibet” dell’ “International Campaign for Tibet”.

[8] V. il libro di L. Tamburrino già citato e il numero speciale di Limes del 2008 intitolato “Tibet. La Cina è fragile”.

[9] Non è, ad esempio, insignificante il numero di imprenditori autonomi tibetani presenti a Lhasa (v. il testo di L. Tamburrino). Nelle campagne il 15% della popolazione è costituita da contadini benestanti. 

 2.5.2008

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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