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Il movimento no global e no war dopo Rostock.

Questa non è una cronistoria, è piuttosto un bilancio della settimana di mobilitazione contro il vertice dei G8 a Rostock nel giugno di quest’anno, che conferma come il movimento no global e no war continui ad arretrare in tutta Europa. Se non ci sarà una totale inversione di tendenza, esso finirà per dissolversi completamente dando forza, con una sua non minuscola frazione, all’aperto sciovinismo pro-Europa grande potenza (imperialista).

Denuncia degli effetti, poco o nulla sulle cause, meno ancora sulle prospettive.

La settimana di mobilitazione di Rostock contro la riunione del G8 si proponeva anzitutto di superare la condizione di frammentazione del movimento, manifestando unitariamente ancora una volta per “un altro mondo possibile”. La piattaforma della manifestazione di sabato 2 giugno partiva dalla denuncia dei processi sociali devastanti in corso. L’indebitamento e l’impoverimento della quasi totalità dei paesi del Sud del mondo. Il fatto che milioni di lavoratori e di lavoratrici siano costretti ad emigrare dal Sud e dall’Est alla ricerca di migliori condizioni di vita qui in Occidente, dove vengono colpiti da legislazioni e da prassi razziste che li mettono brutalmente sotto ricatto. I continui e sempre più duri attacchi che i lavoratori dei paesi ricchi subiscono ai loro salari, ai loro orari e alle “garanzie sociali” da loro conquistate. Le discriminazioni e le violenze contro le donne. Le enormi devastazioni ambientali in atto. Le guerre a catena promosse dagli stati del G8. Ma alle denunce di questi processi non seguiva l’individuazione delle loro cause, che vanno ricercate nelle crescenti contraddizioni del sistema capitalistico. Questo perché i gruppi organizzatori hanno manifestato la convinzione di fondo che il problema sia solo una certa forma, una certa politica del capitalismo, quella “ultra-liberista”. Ed è prevalsa, di conseguenza, la prospettiva che intende apportare al capitalismo delle riforme che lo rendano un sistema “dal volto umano” o, almeno, un po’ meno “ingiusto”.

Nonostante siano stati denunciati gli effetti controproducenti della separazione delle lotte a livello internazionale, non è stato fatto alcun passo reale per superarne l’isolamento. E non a caso. La mondializzazione dal basso che viene auspicata come alternativa al “neoliberismo” ha infatti come suo “naturale” interlocutore l’Europa “sociale”, non liberista, in contrasto con la “patria dell’ultra-liberismo”, gli Stati Uniti, e trova la sua sponda nell’ONU per porre un argine (campa cavallo…) agli interventi militari “unilaterali” made in USA. Il messaggio, non solo implicito, ai lavoratori occidentali è chiaro: solo da un’Europa socialdemocratica potete aspettarvi qualcosa, ma senza radicalizzare e unire le vostre lotte a quelle dei lavoratori immigrati e alla resistenza dei popoli del Sud del mondo, e senza denunciare, in primo luogo, l’azione del vostro imperialismo.

Così, all’accusa del vertice dei G8 in quanto istituzione “senza legittimità” si è unita la ormai usuale rivendicazione di una globalizzazione democratica, “dal basso”, della “giustizia e della sicurezza sociale”.

Come questo obiettivo sia effettivamente realizzabile poco si è detto, come poco, troppo poco, si è fatto per coinvolgere i lavoratori, autoctoni ed immigrati, nella protesta e per dare una piena e incondizionata solidarietà a chi sta resistendo alla guerra, a partire dalle masse nel mondo arabo-islamico, dall’Afghanistan all’Iraq, dal Libano alla Palestina. E in effetti di quei popoli che, con la loro eroica resistenza, stanno ponendo una barriera all’ordine di sfruttamento e di rapina mondiale dell’imperialismo occidentale, non si è quasi mai parlato nel corso dell'intera manifestazione.

Il governo tedesco è riuscito a ghettizzare, influenzare e dividere il “movimento”.

Il governo tedesco, agendo negli interessi di tutti gli stati del G8, ha cercato, come da copione, di impedire l’allargamento della protesta, criminalizzando il movimento agli occhi dei lavoratori e della “gente comune” attraverso la criminalizzazione di una sua parte, e di far esplodere le divisioni tra la componente di esso che nutre maggior fiducia nelle istituzioni e quella più “radicale”. Il governo Merkel ha da un lato represso, in modo mirato, i settori più “radicali, e dall'altro aperto il dialogo con le parti più moderate del movimento, con disgustose celebrazioni di sé della cancelliera come paladina della salvaguardia del clima e dell’Africa. Quest’apertura ha trovato buon ascolto presso alcune organizzazioni: il sindacato unitario, il DGB, ad esempio, ha cercato esplicitamente il dialogo con gli Stati del G8 e gruppi come Attac hanno mostrato la propria disponibilità verso il governo federale: «noi di Attac non rivolgiamo alcuna richiesta direttamente ai G8. Se per noi c’è un interlocutore, allora è il governo federale»1.

Questa disponibilità al dialogo con il governo tedesco è stata, né poteva essere diverso, gravida di effetti negativi per il movimento. La manifestazione di sabato, al di là delle cifre dei partecipanti, che sono state comunque al di sotto delle aspettative degli organizzatori, ha visto infatti una scarsa partecipazione dei lavoratori, autoctoni, immigrati e dai paesi vicini. Il DGB non ha preso parte alle proteste ma solo al “vertice alternativo”, affermando che «chiedere ai nostri membri di partecipare alla protesta non è il nostro ruolo» (!). L’adesione al corteo da parte del sindacato metalmeccanico non ha comportato alcun impegno concreto per coinvolgere attivamente i lavoratori nella mobilitazione. Gli scontri durante la manifestazione hanno monopolizzato la discussione della settimana successiva. Se l’attacco frontale o le prese di distanze dai "contestatori violenti" operata dai vari Attac e Linkspartei è un’espressione della loro distanza da ogni forma di critica radicale del capitalismo e dei suoi massacri, va detto anche che nel complesso entrambe le componenti del movimento, quella più moderata e quella più radicale, si sono lasciate dettare i termini del “confronto” - quali tematiche e quali prospettive debbono essere preventivamente evitate e messe al bando – dai grandi del capitalismo mondiale.

Come uscire da questa situazione.

L' impostazione di fondo dei gruppi organizzatori non è rimasta comunque senza critiche. Nelle assemblee si sono sollevate contestazioni alla passività del sindacato e richieste – inascoltate- di indire fin d’ora lo sciopero generale. La risposta che ne è seguita è stata che “non ci sarebbe il clima adatto, possiamo solo portare avanti una campagna internazionale per un lavoro dignitoso”. Alcuni rappresentanti delle organizzazioni dell’Africa e dell’Est Europa hanno messo in discussione, più o meno coerentemente, l’idea dell’Europa sociale come prospettiva per i movimenti e denunciato l’isolamento in cui si trovano le lotte dei lavoratori dei loro paesi, richiamando la necessità di una vera solidarietà internazionale. Alcuni rappresentanti delle organizzazioni africane hanno denunciato il legame tra il neocolonialismo economico e militare occidentale e le emigrazioni di massa verso l’Europa, l’azione strangolatrice del debito e degli aiuti alimentari, il ruolo dell’ONU nel traffico di armi in Africa e le continue aggressioni all’Africa e al Medio Oriente da parte delle potenze occidentali. Hanno portato la testimonianza delle lotte dei contadini, dei lavoratori, dei giovani, delle donne del Sud del mondo contro le aggressioni economiche e militari dell’Occidente, a cui l’Europa sta prendendo parte in modo sempre più determinato.

Per superare veramente l’isolamento delle lotte a livello internazionale non è più possibile rinviare la domanda sulla direzione politica che i movimenti devono darsi. Le lotte contro il capitale globale e contro la guerra, la resistenza alle aggressioni imperialiste delle masse del Sud del mondo, gli scioperi e le lotte dei contadini e dei braccianti, le lotte contro l’intensificazione del lavoro e la precarietà, le battaglie contro i dissesti ecologici rimandano tutte alla necessità di un’organizzazione unitaria capace di esprimere una direzione all’altezza dello scontro in atto. Per la nascita di una tale organizzazione è necessario lavorare già oggi a partire da molto lontano, in vista della ricostituzione (non proprio vicina) del partito comunista internazionale. Sappiamo le (comprensibilissime e in parte perfino giustificate) riserve che questo nostro appello suscita, data l’esperienza catastrofica dei partiti riformisti e opportunisti che ci sta alle spalle. Ma è un fatto: la sola, fondamentale, spontaneità delle lotte non è sufficiente per unificare i fronti di lotta e di resistenza al capitale globale alla scala mondiale e per battere un nemico di classe ben organizzato e “sapiente” (specie nella metodica della divisione e della repressione). La deriva del movimento no war e no global, confermata anche dall'incontro di Rostock, ne è la prova più evidente. Mai come ora una vera alternativa di sistema sociale è possibile e necessaria, e per conquistarla servono la forza di un grande movimento proletario globale in cui confluiscano tutte le molteplici spinte anti-capitalistiche e di un nuovo partito comunista mondiale. Movimento e partito non sono in contrasto, anzi: si completano a vicenda, nella misura in cui l’auto-organizzazione dei lavoratori sia veramente tale, nata e costruita dalla massa, da e per coloro che vi partecipano, e nella misura in cui l’organizzazione che si dice comunista sia anch’essa veramente tale, “interna” al movimento degli sfruttati e degli oppressi e distinta da esso solo perché rappresenta nelle lotte particolari l’“interesse generale” della classe e nei conflitti del momento “l’avvenire del movimento” stesso.

E’ proprio ciò che è mancato in questi anni, in cui l’esaltazione della spontaneità si è unita all’implicita o esplicita delega alle sinistre parlamentari europee, portando il movimento in una caduta libera dalla parola d’ordine “un altro mondo è possibile”, a quella “un’altra Europa”, “un’altra Italia, Francia, …” sono possibili (possibili?) per via elettorale, fino a rinunciare anche solo a parlare di un’alternativa.

Arriva la “nuova sinistra”. Nuova? Sinistra?

“Il vertice dei G8 se ne va, la nuova Sinistra arriva”. Con questo motto la WASG e la Linkspartei hanno partecipato alla settimana di mobilitazione di Rostock, da loro interpretata come trampolino di lancio per la formazione del nuovo partito, Die Linke (“la sinistra”), parte della Sinistra Europea, fondato ufficialmente a Berlino la settimana successiva. “Arriva il momento di costruire in Parlamento una forte alternativa politica al neoliberismo, che lotti dentro e fuori il parlamento per la giustizia sociale e la pace”. Die Linke si presenta oggi come l’erede della socialdemocrazia, vuole agire in controtendenza rispetto alla politica neoliberista e di sostegno alla guerra dell’SPD, “spingendo” questa “a sinistra” e ponendo così le basi per la formazione di una comune coalizione di governo. Molti lavoratori, occupati, disoccupati e precari, ripongono in questo partito una certa aspettativa di cambiamento in meglio della situazione per sé. Ma sotto il suo manto “sociale” e “pacifista” con cui questa nuova formazione politica si copre, non c’è affatto una coerente politica capace di far risollevare la classe, quanto la lotta di tedeschi e da tedeschi per strappare terreno agli USA e conquistare per la Germania posizioni a livello internazionale, dando qualche riscontro ai lavoratori “nazionali” per ottenere il loro appoggio alla propria politica imperialista contro le masse del Sud del mondo e i lavoratori immigrati, e quindi contro se stessi.

Che queste affermazioni non siano idee balzane di qualche “estremista” in vena di spararle grosse, lo dimostra una lettura anche sommaria dei punti programmatici del “nuovo” partito. Al di là della retorica (quanto mai rituale) sulla necessità di “superare” il capitalismo, il punto di partenza della Linke è la necessità di rafforzare l’economia tedesca nel mercato mondiale: è questa la condizione per avviare una politica redistributiva all’interno dell’Europa e della Germania in particolare. Lafontaine, il leader del “nuovo” partito, una vecchia volpe della socialdemocrazia, spiega bene cosa significa tutto ciò nel suo libro “Politica per tutti”. Nel capitolo «Dove vuole andare la politica estera?», si chiede qual è il ruolo della Germania nel mondo: l’alternativa, egli afferma, è seguire gli Stati Uniti o incamminarsi sul sentiero tedesco. E la seconda è naturalmente la soluzione proposta: la Germania deve farsi paladina della filosofia dell’illuminismo, della pace e dell’uguaglianza nel mondo, promuovendo il rafforzamento e la democratizzazione delle istituzioni a ciò destinate… Quali sarebbero queste istituzioni? L’ONU, il Fondo monetario internazionale, la Banca Mondiale, il WTO! Naturalmente la Germania non può fare tutto da sola, ma deve contribuire al rafforzamento della UE, oggi impotente sulla tribuna mondiale: l’inizio di una reale unificazione degli “Stati Uniti d’Europa” avrebbe un enorme significato non solo culturale ma anche, naturalmente, economico-militare di contrasto all’egemonia statunitense. “Il futuro della Germania è l’Europa”: la cooperazione europea è necessaria per far valere gli interessi dell’Europa nel mondo. Sull’altare degli imperativi del mercato, passano in secondo piano, naturalmente, gli interessi dei lavoratori, come sta accadendo nel Land del Brandeburgo, dove la Linkspartei si sta facendo promotrice di “politiche neoliberiste”, tagliando posti di lavoro e riducendo i salari nel settore pubblico, tassando le scuole e gli asili nido, svendendo ai privati le proprietà immobiliari dello Stato. E neppure l’ideale illuminista della “pace perpetua” può essere una priorità: i vertici del partito si stanno già preparando a mettere a tacere le contrapposizioni interne e a dare il loro sostegno alle aggressioni militari targate ONU. La Linke si è già preparata a passar sopra alle future promesse elettorali, come dimostra il fatto che il punto proposto dalla WASG, secondo cui il partito dovrebbe uscire dal governo in caso di mancato rispetto degli accordi di coalizione, è stato preventivamente rifiutato. Il numero due della Linkspartei, Bisky, ha negato che vi sia un “rifiuto di fondo delle missioni all’estero dell’esercito tedesco”: “quando degli uomini vengono uccisi, come in Sudan, allora l’intervento dell’esercito federale sotto guida dell’ONU deve essere discusso”. Nel suo libro, Lafontaine ci spiega anche qual è il significato reale dei pochi passaggi sull’immigrazione all’interno dei punti programmatici: la domanda che si pone è “che identità culturale deve avere l’Europa alla fine di questo secolo”, e se riuscirà a mantenere, a differenza che gli Stati Uniti, una maggioranza bianca (p. 200). L’identità dell’Europa va difesa dal pericolo che diventi una parte del mondo arabo-islamico (!); per questo l’“estremo-sinistro” Lafontaine si pronuncia, proprio come il destro “laico” Sarkozy e il destro da retro-sacrestia Buttiglione, contro l’allargamento dell’Unione Europea alla Turchia e per la limitazione dei movimenti migratori. L’accresciuta immigrazione in Europa che ne deriverebbe sarebbe infatti un fattore di destabilizzazione sociale.

Tornano i temi e i gruppi nazional-socialisti.

I neonazisti dell’“Opposizione Nazionale” non sono rimasti fermi ed assenti nei confronti del G-8. Avevano richiesto l’autorizzazione per una manifestazione in Schwerin sabato 2 giugno, che doveva avere la parola d’ordine: “non c’è alcuna globalizzazione legittima”. La manifestazione è stata però proibita per questioni di “sicurezza”. Il fronte di opposizione nazionale ha quindi organizzato una dozzina di manifestazioni spontanee con centinaia di dimostranti in tutta la Germania, che hanno sorpreso la polizia. I punti centrali denunciati dall’NPD sono proprio la competizione internazionale, la mancanza di controllo statale sui gruppi multinazionali, gli attacchi alle condizioni della classe lavoratrice “nazionale”: salari da fame, attacchi allo stato sociale e abbassamento del tenore di vita. La soluzione alla globalizzazione è il mantenimento del sistema nazionale, anzi il ritorno ad esso, «Gib8 – sozial statt global», una soluzione in ogni senso reazionaria, ma che la NPD ed i gruppi similari, tutt’altro che immemori della tradizione del “socialismo nazionale” (del nazional-socialismo), stanno iniziando a condire con accattivanti richiami alla “giustizia sociale” e alla “solidarietà nazionale”. Occhio a non prenderli sottogamba!

1G8 MAGAZIN, intervista con Pedram Shayar, Attac-Deutschland.

    ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


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