Giù le mani dall’Iraq!

Via le truppe occidentali dall’Iraq e dall’Oriente!

 

L’aggressione ai popoli del Medioriente

è appena cominciata...

Continuiamo, rafforziamo e allarghiamo

la lotta contro la “guerra infinita”

delle potenze del capitale! 

L’armata anglo-americana ha preso possesso di Baghdad. I bombardamenti sono (quasi) sospesi.  La guerra però non è finita. È appena cominciata. Nessuna smobilitazione dell’iniziativa contro la guerra, quindi. Anzi, un impegno più deciso e organizzato per andare avanti, per superare i limiti che non hanno permesso di fermare a tempo il massacro, per mettere in piedi un movimento contro la guerra all’altezza della sanguinaria macchina capitalistica di oppressione e di dominio capeggiata dagli Usa. 

Pace? Quale pace? Liberazione? Quale liberazione?

È vero che non ci sarà più l’embargo, questa guerra silenziosa che Chirac e Schroeder volevano intensificare come “alternativa” per ottenere lo stesso scopo che i macellai anglo-americani hanno raggiunto con i bombardamenti. Non verranno meno, però, gli stenti che segnano da anni la vita degli iracheni: non solo ad essi non arriverà alcun piano Marshall, come è già successo a coloro a cui, da ultimo, un simile “regalo” era stato promesso, e cioè i popoli appena “liberati” nei Balcani; ma gli iracheni saranno espropriati, più di quanto non sia successo finora, anche dei frutti della vendita del petrolio, ora che l’oro nero del paese riprenderà a fluire abbondante nelle arterie del capitalismo internazionale.

Quanto all’apertura di spazi per l’organizzazione sindacale e politica dei lavoratori iracheni, basta dare un’occhiata, per prevedere cosa offrirà l’ex-generale Garner, a quello che accade laddove l’amministrazione occidentale di “paesi terzi” ha già fatto qualche prova, nei Balcani, in Afghanistan... o al modello cui gli anglo-americani intendono ispirarsi, e cioè al Giappone di MacArthur. Libertà... sì, libertà per i “liberatori” di manovrare aiuti umanitari e contratti di lavoro per disgregare ancor più in profondità il tessuto sociale del paese, per contrapporre tra loro le componenti “etniche” e “religiose” che compongono il mosaico iracheno.  E stabilire la propria dittatura schiavistica, più salda di quella imposta negli anni Venti e spazzata via dalla rivoluzione anti-coloniale del 1958. Non sfugge a questa regola neanche la sorte dei curdi iracheni, i quali (a parte un pugno di “fortunati” servitori degli occupanti) sperimenteranno in modo bruciante (come è accaduto agli albanesi del Kossovo) che il loro riscatto può realizzarsi solo insieme a quello degli altri popoli della regione e sulla base della sconfitta, non della vittoria, delle potenze occidentali. Già a due giorni dall’occupazione di Baghdad si vede uno dei prezzi che saranno chiamati a pagare: farsi usare dai “vincitori” come spine nel fianco (e come mercenari) dei paesi confinanti e dei curdi residenti in Turchia per le aggressioni prossime venture.

L’occupazione neo-coloniale dell’Iraq, infatti, non servirà solo a continuare la guerra (sotto la veste della pace) ai popoli iracheni. Servirà anche per preparare le nuove guerre già in cantiere. La Siria e l’Iran sono stati avvertiti, anche a suon di bombardamenti “collaterali”, nelle scorse settimane. Mercoledì il sottosegretario agli esteri degli Usa, Bolton, lo ha ribadito: l’Iran, la Siria (e la Corea del Nord) faranno bene, ha detto, a trarre la lezione da ciò che è accaduto all’Iraq. Lo potranno fare, forse, i gruppi dirigenti borghesi dei tre paesi. Ma non le masse lavoratrici. Ne hanno dato una dimostrazione nelle scorse settimane, con le manifestazioni di gioia con cui hanno accompagnato la resistenza irachena all’aggressione occidentale, con la richiesta ai propri governanti di un sostegno reale (e non solo a parole) al popolo iracheno. Per convincerle a farsi scorticare, per schiacciare l’orgoglio panarabo che è tornato a far capolino, all’Occidente capitalista non basteranno più i ricatti economici o la semplice minaccia delle armi. Avrà bisogno di distruggere i circuiti economici “nazionali” e gli apparati statal-politici (borghesi) che ancora permangono nell’area. La guerra imperialista ai popoli mediorientali e dell’intero Oriente è appena cominciata...

 

Non potremo opporci a questo ciclo infernale guerra-“pace”-guerra chiedendo che l’Europa abbia un ruolo nella ricostruzione dell’Iraq e nel futuro delle relazioni internazionali. Quale Europa, quella di Chirac e di Schroeder? Ci siamo dimenticati che i due beniamini della “pace” divergevano dagli Stati Uniti solo sui mezzi con cui portare la “democrazia” in Iraq? Non vediamo che il loro contenzioso con l’altra sponda dell’Atlantico è su chi arrafferà i contratti per la ricostruzione e su come dovrà spartirsi l’intero bottino mediorientale (e asiatico)?

La guerra infinita non nasce dalla pazzia di una banda di petrolieri installata a Washington, nasce dalla razionalissima esigenza del capitalismo mondiale di puntellare un ordine che scricchiola ed è crescentemente delegittimato dappertutto, anche nelle metropoli. I governi e le imprese europee stanno anch’esse nella cabina di comando di questa universale macchina di spoliazione ed oppressione. E anch’esse dovranno assumersene le responsabilità conseguenti, come d’altronde hanno cominciato a fare con la prima guerra del Golfo e con la guerra nei Balcani.

Per fermare la politica di Bush, abbiamo bisogno di lottare anche contro la sua variante europeista, benché al momento vestita di pacifismo in quanto non ancora pronta alla guerra. Di denunciarla agli occhi degli sfruttati di colore per quello che è. 

 

La potenza realmente in grado di fronteggiare in Medioriente le potenze capitalistiche occidentali è costituita dalla lotta di resistenza delle masse sfruttate della regione. Pur tra mille difficoltà, essa è già in campo. L’abbiamo vista ribollire nelle scorse settimane. Negli ultimi giorni, stampa e tv si stanno accanendo per svilirla. In particolare, per presentarci gli iracheni come accattoni che saccheggiano depositi e palazzi o che allungano la mano, festanti, ai “liberatori”. Stampa e tv, però non possono cancellare l’immagine filtrata nelle scorse settimane: quella di un popolo che, nonostante l’enorme sproporzione di mezzi, ha provato a resistere (e continuerà a farlo!) eroicamente, per come ha potuto, alle armate occidentali. La sua resistenza è stata in grado di condizionare i piani di guerra del Pentagono, di insinuarsi nel morale dei marines e della gioventù anglo-americana. Non è riuscita (per ora) a bloccare l’invasione perché è rimasta isolata internazionalmente, soprattutto perché qui in Europa c’è stato il timore, nello stesso movimento per la pace, di sostenerla apertamente senza se e senza ma, di augurarsi la disfatta delle “nostre” forze armate sotto i colpi di quella resistenza. Che per noi non è una minaccia, come vorrebbero farci credere giornali e tv. È una risorsa. È, ripetiamo, l’unica forza in grado di opporsi là alla guerra e alla “pace senza giustizia” portatevi dall’Occidente. Come pensiamo, sennò, che gli oppressi mediorientali possano fermarne le mani rapaci? Con il richiamo al diritto internazionale? Con l’appello all’Onu? Con la delega a governi locali che, dal Cairo ad Islamabad, sono infeudati all’Occidente? L’unica ragione che sentono gli Usa e la Cee è quella della forza: eccola, la lezione che gli Usa hanno sbattuto in faccia a miliardi di persone. Comunque gli sfruttati mediorientali la esercitino, la loro forza di resistenza, a noi proletari e giovani d’Occidente spetta di sostenerla. Spetta di sostenerla perché essa, inoltre, si mette di traverso ad un’aggressione che è rivolta anche contro di noi. Che serve per stringere le catene della precarietà e del controllo sociale attorno ai nostri polsi, per bloccare sul nascere la ripresa di lotta dei lavoratori in atto in Italia e nel resto dell’Occidente, per contrapporla a quella che fermenta in Medioriente e nel Sud del mondo. Potremo difenderci da questo risvolto interno della “guerra infinita” solo lottando insieme ai nostri fratelli di colore, organizzando un fronte comune di battaglia.

Certo, sulla resistenza degli sfruttati in Iraq e nel Medioriente ha pesato e pesa negativamente anche la politica inconseguente e impotente delle “loro” direzioni nazionali borghesi. Non è sotto la guida di queste direzioni che essa potrà avanzare. Gli sfruttati e gli oppressi mediorientali hanno bisogno di prendere la battaglia contro l’imperialismo completamente nelle loro mani, di recuperare la piena fiducia nella potenza strepitosa della propria lotta rivoluzionaria. Ma questa “loro” insufficienza non è diversa dal limite che pesa su di noi, sullo sviluppo della nostra mobilitazione qui in Occidente, ancora impigliata nella speranza della rigenerazione di una sinistra sottomessa alle ragioni del capitalismo e nella possibilità di ribaltare la piega che hanno preso gli avvenimenti con un semplice ribaltone elettorale. Potremo superare questo comune limite, noi sfruttati delle metropoli e le masse lavoratrici del Medioriente, solo insieme. Ritrovando, noi e loro, il programma, la politica e l’organizzazione per una battaglia comune, per la loro e la nostra, la comune liberazione dalla dittatura (questa sì, vera!) del capitalismo globalizzato.

 

Altro che ritorno a casa, quindi! L’occupazione di Baghdad ci chiama al contrario a continuare e a rafforzare la mobilitazione. Denunciando la vera sostanza della “liberazione” esportata in Iraq con il contributo anche dello stato italiano. Battendoci per il ritiro delle truppe d’occupazione occidentali dall’Iraq e da tutto il Medioriente, e togliere così la cappa di piombo che sbarra la strada allo sviluppo e all’unificazione delle lotte dei nostri fratelli di classe mediorientali. Organizzando la difesa militante della Baghdad in casa nostra, ossia dei lavoratori immigrati, contro i quali il nostro governo nei giorni scorsi, non a caso, ha indurito i provvedimenti della Bossi-Fini e scatenato le forze dell’ordine a Torino non appena, per la prima volta, duemila immigrati avevano partecipato organizzati a una manifestazione contro la guerra. Costituendo comitati permanenti contro la guerra e il razzismo che si rivolgano ai lavoratori italiani e mostrino i risvolti interni della guerra infinita di Bush-Blair-Berlusconi. Impegnandoci per la tessitura di legami organizzativi militanti con gli organismi sindacali e “no-war” attivi negli Usa e nel resto dell’Occidente. Dandoci l’obiettivo di scompaginare da cima a fondo il fronte interno e di dichiarare che il nemico principale è in casa nostra, sono i nostri padroni, è il nostro governo, da cacciare sull’onda della mobilitazione di piazza.

 

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA