Testo di volantino distribuito dall'OCI  al Social Forum Europeo di Firenze  

Vicenza 15 maggio sciopero dei lavoratori immigrati


Un altro mondo è possibile… senza il capitalismo.


Sappiamo tutti, noi che siamo presenti qui a Firenze per manifestare contro la globalizzazione capitalistica, quanti e quali effetti devastanti essa stia avendo sugli esseri umani e sulla natura.

Diamo questo per scontato, e ragioniamo un po’ su come opporci ad essa, a partire dai due "temi" che sono al centro di queste giornate: la guerra all’Iraq e i "diritti sociali" in Europa.


Come spezzare la spirale della "guerra infinita"?

In questa iniziativa siamo tutti contro una nuova aggressione all’Iraq, e contro l’asse Bush-Blair-Berlusconi. Cosa buona, ma non sufficiente, perché il popolo iracheno è già oggi, e da più di 10 anni, "bombardato" da un "pacifico" embargo voluto dall’Onu che si è rivelato "una vera e propria arma di distruzione di massa" (la definizione, perfetta, è degli attivisti di Answer). E dunque, come alcuni "uomini di buona volontà" quali Benjamin, Strada, Clark almeno in parte riconoscono, non basta essere contro la nuova guerra, bisogna denunciare anche la "pace" in atto, voluta e mantenuta in piedi anche dall’Europa, che fa altrettanto, e più, schifo, che è altrettanto, e più, criminale della guerra che l’ha generata.

C’è un solo modo per fermare la politica "estera" ed "interna" del governo Berlusconi:
mandarlo a casa con gli scioperi ad oltranza e le lotte di piazza!

Lottare contro la "guerra infinita" e lavorare per lo sviluppo di un movimento di lotta contro di essa e la globalizzazione capitalistica vuol dire, per gli sfruttati e i giovani che vivono in Italia fare i conti con la mano con cui il capitalismo internazionale attua le sue politiche qui in Italia: il governo Berlusconi-Bossi-Fini. Verso il quale, dopo lo sciopero del 18 ottobre non va ripetuto l’errore compiuto nel 1994, quando, dopo la grande manifestazione di novembre, abbiamo moderato la lotta anziché intensificarla, affidando, con i risultati che si sono visti, la difesa degli interessi dei lavoratori alle elezioni e alla politica concertativa di Prodi-D’Alema-Bertinotti prima, di D’Alema poi.

C’è un solo modo per mettere un alt alla politica portata avanti dal governo italiano, sia sul piano internazione che su quello interno: continuare, estendere la lotta, puntare a far convergere le mobilitazioni in corso dietro l’obiettivo di far cadere Berlusconi con gli scioperi ad oltranza e con le lotte di piazza. E davanti a un nuovo eventuale esecutivo (magari d’unità nazionale...) farsi trovare questa volta organizzati a difendere con la lotta, in modo intransigente, gli interessi proletari. Organizzati, ad esempio, per presidiare l’art. 18 nell’unico modo possibile: battendoci sui luoghi di lavoro (non sui tavoli referendari) per estendere le tutele a chi oggi, giovani e immigrati innanzitutto, non ne usufruisce e per rispedire al mittente il pacchetto Maroni sul mercato del lavoro e la legge Bossi-Fini sugli immigrati.

Abbiamo la forza per farlo! Gettiamola sul piatto a partire dal prossimo sciopero dei metalmeccanici, e organizziamola non nei tanti partiti della sinistra sottomessi al capitale, ma collegandoci con i lavoratori degli altri paesi europei e con le masse oppresse del Sud del mondo. Leghiamo la lotta contro la politica "interna" del governo Berlusconi a quella contro la sua politica "estera". Battiamoci contro le nuove guerre in preparazione, contro la "pace" che le incuba e per il ritiro dei contingenti militari d’occupazione italiani sparsi nei Balcani, in Afghanistan e nel resto del mondo, cani da guardia contro la ribellione delle masse lavoratrici dei continenti di colore.

Quanto poi alla nuova guerra, sentiamo dire da più parti: "l’Italia resti fuori dalla guerra". E con ciò spesso si intende: teniamo fuori dalla guerra il nostro paese, perché (ha scritto, per esempio, Liberazione) "il vostro petrolio non vale le nostre vite". Ovvero: siamo contro questa guerra perché non ne vogliamo pagare di persona il prezzo (salvo a non voler neppure pagare il petrolio a prezzi meno stracciati di quelli attuali…, o ci sbagliamo?). Sennonché nessun disimpegno del genere è possibile. Perché la guerra ci sarà comunque, e la sua preparazione è, con tutta evidenza, già cominciata: il governo Berlusconi e una bella fetta dell’Ulivo non hanno forse deciso di spedire in Afghanistan 1.000 soldati in sostituzione di altrettanti militari statunitensi da impegnare in Iraq? Insomma non si può restare fuori dalla guerra perché la guerra all’Iraq, ci piaccia o meno, c’è già, ed in essa, in un modo o nell’altro, è coinvolto tutto l’Occidente, non solo gli Stati Uniti. Perché a tutto l’Occidente, non solo agli Stati Uniti serve una gran quantità di petrolio a costo zero, perché tutto l’Occidente ha bisogno di terrorizzare le popolazioni arabo-musulmane (e terzomondiali), perché a tutti i governi occidentali giova la guerra per cercare di frenare e deviare il risveglio delle lotte degli sfruttati.

Ma, ci chiediamo, si può essere davvero contro il binomio "pace"-guerra che martirizza il popolo iracheno senza schierarsi con esso, dalla sua parte? dalla sua parte non solo in quanto vittima, ma in quanto popolo che resiste, si batte e si prepara a rispondere (come può) a questa nuova guerra di rapina. O dovremmo invece chiedergli di alzare le mani davanti ai macellai del Pentagono, di Wall Street e della City? E se la nuova aggressione all’Iraq è parte integrante della "guerra infinita" che l’intero Occidente capitalista ha scatenato contro le masse di colore super-sfruttate che si rifiutano di piegarsi ai suoi ordini, allora il nostro sostegno incondizionato ad esse deve allargarsi dal popolo iracheno all’indomita Intifadah palestinese, alla resistenza degli afghani, dei colombiani, dei nepalesi, etc.

Nel movimento no global non mancano certo le spinte in questo senso. Non possiamo illuderci, però, che a sbarrare il cammino a questa nuova aggressione possano servire appelli e petizioni a poteri presuntamente "pacifisti", o possa bastare una sorta di referendum informale su chi è contrario alla guerra, e neppure una sola (o anche più) grandi manifestazioni. Quel che occorre è ingaggiare una lotta permanente e a fondo contro il nostro nemico n. 1, sia esso dichiaratamente bellicista o pseudo-pacifista, che è qui, in casa "nostra" ed è il "nostro" governo, il "nostro" capitalismo assetato di profitti, è il Fmi, è l’Europa di Bruxelles (e di un certo qual Prodi…). Quel che occorre è dare piena solidarietà (al momento, invece, assai scarsa) ai lavoratori immigrati, avamposto qui dei popoli di colore, su cui si abbattono quotidianamente una velenosa guerra di propaganda e una quantità di misure discriminatorie e razziste, collegarci con tutti i movimenti che con più coerenza (pensiamo agli Stati Uniti e all’Inghilterra) si oppongono alla guerra, per formare insieme alle grandi masse del Terzo e del Quarto Mondo un solo ed unico fronte comune contro l’imperialismo.

Come spezzare la infinita corsa al ribasso delle condizioni dei lavoratori?

Questa mobilitazione contro la "guerra infinita" agli sfruttati del "Sud" del mondo non è altra cosa dalla mobilitazione, che qui a Firenze si intende rilanciare, per migliorare le condizioni di lavoro e di vita del proletariato del "Nord" del mondo. La guerra "esterna", infatti, è tutt’uno con la guerra interna che le forze capitalistiche stanno conducendo qui contro i salari, i "diritti" e l’organizzazione stessa dei lavoratori.

È certamente positivo che questi "due" temi vengano in più settori del movimento accostati e collegati. Ma bisogna dirsi con chiarezza che una lotta contro il neo-liberismo, se non vuole ridursi alla misera richiesta di un liberismo un po’ più diluito (alla Blair o alla Rutelli-Fassino), se vuol essere una lotta coerente non solo contro gli effetti ma anche contro i principi neo-liberisti, che sono poi i criteri di fondo di tutte le politiche "sociali" del capitalismo, deve mettere in discussione la prospettiva politica che ha subordinato finora i lavoratori agli interessi delle aziende e dell’economia nazionale.

Dagli Stati Uniti

Dieci ragioni per cui le donne dovrebbero opporsi alla "guerra contro il terrorismo"
  1. Le "guerre intelligenti" salvano le vite dei militari statunitensi, mentre i civili, che in larga parte sono donne e bambini, diventano "danni collaterali".
  2. Le guerre e il militarismo fanno diventare le donne e le ragazze oggetto di stupri e di violenza sessuale; la cultura dell’aggressione incoraggia le violenze domestiche contro le donne.
  3. Le armi di distruzioni di massa, prodotte e usate dagli Stati Uniti, avvelenano la terra e il mare, provocando aborti, malformazioni congenite e cancro.
  4. La "guerra contro il terrorismo" dà ad altri governi il pretesto per colpire gli oppositori politici, con conseguenze disastrose per le donne nelle zone di guerra.
  5. La "guerra contro il terrorismo" è la maschera dietro cui si nasconde il dominio globale degli Stati Uniti, che impoverisce le donne di tutto il mondo.
  6. Quando gli immigrati arabi e musulmani vengono incarcerati senza alcuna ragione e senza imputazioni, a soffrirne sono le donne, i bambini e le loro comunità.
  7. I diritti delle donne non possono fare dei passi in avanti mentre i diritti umani e le libertà civili vengono calpestati.
  8. Le industrie belliche degli Stati Uniti arraffano enormi profitti, mentre le politiche a favore della salute e dell’istruzione delle donne e delle ragazze, o della cura dei bambini, subiscono tagli di bilancio.
  9. La guerra di Bush rafforza il razzismo globale, producendo effetti negativi sulle donne di colore in tutto il mondo.
  10. Il Pentagono non può liberare né le donne afghane, né le donne di alcun altro luogo del mondo.

The Women of color Resource Center Berkeley -California (www.coloredgirls.org)

Prendiamo il caso Fiat. Negli scorsi decenni la Fiat ha usato le disuguaglianze di sviluppo tra Nord e Sud Italia, tra Italia e America Latina, tra Italia e Polonia, per organizzare una sistematica concorrenza al ribasso tra i vari stabilimenti, la quale ha progressivamente affondato salari e livelli di occupazione, mentre il padrone inaspriva i ritmi di lavoro, la precarietà dei rapporti di lavoro e il controllo sugli operai. La sola via di uscita da questa spirale distruttiva per i lavoratori non sta in "piani industriali" che accrescano la competitività della Fiat rispetto alle imprese concorrenti, sta, al contrario, nel respingere la concorrenza tra proletari, nel rifiutare i vincoli soffocanti delle compatibilità aziendali e nazionali, e nel mettere al loro posto, come un "vincolo" non trattabile, le "compatibilità operaie", battendosi per imporre ai padroni la parificazione verso l’alto dei salari e dei diritti dei lavoratori.

Allo stesso modo, potremo fermare ed invertire la infinita corsa alla precarizzazione e all’isolamento delle nuove leve del lavoro -ch’è amara esperienza quotidiana di milioni di giovani in ogni settore dell’economia- solo respingendo una logica capitalistica secondo cui maggior "flessibilità" è uguale a maggior occupazione, e maggior occupazione è uguale a maggior benessere per chi vive del proprio lavoro. Una logica che anche la "sinistra" politica e sindacale ha fatto sua, proprio mentre la realtà effettiva del "turbo-capitalismo" mostrava invece in modo inequivoco che maggior flessibilità è uguale a maggior precarietà, più intenso sfruttamento, minore forza contrattuale, inasprita concorrenza dei più precari nei confronti dei lavoratori più "stabili", ulteriore allargamento della precarizzazione, e così via fino alla assoluta necessità, messa in luce dal grande sciopero all’UPS e dalle prime lotte alla McDonald’s e nelle imprese della net economy, di mettere un deciso alt a questo degrado delle condizioni di lavoro e di esistenza di tanti giovani.

Anche su questo piano, come per la lotta contro la guerra, una reazione efficace richiede, da qualsiasi punto si parta, di puntare alla costruzione di un solo fronte internazionale di lotta. Diciamo internazionale, e non meramente europeo, perché respingiamo alla radice il "sogno", al fondo impossibile e poi pericolosissimo ai fini dell’unità internazionale dei lavoratori, di una Europa "sociale", "dei diritti", di una sorta di capitalismo europeo "dal volto umano", di un altro capitalismo "possibile" disponibile a recepire le istanze del mondo del lavoro, a braccetto del quale fare concorrenza agli Stati Uniti ed avere "equi rapporti di scambio" sul mercato mondiale, sul tipo di quelli che l’Europa "sociale" di un Delors, così cara a Cofferati, ha intrattenuto con i popoli jugoslavi, a suon di secessioni, guerre "etniche" impulsate, bombe intelligenti, petrolchimici fatti saltare per aria, 40.000 lavoratori Zastava (e quant’altri) gettati sul lastrico, dosi intensive di uranio impoverito sparso per le future generazioni e via dicendo.

Per spezzare l’infinita corsa al ribasso delle proprie condizioni e dei propri diritti, per la costruzione di un’organizzazione e di un fronte di lotta internazionale, i lavoratori italiani (e così quelli delle altre nazioni europee) sono chiamati a rompere con l’impostazione riformistica (un riformismo sempre più vuoto di concreti risultati riformatori) che pretende di conciliare i contrapposti poli del capitale e del proletariato. A sanare la frattura che il mercato cerca di riprodurre di continuo tra "vecchie" e nuove leve del lavoro, tra "stabili" e precari. A raccogliere con convinzione la domanda che proviene dai settori avanzati del movimento proletario est-europeo che ci chiedono, da Timisoara a Varsavia, dalla Macedonia alla Serbia alla Cechia, e dal Medio Oriente, dall’Asia, dall’America Latina, di sostenerli nel loro sforzo di nuova sindacalizzazione. A stabilire dei collegamenti sempre più stretti con i lavoratori di tutto il mondo per opporre unitariamente le aspettative e le necessità del proletariato al meccanismo stritolatore del mercato.

Mille le ragioni di lotta, ma una sola la battaglia!

Da ogni lato si ritorna sempre al punto-chiave. Gli effetti devastanti della globalizzazione capitalistica in corso, dalla fame alla demolizione dello "stato sociale", dall’inasprimento della oppressione della donna alla distruzione e al saccheggio della biodiversità, dalla catena di guerre neo-coloniali all’incessante metastasi delle patologie sociali più orrende sono i più diversi, ma la loro origine è unitaria: è nel mercato e nel capitalismo mondiale. E altrettanto unitaria alla scala mondiale deve essere la nostra risposta di lotta. È proprio questo, da Seattle in poi, il grande merito del movimento no global: aver messo a confronto spezzoni di varia umanità sofferente in lotta contro questo o quell’effetto del capitalismo, e avere, con ciò, posto sulle sue basi materiali il problema di chiarificare le coordinate politiche e organizzative necessarie per unificare i "mille movimenti" di opposizione in un movimento e in un progetto unitari. Il punto è: quale programma unitario di lotta, e per quale obiettivo?

C’è chi propone la Tobin Tax da attuare mano nella mano con le socialdemocrazie guerrafondaie e taglia-welfare. Chi un piano à la Delors per quell’Europa "sociale" di cui abbiamo visto un assaggio negli anni Novanta e che ha spianato la strada (nelle politiche e soprattutto nella disorganizzazione della forza collettiva dei lavoratori) alla "svolta" a destra in atto nelle politiche statali europee.

Noi comunisti internazionalisti guardiamo da tutt’altra parte. Siamo, sia ben chiaro!, con ogni singola lotta, per spingerla all’unità con le altre "singole" lotte; ma come ieri, nella disapprovazione generale, osavamo dire: "Non è possibile alcuna Onu dei popoli diversa, alternativa rispetto a quella ufficiale", così oggi osiamo dire: non è possibile alcun capitalismo "sociale", "veramente democratico", diverso e alternativo rispetto a quello esistente, che stiamo qui contestando. L’unico capitalismo possibile è questo! Lo ha ricordato da ultimo D’Alema a Cofferati: se si accetta il rispetto delle compatibilità capitalistiche, non c’è via di scampo nelle conseguenze da ingoiare quanto ai "diritti del lavoro", la cui erosione può, al più, esser limata a patto che si mantenga e incrudisca il saccheggio dell’Est e del Sud, e gli stessi proletari se ne facciano artefici.

Ciò che le mille lotte in corso contro gli effetti del capitalismo globale evocano è la necessità di battersi per un altro sistema sociale, fondato su basi antitetiche a quelle del mercato, del profitto e del salario. Come si può, infatti, dare soluzione anche ad uno solo dei "misfatti del capitalismo" denunciati dal movimento no-global senza che l’umanità lavoratrice, che ne è stata finora espropriata, riconquisti l’intero frutto dell’attività produttiva umana e lo impieghi secondo un piano mondiale per liberare tutti e ciascuno dai vincoli della "necessità"?

Questa riappropriazione collettiva, internazionale, della "ricchezza" sociale non potrà certo prescindere dalle differenze oggi esistenti, né prevaricare sui "caratteri propri" di qualsiasi "comunità", in quanto comunità che si ribella partendo da sé al dominio del capitalismo globalizzato. Si darà, invece, a partire proprio dalla valorizzazione e liberazione delle singole realtà storico-culturali. Per un’autentica liberazione e socializzazione umana, però, essa dovrà puntare a inventariare, controllare e dirigere nel loro insieme le forze del lavoro mondialmente socializzato (dal capitalismo stesso), e potrà farlo solo distruggendo l’attuale divisione sociale e internazionale del lavoro, e non attraverso un’impossibile trasformazione che la renda più "equa".

Nella lotta al capitalismo globalizzato può bastare il solo movimento?

L’esigenza di pervenire a un’unità d’indirizzo nel movimento no-global richiama un’altra esigenza: quella di costituire un’organizzazione in grado di dirigere e sostenere intorno a questo asse l’unificazione dei "mille movimenti" in una comune battaglia contro il capitalismo internazionale. Anche nei documenti preparatori del Social Forum Europeo si parla di questo, di un soggetto politico, di una rete che funga da centro di coordinamento europeo, ma si mette in guardia dalla trasformazione di un simile soggetto in partito politico. Anzi il SFE fa di più: chiude le porte in modo formale alla partecipazione dei "soggetti propriamente partitici", lasciando però ben aperte le finestre, perlomeno, a determinati soggetti partitici; come è successo a Porto Alegre, dove si sono esclusi dagli inviti ufficiali il "partito" delle Madres de Plaza de Mayo e quello di Fidel Castro, salvo poi ammettere fior di ministri, parlamentari, sindaci e sottopancia socialdemocratici, e dunque i loro stessi partiti, con le giustificazioni più speciose.

Per parte nostra, ben lontani da simile ipocrisia, diciamo ai manifestanti di Firenze: che lo vogliate o meno, tutto quello che state e stiamo facendo porta avanti un processo di "socializzazione" delle singole esperienze -quand’anche umanitarie-, delle singole lotte, creando tra esse, quanto meno, un rapporto federativo, di reciproca informazione, di coordinamento. Ma più la lotta si intensificherà e si estenderà, più risulterà chiaro che il problema che abbiamo di fronte, al fondo, è uno, pur nei differenti aspetti fenomenici; che il nemico è uno; che l’obiettivo finale è uno, per cui un movimento reale che cresce deve procedere nel senso della unificazione delle forze, e quest’unificazione può darsi solo intorno alla prospettiva comune del socialismo e a un’organizzazione di partito che la incarni, la faccia vivere nelle lotte presenti e la porti avanti sulla base della crescente auto-organizzazione delle masse lavoratrici.

Non è un sogno nostro. È quello che chiedono (ed a cui offrono la linfa vitale) la resistenza degli sfruttati in atto nel Sud del mondo contro la dominazione dell’Occidente e l’iniziale risveglio delle lotte dei lavoratori e della gioventù in corso nelle cittadelle occidentali. È ciò di cui questa ripresa parallela (e in parte intrecciata) delle lotte nel Sud e nel Nord, seppur ancora largamente disorganizzata, ha bisogno per superare le attuali divisioni e trasformare la nuova guerra all’Iraq e la nuova razione di sacrifici e repressione scaricata in Occidente in un boomerang contro i grandi poteri imperialisti.

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA