Testo di volantino distribuito dall'OCI prima e durante le nuove mobilitazioni di Genova


Tornare a Genova un anno dopo: 
per quale ragione? per fare cosa?


Non certo per commemorare una "ricorrenza", un episodio di un passato morto e sepolto. Quel "passato" è infatti tutt’altro che passato. Le ingiustizie contro cui si manifestò sono ancora lì, si sono anzi incrudite. Va sospinta in avanti, quindi, quella resistenza alla globalizzazione capitalistica che lo scorso anno, con Genova, è arrivata fin dentro la placida Europa, dopo aver riscaldato negli anni precedenti il Sud del Mondo e gli Stati Uniti.

Come sospingere in avanti questa resistenza? Come affrontare le difficoltà innegabili che le hanno, da allora, inceppato il cammino? Queste le domande che siamo chiamati ad affrontare tornando a Genova. E sulle quali diciamo la nostra in questo volantino. La nostra di militanti internazionalisti organizzati nell’OCI, che si considerano ed operano, da comunisti, come parte integrante di questo embrione di movimento anti-globalizzazione.


Dunque: come andare avanti? Qui non si può che partire da una presa d’atto. I governi occidentali e i centri della finanza non solo sono rimasti sordi alle richieste presentate a Genova da centinaia di migliaia di persone in rappresentanza dell’intera umanità lavoratrice. Vi hanno risposto con un incrudimento del loro attacco ai popoli del Sud del Mondo e ai proletari d’Occidente. Portato avanti non solo con la "mano invisibile" del mercato. Ma anche, quando il mondo degli sfruttati non ne ha gradito e ne gradisce le "carezze", con il pugno di ferro delle istituzioni politiche e delle forze armate degli Usa e dei loro alleati: la repressione di Genova, l’aggressione ai popoli dell’Afghanistan (e, da lì, ai lavoratori di tutta l’Asia), la blindatura interna delle democrazie occidentali (contro gli immigrati innanzitutto), la crescita vertiginosa delle spese militari della NATO, il tentato golpe anti-Chavez in Venezuela, il giro di vite di Israele contro l’Intifada palestinese… Non sappiamo proprio come possa il presidente della sezione francese di Attac, B. Cassen, affermare su Le Monde Diplomatique che il presidente Bush "dopo l’11 settembre" abbia fatto "dei passi in avanti in direzione delle proposte di Attac" [!!]

Il movimento no global non è stato in grado di far fronte a questo incrudimento dell’attacco turbo-capitalistico. Per la forza politica e militare che ha sorretto quest’ultimo. Ma anche perché la massa dei manifestanti giunta a Genova era animata da una micidiale illusione. "È sufficiente, si pensava, presentare con la nostra presenza di massa ai potenti della Terra l’elenco delle cose che non vanno nel mondo ed essi correggeranno la rotta, verso una globalizzazione capitalistica dal volto umano."

Non è stato e non è così. Cosa ne discende?

Che per resistere al rullo compressore (economico, politico e militare) del turbo-capitalismo non basta limitarsi all’organizzazione dei "contro-vertici": occorre la messa in campo e l’organizzazione dell’unico mezzo in grado, da sempre, di "condizionare" il capitale e le sue istituzioni politiche: la lotta. Una lotta vera, organizzata capillarmente attorno agli scioperi del mondo del lavoro, al blocco della produzione capitalistica, all’imposizione con la mobilitazione di piazza delle proprie ragioni alle istituzioni statali vigenti, all’attivizzazione quotidiana della massa degli sfruttati contro le politiche capitalistiche.

Come hanno cominciato a fare il movimento dei Sem Terra in Brasile, l’intera massa proletaria in Argentina. Oppure, in un altro scacchiere, il popolo palestinese in lotta, nell’isolamento internazionale, contro la macchina da guerra dello stato sionista e quella dell’imperialismo occidentale che la sorregge. O come sta accadendo in Afghanistan, dove (ad onta dei silenzi dell’informazione ufficiale) le truppe di occupazione neo-coloniali cominciano a conoscere la resistenza armata delle formazioni islamiche. O come sta accadendo, più timidamente, nella stessa Italia, con la ripresa degli scioperi, dei lavoratori italiani e dei lavoratori immigrati, contro la politica del governo Berlusconi.

Occorre quindi passare, soprattutto qui nelle metropoli occidentali, allo sviluppo di una vera lotta.

E, nello stesso tempo, a una più stretta tessitura internazionale di essa, imposta dalla dimensione internazionale del nemico, il capitalismo globalizzato. Non è un caso che già oggi singole iniziative di lotta cerchino di muoversi in questa direzione. Il grido "Contadini di tutto il mondo, unitevi!" lanciato dai Sem Terra e i primi tentativi di coordinamento con i lavoratori agricoli dell’India e dell’Africa Australe nascono dalla percezione che le richieste della riforma agraria e del riconoscimento dei diritti sindacali e politici si scontrano non solo con governi e classi sfruttatrici locali, ma con un sistema agro-alimentare internazionale che ha il suo centro nelle borse e nelle imprese occidentali. L’embrionale ripresa delle iniziative in difesa della condizione delle donne si è sin dall’inizio concepita come Marcia Mondiale… La presenza di una rappresentante dei piqueteros argentini in Italia nelle scorse settimane esprime l’urgenza di superare un isolamento che va a vantaggio solo dei vari padroni del governo di Buenos Aires, e cioè il Fmi, gli USA e la UE. Anche qui in Europa (pur se si stenta a proiettarsi oltre i confini della CEE) le iniziative di difesa dei proletari in più di un’occasione hanno cercato di oltrepassare i confini nazionali e locali e di stabilire dei contatti reciproci: con il tentativo di costituire un coordinamento europeo dei "sans papiers", con l’intrecciarsi e il guardarsi reciproco degli scioperi generali degli ultimi due mesi in Italia, in Spagna e in Grecia.

Gli attivisti del movimento "no-global" sono chiamati a sostenere questi primi passi e a favorirne il progresso verso la costituzione di un fronte internazionale di resistenza degli sfruttati e degli oppressi. Va invece nella direzione opposta, è addirittura la negazione di questa esigenza la proposta che viene presentata da alcuni esponenti dei "no-global": quella del municipalismo. È scritto ad esempio nel documento di maggio-giugno 2002 del "Movimento delle e dei disobbedienti": le "sperimentazioni" effettuate in alcune città (tra cui Genova) nelle recenti elezioni amministrative "confermano per noi la centralità del tema del municipalismo, delle articolazioni che esso porta con sé, come gli elementi di partecipazione e democrazia diretta. (…) È chiaro che una rete di amministratori, consiglieri di comuni grandi e piccoli che hanno come priorità lo sviluppo di percorsi di rottura in senso municipale, oggi esiste. Ne rivendichiamo tutta la positività e la potenzialità."

La promesse sono altisonanti, ma ragioniamo sui fatti.

Primo

Ammettiamo che, a Padova o a Roma o a Palermo, si riesca a gestire per "fini sociali" una fetta del bilancio comunale. Ma che senso ha tutto ciò quando la torta complessiva del budget comunale è fissata, al ribasso, dalle grande istituzioni finanziarie internazionali? A cosa si ridurrebbe la partecipazione alla gestione del bilancio? Alla gestione "sociale" dei sacrifici! Alla concorrenza con le altre città per tirare dalla propria parte una coperta sempre più corta? Se ci si vuol difendere davvero dalla globalizzazione capitalistica, il problema da affrontare è essenzialmente un altro: come si influisce sui "budget" complessivi? Il che rimanda a un problema non locale, ma internazionale: come ci si oppone alla riduzione della quota della ricchezza mondiale riservata al lavoro salariato? Su questo piano si entra in collisione con un sistema di potere borghese internazionale. Contro di esso, cosa può il "voto critico" di qualche consigliere comunale in questa o quella città? Dice niente il fatto che il sistema dei mercati è in grado di piegare il bilancio di paesi come l’Argentina? E che quando non bastano le cannoniere della finanza, entrano in scena quelle volanti della Nato e dell’Onu, o i piani golpisti come accaduto in Venezuela? È di qualche settimana fa la notizia dell’allarme scattato a Wall Street per i risultati dei sondaggi compiuti in Brasile in relazione alle prossime elezioni autunnali: poiché hanno dato vincente Lula… i mercati hanno attivato una serie di manovre per affondare la moneta brasiliana, per ritirare i capitali dal Brasile, per ricattare il futuro presidente e i lavoratori… Da questo potere extra-istituzionale ci si difende con un fronte di lotta extra-istituzionale e internazionale, un fronte la cui costruzione è ostacolata dal municipalismo!

C’è poi da considerare il fatto che la globalizzazione capitalistica non comporta solo la riduzione della cosiddetta "spesa sociale". Vuol dire anche, ad esempio, spirale internazionale al ribasso dei salari proletari. Cosa possono fare due consiglieri contro una simile piaga? A cosa serve una normativa che (sulla carta) impedisce il taglio dei salari a Vicenza, se poi non ci si preoccupa di quello che accade nel distretto di Timisoara, in Romania, dove gli industriali trovano una manodopera a prezzi stracciati verso cui delocalizzare? La rincorsa al ribasso la si può fermare se i lavoratori interrompono la concorrenza che il capitalismo suscita tra loro a scala mondiale e costruiscono un’organizzazione di lotta comune. Un qualcosa che si gioca al di fuori delle istituzioni e dell’orizzonte cittadino. E a cui il municipalismo concorre a sbarrare la strada. Il capitalismo globalizzato, infatti, non si limita a buttare giù i muri che rallentano la sua circolazione e la sua valorizzazione. Esso al contempo frantuma il mondo dei lavoratori, lo divide con nuovi muri (razziali, sessuali), ne differenzia le condizioni, così da dominarli e soprattutto da impedire la centralizzazione della risposta proletaria. Il comunalismo cristallizza queste divisioni, anziché, come è necessario, favorirne il superamento attraverso l’adozione di un indirizzo di lotta comune, attraverso l’accentramento delle forze proletarie contro un nemico che è super-accentrato.

Secondo

"Ma il bilancio partecipato, si dice, serve per favorire l’attivizzazione degli sfruttati, l’acquisizione da parte di questi ultimi della capacità di governo, il che sono condizioni dello sviluppo di un fronte internazionale di lotta. Voi comunisti internazionalisti saltate questo passaggio". Non lo saltiamo affatto. Anche per noi, c’è bisogno di un’organizzazione di lotta capillare, di un protagonismo di massa che vada oltre i "contro-vertici" e li faccia diventare ulteriori momenti di maturazione e organizzazione della lotta. (E non è che lo abbiamo scoperto dopo Genova!) Ma questo percorso può andare avanti localmente, se le energie, le passioni, le mobilitazioni che si mettono in moto in questa o quella città, si incontrano con ciò che accade nel resto del mondo, e insieme partecipano alla costruzione di uno schieramento che imponga a viva forza al capitalismo mondiale di venire a patti a livello internazionale e, di conseguenza, anche localmente. L’esperienza di lotta in Argentina si sta sviluppando proprio lungo questo binario: gli organismi di lotta di quartiere e di città hanno nei mesi scorsi cercato di coordinarsi, di costruire un fronte nazionale e, insieme, di uscire dai patrii confini.

I sostenitori del municipalismo prendono ad esempio l’esperienza del bilancio partecipativo di Porto Alegre. Ma anche questa esperienza parla contro le loro promesse: l’odierna reale partecipazione dei lavoratori alla partita che si gioca attorno all’amministrazione cittadina si sta confrontando con l’esigenza di superare i confini locali per non ritrovarsi in conflitto con i lavoratori di altre città. E si sta confrontando con l’esigenza di proiettarsi in un fronte di lotta internazionale visto le manovre dei grandi poteri capitalistici contro l’eventualità della vittoria del riformista Lula. Di nuovo, chiediamo: il municipalismo favorisce questo percorso? Oppure conduce nel vicolo cieco da cui dal Brasile si cerca di uscire?

Terzo

La proposta del municipalismo presenta inoltre un altro non meno grave handicap: veicola una prospettiva inaccettabile e irrealizzabile di come dovrebbe essere il mondo alternativo a quello rivoltante di oggi. Più o meno esplicitamente e più o meno consapevolmente, esso trasmette l’idea che al movimento espropriatore e disumano della globalizzazione capitalistica si possa riparare tornando a tirare su i muri che il capitale mondializzato ha buttato giù, facendosi "ognuno" la sua economia.

Ora, l’espropriazione compiuta dal grande capitale finanziario, con l’aiuto della forza militare e degli embarghi dell’ONU, produce un mare di sofferenze, è vero. Ma oramai il ciclo produttivo in campo industriale e agricolo è unificato a livello mondiale, è accentrato nelle mani di qualche centinaio di imprese. Non si può rispondere con un ritorno al passato, in cui ogni paese individualmente risponde per sé, mettendo a frutto le sue risorse. Per tale via chi ha già continuerebbe ad avere di più, chi non ha resterebbe con la propria povertà da gestire. La via è un’altra: non quella della redistribuzione della proprietà, ma quella della riappropriazione da parte della società dell’insieme della "proprietà" e l’uso di essa con un piano mondiale che risponda all’obiettivo di soddisfare e allargare i bisogni dell’umanità tutta. Un altro mondo sarà possibile se si riuscirà a distruggere il capitalismo, a conquistare alla massa politicamente attiva e partecipe degli sfruttati il controllo sull’intera produzione sociale, sottraendola all’appropriazione e al profitto di pochi per restituirla al benessere collettivo di tutti.

Trincerarsi nelle ridotte nazionali o cittadine non è in grado di fare neanche il solletico alla morsa accentratrice del turbo-capitalismo. È invece efficacicissimo nel mantenere divisi i proletari per paesi, per città, per razze e per sesso. Nel vincolarli alla rete borghese locale nella sua concorrenza col resto del mondo e quindi anche con gli sfruttati del resto del mondo. Nel riproporre un dialogo con quelle istituzioni capitalistiche che hanno già dimostrato a Genova (e dopo) che le esigenze dell’umanità lavoratrice sono in rotta di collisione con quelle del sistema capitalistico. Nel deviare, nel caso migliore, verso le lacrime dell’elemosina la solidarietà verso i fratelli di classe che la lotteria biologica assegna ai "luoghi" meno fortunati del casinò mondiale capitalistico. Oppure, nel caso peggiore ma non per questo meno improbabile, nel dare in pasto i lavoratori e gli oppressi a quella Bosnia universale che il capitalismo sta preparando e di cui ha allestito i laboratori sperimentali nei Balcani, nell’Asia centrale, in Palestina. Di quella stessa Bosnia universale che nelle metropoli imperialiste si sta preparando con la propaganda sciovinista rivolta ai proletari bianchi tesa a convincerli di poter ottenere qualche sconto nella perdita dei loro diritti, qui dove lo sviluppo capitalistico combinato e diseguale ha assegnato più risorse, se accetteranno di sostenere (come carne da cannone) lo schiacciamento della resistenza delle masse lavoratrici del Sud del Mondo contro il saccheggio imperialista.

Esageriamo? Riflettiamo allora su un altro dato di fatto: ci sbagliamo o la proposta del municipalismo non è così lontana da quel federalismo che (sia nella versione reaganiana che in quella diessina o in quella della destra populista europea) è una delle vie lungo le quali marcia l’attacco del capitale mondializzato contro gli sfruttati? La via alternativa che la realtà del capitalismo impone agli sfruttati è quella della fraternizzazione universale delle proprie lotte. Che non parte da zero. E che, per andare avanti, richiede che un nucleo di proletari e di attivisti no-global cominci a organizzarsi e a lavorare attorno al programma di una lotta di massa comune internazionale per distruggere il capitalismo e per imporre l’utilizzo sociale comune delle risorse sociali mondialmente a disposizione. Cominci a darsi da fare, in una parola, per la ricostituzione di un partito comunista internazionale in continuo scambio osmotico con lo sviluppo delle lotte contro la globalizzazione capitalistica.

Chi sono realmente gli eredi della "vecchia" illusione

Non si dica che con ciò riproponiamo il "vecchio", ciò di cui la storia ha mostrato il fallimento. O che con ciò espropriamo la massa dei lavoratori dalla conduzione della lotta, spianando la strada alla ricostituzione di asfissianti burocrazie centralistiche. Ciò di cui la storia ha mostrato il fallimento è il tentativo di offrire una vita da uomini all’interno di un’enorme "città" (la ex-Urss) attenta a gestire le proprie risorse su base mercantile e in relazione di semi-autarchia col mercato capitalistico mondiale. Ciò che è fallito è l’utopia del "socialismo in un solo paese", utopia che gli odierni municipalisti ripropongono in sedicesimo all’interno delle città! Ciò che è "vecchio" è il tentativo di trovare la via per un "altro mondo" senza arrivare ad espropriare, inventariare e usare secondo un piano mondiale le risorse tecniche e umane sviluppate e socializzate a livello mondiale dal sistema capitalistico.

In realtà è proprio questo tentativo che, per il fatto di essere in contrasto con gli interessi generali della classe lavoratrice, spinge inevitabilmente a deviare e a smorzare l’auto-attivizzazione delle masse, il loro protagonismo per sé e a riprodurre la divisione-contrapposizione tra direzione e base. È qui la radice della corruzione e del dimissionamento della partecipazione proletaria che ha corroso i partiti che si richiamavano (a parole) al comunismo. Ne vediamo una riprova anche nelle vicende odierne dei "no-global", con la riproposizione delle vecchie forme di leaderismo.

Con ciò non diciamo che è già oggi all’ordine del giorno la lotta per socialismo e la costituzione di una nuova Internazionale Comunista. Già oggi, però, le battaglie condotte contro il saccheggio imperialista, contro i tagli ai diritti dei lavoratori, contro l’oppressione della donna, contro la distruzione dell’ambiente naturale hanno la necessità e la possibilità di tessere dei legami, di stabilire uno scambio regolare di informazioni e di contatti, di promuovere un coordinamento delle proprie iniziative contro un nemico che, al fondo, è lo stesso per tutti i fronti, è il capitalismo internazionale. Imparando da questo stesso nemico, la lezione che nell’ultimo anno (anche attraverso la repressione messa in atto a Genova) ci ha trasmesso in continuazione: le sue istituzioni non sono riformabili, un dialogo con esse non è possibile né a scala internazionale né a quella locale. È il messaggio contenuto nell’accusa di terrorismo o di collusione col terrorismo lanciata dai governi occidentali contro chiunque si azzardi a difendere gli interessi degli sfruttati al di fuori delle attuali esigenze del meccanismo del profitto: persino contro riformisti come Cofferati, oppure contro esponenti della lotta palestinese che non pochi servigi hanno fatto all’imperialismo come Arafat. Ed è tutto dire!

I prossimi passi immediati lungo questa via ci sono dettati dallo stesso capitalismo, italiano e internazionale.

Da un lato la partecipazione e il sostegno al movimento di lotta contro la politica del governo Berlusconi. Anche qui non si parte da zero. Molti di coloro presenti a Genova hanno partecipato al 23 marzo e agli scioperi successivi. Nello stesso tempo, con tali iniziative, si è allargata la massa di proletari mobilitati su problemi che al fondo rimandano al tema della lotta alla globalizzazione capitalistica, di cui il trio Berlusconi-Bossi-Fini rappresenta la traduzione in italiano. Proprio in questa massa operaia, che è collocata nel cuore del processo produttivo capitalistico, il movimento "no-global" può trovare la spina dorsale della sua battaglia e la base per la costruzione della sua struttura internazionale, se gli operai saranno in grado di disincagliare la lotta dai ceppi che finora l’hanno impaludata su scelte che non hanno pagato: non ha pagato puntare nei mesi scorsi a un possibile confronto col governo, una volta avesse stralciato l’articolo 18; non ha pagato aver lasciato a se stessi i lavoratori immigrati e le loro lotte quando è chiaro che l’attacco rivolto ad essi è un colpo anche contro la classe lavoratrice bianca; non ha pagato aver rinunciato ad organizzare sul serio in una battaglia generale la nuova generazione che si è affacciata sulle piazze; non ha pagato aver contenuto la lotta entro le "regole" che lo stesso padronato straccia, mentre il minimo che ci vorrebbe è la forza di una lotta tipo pulitori delle ferrovie allargata all’insieme dei lavoratori. Queste scelte non nascono a caso. Sono l’effetto dell’illusione di poter difendere l’art. 18 e di estenderlo (che è l’unico modo per difenderlo!), di tutelare sanità, pensioni e scuola compatibilmente assieme al rilancio della competitività dell’azienda Italia.

Gli attivisti "no-global" sono chiamati a partecipare alla lotta contro Berlusconi non certo per accodarsi all’impostazione che la dirige attualmente. Ma per portarvi questi elementi di bilancio. Per contrastarvi lo sbocco politico che si prospetta, e cioè quello di un centro-sinistra che ha avviato le politiche (sugli immigrati e sul lavoro ad esempio) che la destra sta portando avanti. Per farvi vivere la lezione che la dimensione internazionale dello scontro di classe riconsegna a partire dall’esperienza argentina: per fermare l’attacco anti-proletario portato avanti da un governo, c’è bisogno di una mobilitazione di massa che arrivi a buttarlo giù al di fuori di ogni futile gioco parlamentare. E per contribuire così a far maturare quella classe proletaria ridestata al suo compito storico di avanguardia dell’intero universo degli oppressi di cui il movimento "no-global" ha bisogno per realizzare i suoi "sogni".

Dall’altro lato, al di fuori dell’Italia, l’impegno per la "giustizia sociale" qui nel Nord del Mondo va legata con quella per la "giustizia internazionale". E come si può lavorare in questo senso se, come invitano a fare alcuni esponenti del movimento "no-global", si prende le distanze dalle lotte dei palestinesi o di altri settori delle masse lavoratrici del Sud del Mondo con la motivazione che non sono condivisibili i programmi delle loro direzioni o i metodi della lotta? "Siamo con i palestinesi, dicono costoro, ma non devono compiere gli attentati suicidi, non devono seguire Hamas..." Cioè: siamo a parole con i palestinesi, ma ci opponiamo al percorso che -nella situazione politica internazionale attuale- essi vedono come il solo in grado di dare la possibilità di resistere all’oppressione sionista e imperialista, il solo, aggiungiamo noi, in grado di portare, a date condizioni politiche che dipendono essenzialmente da qui, allo sviluppo di un’altra direzione della battaglia, internazionalista e rivoluzionaria. Quali sono queste condizioni politiche?

L’appoggio incondizionato dei lavoratori e del movimento "no-global" dell’Occidente alla battaglia dei palestinesi. Il rifiuto, in via di principio, di ogni pretesa dei signori della guerra e della violenza istituzionalizzata di farci giurare sul pacifismo e sulla non-violenza, e cioè sull’accettazione supina della dittatura del profitto. L’assunzione delle ragioni della lotta dei palestinesi, affermando che il centro della loro oppressione nazionale e sociale si trova qui in Occidente, nei governi e nelle borse imperialiste, la cui colpa non è quella di lasciar fare Israele ma di sostenerne (seppur talvolta con contrasti) la mano assassina. L’impegno tra i lavoratori occidentali affinché ci si mobiliti per il ritiro delle truppe d’occupazione italiane e occidentali sparse nel Medio Oriente (e non solo!) a protezione dei gendarmi locali (altrimenti potrebbero essere ancora in piedi?). L’attivizzazione a difesa dei lavoratori immigrati (islamici e non), vero ed autentico avamposto delle masse sfruttate del Sud del mondo giunto qui in Europa e il sostegno, anche qui incondizionato, ai suoi tentativi di auto-organizzazione e di lotta (v. ad esempio lo splendido sciopero generale dei lavoratori immigrati a Vicenza del 15 maggio scorso).

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA