Carovita, precarietà, pensioni, guerre…

ragioniamoci su. 

 

Da qualche mese, c’è una frase ricorre nei discorsi della gente: “Un euro vale solo mille lire”.

In assoluto questa è forse un’esagerazione, ma quel che è certo è che fare la spesa sta diventando proibitivo, mentre  i costi e gli affitti delle abitazioni sono alle stelle. A poco servono le “tranquillizzanti” e interessate statistiche governative che ci dicono che, tutto sommato, l’inflazione è bassa e tenuta “sotto controllo”. 

 Intanto cresce il numero di lavoratori e di famiglie costretti ad indebitarsi progressivamente con banche e finanziarie (quelle dell’ormai famoso “porta a casa oggi e paga – salato! – domani”). Infatti, se negli scorsi anni si era potuto far fronte alla situazione ricorrendo agli straordinari sul lavoro o attingendo ai risparmi fatti in precedenza, oggi tutto ciò basta sempre meno.

 

Di chi la colpa?

 Il presidente degli industriali D’Amato ha dichiarato che l’aumento dei prezzi è da attribuire alla speculazione dei negozianti (all’ingrosso e al dettaglio) e all’arretratezza del sistema distributivo italiano. Immediata la replica del presidente dei commercianti Billè per il quale, invece, la responsabilità è dell’industria italiana che non riesce a sfornare prodotti a costi competitivi.

 Ma allora, chi diavolo è responsabile della situazione? Chi è che imbroglia? Sono “incapaci” gli industriali o sono i rivenditori che fanno la “cresta”? E perché così “all’improvviso” si è riaccesa questa corsa dei prezzi? Proviamo a ragionarci assieme per comprendere le radici di quanto accade e per capire come dobbiamo reagire di fronte a un “fenomeno” che si  configura come un ennesimo attacco alle condizioni di vita di chi campa del proprio lavoro.

 

Un modo per far andare sempre

più l’acqua al mare

Innanzitutto è utile sottolineare come i vari D’Amato e Billè, mentre giocano tra loro a “scarica barile”, sono però d’accordo su un paio di cose. Primo: per fermare il carovita, dicono, bisogna tagliare strutturalmente le pensioni, e la spesa sociale (sanità e scuola innanzitutto) va ulteriormente ridimensionata. Secondo: i salari dei lavoratori -“ovviamente”– vanno tenuti rigidamente al guinzaglio.

Come mai tanta sintonia su questi temi? Semplice: i lupi (e a proposito di commercio qui parliamo dei grossisti e della grande distribuzione e non tanto dei piccoli esercenti) litigano tra di loro per stabilire chi debba avere la fetta di torta più grande, ma sono concordi sul fatto che la loro torta debba crescere di continuo. Stringi, stringi, l’aumento dei prezzi è un ulteriore modo per sottrarre maggiore “ricchezza” ai lavoratori e travasarla nel pozzo senza fondo dei profitti e delle rendite delle imprese, delle banche e dei parassiti che campano sul lavoro altrui. Quanto sta accadendo in Italia (e in buona parte del mondo occidentale) con il “caro-euro” è “solo” un aspetto di un gigantesco fenomeno in atto da diverso tempo che sta producendo un impoverimento dei lavoratori ed una parallela centralizzazione di tutte le ricchezze nelle mani dei grandi possessori di capitale.

 

Intanto  siamo attaccati

anche sul versante del mercato del lavoro.

L’offensiva contro le nostre condizioni non proviene solo dal fronte dei prezzi. Il governo Berlusconi (mentre si appresta a rendere operativa una riforma fiscale finalizzata a far pagare sempre meno i più ricchi e a nuovi attacchi alle pensioni) ha varato la cosiddetta “riforma” del mercato del lavoro (legge 30). Governo, padronato e mezzi d’informazione, con enorme faccia tosta, hanno tentato in vari modi di presentare la normativa in termini accattivanti. Hanno affermato che, tramite questa “modernizzazione” del mercato del lavoro, si potranno finalmente alzare i tassi d’occupazione e se ne potrà migliorare la qualità, con particolare beneficio della nuova generazione. Nulla di più falso!

La legge 30 punta esclusivamente ad estendere e generalizzare la precarietà, a legalizzare lavoro nero e caporalato e a rendere ciascun lavoratore solo e impotente davanti allo strapotere della direzione aziendale. Il concetto di lavoratore “usa e getta” che sinora, attraverso la legge Bossi-Fini, era un “privilegio” sancito per i “soli” immigrati, adesso viene esteso anche ai giovani (o meno giovani) italiani  in cerca d’occupazione. I precari saranno sempre di più e sempre più precari, i lavoratori cosiddetti “garantiti” vedranno le loro tutele (a cominciare dai contratti collettivi nazionali) sempre più messe all’indice ed attaccate, le aziende, invece, avranno sempre maggior forza e potere di ricatto.

 

Un patto micidiale

Ma,  mentre  ci attaccano,  i “nostri” governi” ed i “nostri” padroni ci propongono un duplice patto. Da un lato ci si chiede di assecondare le necessità delle aziende in quanto una loro maggiore competitività sul mercato internazionale rappresenterebbe una salvaguardia ed una garanzia anche per noi lavoratori. Dall’altro lato ci si domanda  di appoggiare, o quanto meno di non ostacolare, le spedizioni militari e le guerre che vedono sempre più frequentemente “impegnati” oltre confine gli Usa e gli stati  europei.  Anche qui -“ovvio”- la cosa sarebbe nel nostro esclusivo interesse. “In nome della pace e della democrazia lasciateci condurre le nostre guerre umanitarie e civilizzatrici, lasciateci saccheggiare e rapinare a piacimento le materie prime e tutte le risorse del Sud del mondo, lasciateci insomma le mani libere e vedrete che forse, se tutto andrà bene, qualcosa ne entrerà pure a voi magari sotto forma di rallentamento dell’attacco alle vostre attuali condizioni di vita e lavoro”: questo in sintesi il suadente ritornello che in mille forme ci viene propinato. Ma simili “proposte” a cosa ci porterebbero, o meglio, a cosa ci stanno già portando? Vediamo un po’.

 

Cominciamo dalla mitica “competitività”.

In suo nome negli ultimi 25 anni è stata cancellata la scala mobile (cioè quel meccanismo che in un certo qual modo adeguava automaticamente tutti i salari al costo della vita), sono aumentati i carichi ed i ritmi lavorativi, è esplosa la pratica degli appalti e dei sub-appalti selvaggi, il lavoro (grazie anche all’opera dei governi di centro-sinistra) si è fatto più precario ed insicuro. Per essere competitivi con i prodotti americani, tedeschi, ecc. è necessario -si dice- “accettare” sacrifici. Ma contemporaneamente, vedi un po’ il caso, anche ai lavoratori degli altri paesi –per lo stesso motivo- viene somministrata la stessa ricetta. Sperare di poter tutelare le proprie condizioni legandole alla competitività della azienda o del “sistema paese” significa farsi catapultare in un vortice senza fine di concorrenza al ribasso con i lavoratori delle altre aziende e delle altre nazioni.

C’è chi, in alternativa, dice: “Ma esiste anche un diverso modo per essere competitivi, un modo che non si basa sulla compressione dei salari e delle condizioni lavorative, ma che punta sulla qualità del prodotto e sulla tecnologia ed è a questo che dobbiamo puntare”. Per comprendere quanto sia illusoria e contro-producente anche una simile prospettiva, basta guardare come la precarietà e lo sfruttamento del lavoro siano ad altissimi livelli proprio nei cosiddetti settori ad “alta e nuova tecnologia”. Non è forse vero, ad esempio, che  il comparto delle telecomunicazioni e delle aziende operanti nel mondo internet è un autentico “paradiso” del lavoro precario, saltuario, a tempo determinato e via dicendo? E negli Stati Uniti, cioè nel paese a “più alta tecnologia”, qual è la condizione di una crescente parte di lavoratori se non quella della precarietà e del basso salario? Con buona pace di quanti -soprattutto tra i vertici sindacali e della sinistra- si riempiono la bocca  con simili giochi illusionistici, la realtà ci dice che, comunque la si metta, puntare sulla competitività significa per noi lavoratori puntare su un tritacarne che non può che  macinare i nostri diritti ed i nostri salari.

C’è infine un’altra variante di questa politica che ci viene proposta con crescente insistenza: l’adozione di politiche protezionistiche. “Mettiamo dei dazi sulle merci che provengono dai paesi in cui i salari sono troppo bassi e i diritti quasi assenti. La loro concorrenza è scorretta. Questo è quello che ad esempio accade con la Cina. Con dei dazi ‘sociali’ salveremo le nostre imprese e i vostri posti di lavoro, e in più costringeremo le imprese cinesi a migliorare le condizioni dei lavoratori del loro paese.

Semplice, no? Sì, ma completamente falso.

Da anni gli Usa e l’Europa adottano politiche super-protezionistiche nel campo dei prodotti agricoli: il loro fondamentale risultato è quello di distruggere e sottomettere le economie di interi paesi del Sud del mondo.  L’invocato protezionismo industriale, al pari,  è una delle vie  per far saltare ogni tentativo di sviluppo economico “indipendente” in Cina e nell’intera Asia, per ricattare più a fondo questi paesi e per potere avere mano libera nello sfruttamento intensivo di quelle immense masse operaie senza dover “lasciar troppo” a governi ed a padroni locali. Dovremmo aver imparato che più i “nostri” padroni sono liberi di sfruttare oltre confine, più hanno armi ricatto e di pressione anche contro di noi “qui” (le esperienze delle “delocalizzazioni” a zero diritti e a salari rasoterra in Romania, Ungheria, Slovenia, Albania, ecc. parlano abbastanza chiaramente in materia).

Questo non significa che non sia interesse dei lavoratori occidentali che migliorino le condizioni dei lavoratori in Cina e nel resto dell’Asia. Questo  elevamento non può però essere favorito dal nostro sostegno alle politiche (liberiste o protezioniste) dei “nostri” padroni, delle “nostre” banche, delle “nostre” forze armate, delle “nostre” alleanze internazionali, ma solo dalla nostra lotta contro tali politiche. La morsa più potente che stringe i lavoratori asiatici e che obbliga le impresi cinesi a mantenere compressi i loro salari, è quella dei grandi poteri capitalistici internazionali che dominano il mercato mondiale. Le imprese, le banche e le istituzioni italiane fanno parte appieno di questi poteri briganteschi. Questo è solo un esempio di quanto sia suicida per i lavoratori occidentali aderire al patto “neo-coloniale” che ci viene offerto dalla borghesia.

 

Su chi ricadono i costi

politici, umani ed economici delle guerre?

Anche qui, proviamo a stare ai fatti. Nella prima metà degli anni ’90 sotto regia occidentale si attizza la disgregazione della repubblica Jugoslava, poi nel ’98 – per completare l’opera – la Nato scatena 72 giorni di vigliacchi bombardamenti “umanitari” su Belgrado. Il governo italiano presieduto da D’Alema è in primissima fila e i vertici sindacali parlano della guerra come di una “contingente necessità”. Risultato? Un intero paese viene smembrato, viene distrutta buona parte delle sue infrastrutture e della sua industria. Spianato il terreno a suon di bombe, le aziende occidentali possono finalmente allungare liberamente i loro tentacoli sui Balcani dove trovano centinaia di migliaia di lavoratori che si vedono costretti o all’emigrazione o ad accettare in loco un forte peggioramento delle loro condizioni. Ecco presi due piccioni con una fava. Da un lato si mette in cantiere lo sfruttamento intensivo “in loco” della classe operaia della “ex”-Jugoslavia, e dall’altro si utilizza questa massa di lavoratori come incolpevole arma di ricatto contro gli operai di “casa nostra” con il classico “o mangiate questa minestra o si sposta tutto al di là dell’Adriatico” .

E l’Afghanistan e l’Iraq? Con i più falsi pretesti sono stati aggrediti e bombardati due popoli “colpevoli” di non volersi inginocchiare agli ordini ed alla rapina dei signori delle borse internazionali. Il loro petrolio, il loro gas, tutte le loro risorse sono ora nelle “nostre” mani, i fucili delle truppe occidentali d’occupazione garantiscono che a Baghdad e a Kabul la popolazione e i lavoratori non si ribellino a questo saccheggio. Eppure -guarda un po’ le stranezze della vita- qui, nel cuore del “vincente” Occidente, non solo le condizioni economiche e normative dei lavoratori peggiorano, ma -sulle ali della cosiddetta “guerra al terrorismo”- si è dato corpo ad una serie di disposizioni che attaccano e limitano l’agibilità sindacale e politica. Le denunce e le intimidazioni contro tanti lavoratori iscritti alla Cgil e ai Cobas durante le lotte a difesa dell’articolo 18, il clima di razzista repressione nei confronti dei lavoratori immigrati, gli arresti  e le inchieste contro attivisti no-global ne sono una testimonianza. Intanto, accanto a tutto ciò, è stata varata una serie di norme tendenti ad instaurare e rafforzare una cappa di controllo poliziesco sull’intera società. A tal proposito molto ci sarebbe da ragionare su legislazioni quali, ad esempio, quella sulla “violenza negli stadi”, il cui fine profondo non è quello di permettere alla “gente comune” di godere in santa pace delle “delizie” dei vari Totti, Vieri e Del Piero, bensì quello di attaccare ogni forma di aggregazione giovanile che possa contenere -sia pure tra fortissime ambiguità e deviazioni- il germe di un “sentire” e di un agire collettivo contro la vita di merda che questa società riserva alle nuove generazioni.

Le guerre, oltre tutto, costano. La spesa bellica degli Usa nell’ultimo anno è cresciuta del 45% superando i 400 miliardi (!!!) di dollari, anche l’Europa, pur se in misura minora, sta facendo la sua parte. E da dove si reperiscono i fondi se non dal taglio continuo e generalizzato della spesa sociale? Gli ospedali sono fatiscenti e le scuole mancano delle attrezzature adeguate, ma i cacciabombardieri sono sempre più efficienti.  Ed inoltre: non è forse vero che tali bestiali investimenti costituiscono un potente fattore inflazionistico (cioè di aumento dei prezzi) a scala mondiale?

Senza dimenticare che le imprese belliche “neo”-coloniali hanno un prezzo in vite umane anche per l’Occidente. Questo accade già oggi, ma accadrà soprattutto in futuro, come dovrebbe insegnarci ciò che accade in quell’avamposto dell’Occidente nel mondo musulmano che è Israele. E a pagare il conto non sono certo i papaveri che occupano i consigli d’amministrazione delle banche o delle multinazionali. Quanto sta accadendo in Iraq deve farci riflettere pure sotto questo aspetto: la fiera e sacrosanta resistenza irachena sta iniziando a far masticare amaro all’esercito d’occupazione. E a cadere sotto i sui legittimi colpi sono semplici soldati di truppa mandati a svolgere l’infame compito di boia  contro un intero paese nell’interesse dei banchieri, dei generali e dei managers ben al riparo da ogni rischio.

La politica “estera” dei nostri stati non è dunque rivolta solo contro “altri” popoli, essa è rivolta anche contro di noi: appoggiarla, o anche solo accettarla passivamente, significa accettare di essere sprofondati in un baratro sconfinato.

 

Reagire è possibile e necessario.

La necessità di un deciso recupero in busta paga  sta riconquistando grande attenzione nel mondo del lavoro. Su questo argomento si stanno creando aspettative anche a partire dai rinnovi dei contratti nazionali di categoria in corso. Anche i vertici della Cgil parlano di una campagna per far recuperare peso ai salari. Bene. Su questo terreno è più che mai urgente che si dia una vera mobilitazione di massa e che la si tenda a generalizzare al massimo superando il più possibile i confini di ogni singola categoria. In questo senso forte deve essere la spinta dai luoghi di lavoro affinché le parole non restino chiacchiere. Porre con forza questa questione nei contratti è più che giusto. Ma affinché tali recuperi non siano episodici e coinvolgano anche quella massa di lavoratori che ha difficoltà a spuntare contratti nazionali e aziendali decenti, bisogna iniziare a prospettare la necessità di lanciare una battaglia per imporre una norma per l’adeguamento automatico e continuo dei salari al reale incremento del costo della vita per tutti i lavoratori di ogni settore.

 

Appropriamoci di una nostra politica

per difendere i nostri interessi di classe e…

Allo stesso tempo è indispensabile iniziare a riflettere collettivamente sul fatto che anche  il dare corpo efficacemente ad una “semplice” (semplice si fa per dire) difesa del salario o delle pensioni ci chiama ad affrontare tutta una serie di nodi generali che non possono più essere scansati. A cominciare dal fatto che una vera lotta per il salario deve andare di pari passo con la lotta contro la precarietà e contro le discriminazioni razziste verso gli  immigrati, contro i due puntelli  che sorreggono queste ultime, e cioè la legge Bossi-Fini da un lato e la crociata anti-musulmana in corso dall’altro. Come si può pensare di difendere la busta paga se contemporaneamente si accetta che vi siano masse crescenti di lavoratori di serie B e di serie C per i quali il sottosalario e il super-sfruttamento sono la norma? 

Per portare avanti una simile battaglia e per unificare le varie “figure lavorative” (“garantiti”, precari, immigrati, operai del Nord e del Sud, ecc.) che si tenta oggi di mettere l’una in concorrenza con l’altra, abbiamo bisogno di cominciare a sviluppare una politica che rompa con il rispetto delle compatibilità capitalistiche. Cioè che metta in discussione e ribalti l’idea (e la pratica!) propria dei vertici sindacali e dei partiti dell’Ulivo (e dintorni), secondo cui il destino dei lavoratori deve essere  legato e subordinato al “buon andamento” dell’economia aziendale e nazionale. Andare verso la riconquista di una simile nostra politica è decisivo per i “garantiti”, e lo è anche per la massa dei precari e dei senza contratto. In questo vasto settore, ancor più che altrove, “buon andamento” dell’azienda significa assenza di ogni garanzia, turni assurdi, umiliazioni e, soprattutto, solitudine di ogni singolo lavoratore davanti all’arroganza aziendale. Proprio qui è dunque necessario agire (partendo anche da rivendicazioni “minime”) per costruire strutture di lotta sindacale, anche embrionali, che inizino ad essere organismi di difesa collettiva in grado di permetterci innanzitutto di superare l’isolamento individuale che ci rende tutti più deboli.

 

…schieriamoci a fianco

delle masse oppresse del Sud del mondo.

Su un isolotto non si può stare “tranquilli” mentre tutt’intorno è stato scatenato il maremoto. La realtà è che la battaglia per i nostri diritti, per un salario adeguato e dignitoso, per le pensioni e per uscire dalla precarietà ci chiama a dar vita anche ad una nostra “politica estera” diametralmente opposta a quella di padroni e governi. Una politica che inizi a vederci schierati con forza contro le imprese militari occidentali comunque “motivate” e che rivendichi il  ritiro completo ed immediato di tutte le truppe italiane dall’Iraq, dall’Afghanistan e da ogni dove.  Una politica che sappia dire come l’attacco ai salari, alle pensioni ed ai diritti “qui da noi” e le guerre e le devastazioni fuori (per ora) dai confini occidentali, sono strumenti diversi manovrati però dalla stesse mani e per lo stesso fine: la difesa e l’accrescimento del profitto dei signori della borsa e della finanza mondiale. E che quindi cominci a vedere nella resistenza di queste popolazioni non un pericolo, bensì una risorsa e un alleato per la nostra stessa lotta e che si schieri, dunque, incondizionatamente al  loro fianco.

 

Per una vera battaglia contro il governo

Nella primavera del 2002 in tanti siamo scesi in piazza per difendere l’articolo 18, ma la mobilitazione non è giunta a vedere e a imboccare l’unica via che sarebbe stata in grado di fermare la riforma del mercato del lavoro: il licenziamento dalla piazza del governo che voleva portarla avanti. Anzi, Ulivo e vertici sindacali hanno fatto di tutto affinché una simile prospettiva non prendesse corpo. Eccone i risultati. Dal mercato del lavoro alle pensioni, dal fisco alla scuola, dai contratti alla sanità alle disposizioni verso gli immigrati il governo ha ripreso fiato, ed ha allargato il tiro. Per fermare l’attacco cui siamo sottoposti, occorre puntare a buttare giù il governo che lo dirige e gli spiana la strada. Porsi l’obiettivo di cacciare con la mobilitazione Berlusconi e soci è oggi più urgente che mai, e questo è (tra l’altro) anche il solo modo per poter “sfruttare” realmente a nostro vantaggio gli attuali contrasti tra i partiti della maggioranza che non vertono sul “se” ma solo sul “come” cucinarci.

Le mobilitazioni dell’anno scorso hanno dimostrato che noi lavoratori possediamo un grande potenziale di lotta. Ma hanno evidenziato pure che questo potenziale da solo non basta. Per metterlo in campo e non disperderlo, per unificarlo e organizzarlo nella lotta è indispensabile che si inizi a fare strada la necessità di dotarci di un’autentica politica di classe che - sin da subito in tutte le lotte – ponga l’obiettivo di licenziare in piazza Berlusconi  non nella prospettiva di un ricambio ulivista di governo (l’esperienza dovrebbe insegnarci qualcosa a tal proposito), ma in quella del rafforzamento dell’organizzazione di classe (in Italia e a livello mondiale), della ripresa della battaglia contro il capitalismo, la sua sete di profitto e di guerre, e per il socialismo internazionale.

    30 settembre 2003

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA

leggete