Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008
L’Iran tra sviluppo economico, lotta di classe e minacce di guerra
I lavoratori e i giovani impegnati negli anni scorsi 
contro la “guerra infinita” continuano ad essere sordi ai rumori di guerra 
contro l’Iran. Passati in sottordine anche nella manifestazione di Vicenza del 
dicembre 2007 e nelle rare e scarne assemblee sulla questione “pace-guerra” che 
l’hanno accompagnata. 
Ma i preparativi continuano. E ad essere nel mirino, al di là di Ahmadinejad e 
soci, sono i lavoratori dell’Iran e del Medioriente e con essi i proletari 
dell’Asia e del mondo intero. Anche quelli indifferenti della nostra Italietta. 
Torniamo a denunciarlo in questo numero con una rapida ricognizione della 
situazione sociale interna all’Iran.
L’immagine dell’Iran diffusa dai media occidentali è un 
puzzle di interessati luoghi comuni. Uno di questi, assai diffuso in Occidente, 
vuole che in Iran regnerebbero solo arretratezza estrema e altrettanto estrema 
miseria. L’Iran, invece, sta conoscendo da quasi un decennio un rigoglioso 
sviluppo capitalistico, che partecipa di quello dell’intero continente asiatico.
Il “miracolo economico”
Dopo il regresso subìto negli anni ottanta per il peso della guerra con l’Iraq e 
dopo la lenta ripresa degli anni novanta (+1,7% annuo del prodotto interno 
lordo), l’economia dell’Iran è decollata a partire dal 2000 fino ai ritmi del 7% 
del 2005, trainata, oltre che dalla crescita degli introiti petroliferi, anche 
dallo slancio della produzione manifatturiera e da un livello del saggio di 
profitto (17%) ben superiore a quello degli anni settanta (10%). L’economia 
della repubblica islamica si è di fatto ricollegata al trend della 
modernizzazione capitalistica vissuta dal paese sotto lo scià. Con due 
differenze, che fanno ringhiare i capitalisti occidentali. Da un lato, un grado 
inferiore di estroversione e di sottomissione alle multinazionali occidentali. 
Dall’altro, alcuni interventi nazional-popolari in campo sanitario, scolastico, 
previdenziale, residenziale, di controllo dei prezzi delineanti una 
(sotto)specie di “welfare islamico”.
La repubblica islamica ha utilizzato l’accresciuta rendita del petrolio e del 
gas (che coprono tuttora l’80% delle esportazioni) per cominciare a ridurre la 
dipendenza della produzione manifatturiera dall’estero e per incrementare 
l’esportazione di prodotti (1). A tal fine la classe dirigente iraniana si è 
avvalsa dell’interesse della Cina e, in parte, di alcuni paesi europei di 
disporre degli idrocarburi senza passare attraverso il rifornitore statunitense 
(2) e di investire in un paese che ha un vasto mercato interno ed è cruciale per 
il controllo dell’area. Significativi, a tal proposito, due elementi.
Il primo è l’insieme di condizioni che Teheran stabilisce con le imprese estere 
che investono nel paese. Nel settore petrolifero impone il contratto buy back, 
con il quale la National Iranian Oil Company (Nioc) chiede agli investitori non 
solo una royalty sul ricavato dalla vendita degli idrocarburi ma anche un 
investimento in tecnologia che, al termine dell’accordo, deve passare nelle mani 
dello stato iraniano. Nel settore automobilistico la classe dirigente iraniana 
ha offerto condizioni fruttuose agli investimenti delle multinazionali con il 
vincolo per queste ultime di apportare al paese un reale trasferimento di 
tecnologia. La Samand, il modello di auto oggi esportato in tutto il Medioriente, 
in Asia centrale e in Russia, era originariamente un mero assemblaggio di pezzi 
Renault; nel frattempo è diventato il prodotto di un’industria automobilistica 
nazionale che sa stare sulle sue gambe e che, con un’occupazione complessiva di 
mezzo milione di lavoratori, ha quadruplicato la sua produzione tra il 1996 e il 
2005.
Il secondo elemento è costituito dal tentativo portato avanti da Teheran, con un 
gioco di sponda con Caracas e con Mosca, di aprire una borsa di contrattazione 
degli idrocarburi in euro nell’isola di Kish (3). Attualmente la gran parte 
degli idrocarburi estratti nel mondo viene venduta su due sole piazze 
finanziarie (quella di New York e quella di Londra) sotto il controllo delle 
imprese statunitensi e sulla base del dollaro come moneta di contrattazione. Il 
progetto della borsa di Kish è, quindi, un atto di sfida sia al ruolo 
monopolistico detenuto dal capitale finanziario Usa nel settore petrolifero che 
al ruolo del dollaro come moneta di riferimento internazionale e, quindi, alla 
stabilità del sistema finanziario planetario.
Di nuovo in campo gli operai
Incoraggiata da questo essor capitalistico, la classe operaia iraniana è tornata 
a far capolino sulla scena sociale e politica. Una classe operaia forte di 
almeno cinque milioni di unità (su una forza-lavoro iraniana complessiva di 24 
milioni di occupati), ripartiti oltre che nei settori tradizionali 
dell’estrazione del petrolio, del tessile e dell’edilizia, anche in settori 
quali l’auto, la farmaceutica, l’aeronautica, la siderurgia. 
Il proletariato industriale, un proletariato con una grande e lunga tradizione 
politica legata anche al bolscevismo sovietico, costituì la forza sociale 
motrice della insurrezione del 1979. Senza il grandioso sciopero degli operai 
petroliferi, la dittatura dello scià non sarebbe stata messa in ginocchio e 
spazzata via come un fuscello. Ma la direzione politica del moto 
anti-imperialista e il potere statale furono, tuttavia, assunti dal partito 
khomeinista. Un disgraziato concorso di circostanze, internazionali prima ancora 
che interne, fece sì che questo partito, dopo avere stroncato nel sangue i 
nuclei di classe più combattivi e coscienti, riuscisse a conquistare un’ampia 
influenza non soltanto tra i diseredati neo-inurbati delle bidonvilles 
metropolitane, ma anche nei ranghi della stessa classe operaia. Dopo la 
catastrofe della sinistra storica (il Tudeh) e la semi-dissoluzione di quella di 
nuova formazione (i fedayn del popolo e il Pc dell’Iran), molti proletari, anche 
di fabbrica, furono indotti a vedere nello sviluppo di un capitalismo 
“indipendente” in veste islamica, il vettore con cui sfuggire alle tribolazioni 
conosciute sotto il regime dello scià. Da parte sua la repubblica islamica 
provvide a devitalizzare ed epurare i consigli di fabbrica creati durante la 
rivoluzione, sostituendoli con gli shora-ye-islami, organismi corporativi 
rappresentativi sia dei manager che dei lavoratori (e se questi interessi non 
possono essere rappresentati insieme nei paesi ricchi senza gravi danni per i 
lavoratori, immaginiamoci cosa accade nei paesi dipendenti!). Attraverso tali 
shora-ye-islami e la retorica della fratellanza tra tutti gli islamici a 
prescindere dal ruolo sociale ricoperto (figurarsi!), il regime di Teheran si è 
sforzato di attivare e consolidare nel tempo la collaborazione tra capitale e 
lavoro. Il risultato di questa accorta combinazione di repressione e demagogia, 
di cui lo stesso Khomeini dei secondi anni ’70 è stato un campione, fu la 
scomparsa di un’attività sindacale e politica dei lavoratori separata 
dall’apparato statale e dalle direzioni aziendali alla quale il proletariato 
iraniano s’era destato nel 1978-1980 e il ripiegamento di essa nel tentativo di 
difendere entro le istituzioni corporative della repubblica islamica le tutele 
immediate strappate nella fase vulcanica della rivoluzione. Da allora ai primi 
anni del XXI secolo i lavoratori iraniani si sono fatti sentire più volte. Con 
alcuni scioperi e una serie di rivolte, soprattutto nel corso degli anni novanta 
(4). Ma senza trovare la forza di uscire dalla paralisi politica iniziata nel 
1981, rispetto alla quale le lotte proletarie iniziate nel 2004 sembrano segnare 
un’embrionale inversione di tendenza.
Alla origine di esse vi sono lo slancio capitalistico conosciuto dall’Iran negli 
ultimi anni e, nello stesso tempo, i vincoli che lo stanno soffocando. Di fronte 
allo sviluppo del paese e all’arricchimento, spesso ostentato, degli strati 
dirigenti dello stato, i proletari iraniani hanno cominciato a rivendicare la 
loro parte di una torta che, giustamente, considerano il frutto del proprio 
lavoro. Ma a sospingerli in campo è stata, contemporaneamente, l’asfitticità 
dello sviluppo produttivo che li ha incoraggiati. Il quale, pur sostenuto, è in 
grado di assorbire solo una piccola quota del milione di giovani (5) che ogni 
anno si presenta sul mercato del lavoro. Con effetti a catena anche sulla parte 
occupata del proletariato.
Molti di coloro che si affacciano sul mercato del lavoro provengono da quelle 
aree rurali che negli anni scorsi avevano parzialmente assorbito la 
polarizzazione sociale strisciante in atto del paese. Ora, invece, cresce il 
numero degli inurbati. Nelle città, soprattutto a Teheran, si allargano le 
periferie degradate e la massa di persone che vive di lavori saltuari, piccoli 
commerci o grazie all’assistenza delle istituzioni caritatevoli. Il tasso di 
disoccupazione è ben superiore al 15% ufficiale. L’elevato (rispetto ai tempi 
dello scià e alla media dei paesi circostanti) livello di scolarizzazione della 
gioventù iraniana contribuisce a caricare l’aria già satura di elettricità. Di 
cui sono sintomi significativi l’elevato numero di suicidi, il crescente consumo 
delle droghe, chimiche e derivati dell’oppio, soprattutto tra i settori più 
diseredati del mondo del lavoro e la fascia altamente scolarizzata (6).
Il morso che trattiene lo sviluppo economico e sociale in Iran non deriva solo 
dalle sanzioni votate nel 2006-2007 dall’Onu e da quelle aggiunte 
unilateralmente dagli Stati Uniti, che stanno ostacolando l’urgente 
ammodernamento delle infrastrutture petrolifere dell’Iran (7) a tal punto che 
ancora oggi il paese estrae solo 4 dei 6 milioni di barili di petrolio estratti 
nel 1978. L’impatto delle sanzioni è, però, diluito, per ora, dalla crescita dei 
rapporti economici con paesi, come la Russia e la Cina, in grado di fornire, 
almeno in parte, le attrezzature avanzate di cui l’Iran ha bisogno (8). A pesare 
sulla modernizzazione capitalistica dell’Iran è, soprattutto, l’azione 
soffocante dello stesso meccanismo che la stimola, il capitalismo mondializzato, 
i cui centri direttivi impulsano lo sviluppo di un’area solo se e nei settori in 
cui vi possono estrarre sovrapprofitti senza pagare “dazi” eccessivi agli 
sfruttatori locali, e in quanto la possono utilizzare per ridurre all’ordine i 
popoli e i lavoratori renitenti di altri paesi, di altri continenti. Questo 
“gioco” inchioda uno dei massimi produttori mondiali di petrolio, l’Iran 
appunto, ad importare un terzo del suo fabbisogno di benzina (25 milioni di 
litri al giorno) perché sono insufficienti le attrezzature necessarie alla 
lavorazione della materia prima. Per cui, con le loro rivendicazioni 
sull’aumento dei salari, sugli arretrati, sulle condizioni e la durata del 
rapporto di lavoro, i lavoratori dell’industria dell’Iran stanno pungendo nel 
vivo non solo gli interessi dei capitalisti iraniani e degli investitori 
internazionali, ma anche quelli dell’intero meccanismo di accumulazione 
mondiale. Soprattutto perché hanno iniziato un percorso di loro propria 
auto-organizzazione separata dalle altre classi sociali (9).
Ancora troppe illusioni sulla repubblica islamica! 
Inizialmente i lavoratori hanno rivolto le loro rivendicazioni al sindacato 
ufficiale e alle istituzioni della repubblica islamica. Rimasti di fatto senza 
risposta, sono stati costretti a riscoprire via via le armi della lotta di 
classe, a svincolarsi dall’abbraccio corporativo dei sindacati ufficiali, ad 
infrangere la bolsa retorica dell’unità-omogeneità dell’umma islamica. Non ci 
sono solo gli scioperi aziendali e le giornate di mobilitazione nazionale sui 
problemi dei lavoratori. C’è l’intelligenza di sfruttare gli spazi offerti dalla 
legislazione della repubblica islamica, per disporre, come lavoratori, di 
momenti stabili di incontro e di discussione: ad esempio, quelli legati alle 
attività delle associazioni escursionistiche e delle leghe di mutuo soccorso. 
Stanno costituendosi anche primi nuclei clandestini.
Siamo ben lontani da un’organizzazione e da un programma classisti, anche solo 
ultra-minoritari. Un settore attivo di lavoratori continua a riconoscersi nella 
repubblica islamica, che ritiene – quale illusione! - di dover e poter 
ricondurre, secondo la prospettiva radical-sociale di Shariati, sulla via della 
“giustizia sociale”, alla sua ispirazione originaria, contro le brame di 
arricchimento, la corruzione e la debolezza verso i padroni occidentali degli 
squali à la Rafsajani. Ma comincia a farlo, è questo l’importante, sulle gambe 
di un’attivizzazione in proprio, con la volontà di riconquistare organizzazioni 
indipendenti dei lavoratori esterne al consiglio islamico del lavoro e con la 
politicizzazione in corso delle contese sindacali entro questo stesso organo. 
(10)
Le potenze occidentali vedono le potenzialità di quello che si è messo in moto. 
In gioco, per esse, non c’è solo l’acquisizione del petrolio alle condizioni 
desiderate e la messa in riga delle aspirazioni nazionaliste della borghesia 
iraniana. C’è anche e soprattutto il timore che la retorica antimperialista 
islamica non riesca a contenere l’embrionale ripresa proletaria in corso. E che 
tale ripresa possa coagulare su più ampia scala la rabbia e la disperazione dei 
diseredati iraniani e trasbordi nell’area verso gli operai petroliferi dei paesi 
del Golfo Persico, verso il vulcano sempre acceso in Palestina, verso la 
resistenza in Libano, verso gli operai e i lavoratori egiziani, anch’essi 
protagonisti di magnifiche lotte, verso i due milioni di proletari iracheni 
emigrati in Giordania e in Siria e supersfruttati dai “fratelli” capitalisti 
arabi.
La preoccupazione delle cancellerie occidentali ha trovato una conferma nel 
fallimento del loro tentativo, coadiuvato dall’Afl-Cio, di blandire le 
iniziative dei conduttori di autobus di Teheran per favorire un cambio di regime 
filo-occidentale in Iran. Simili manovre non sono andate lontano, al pari di 
quelle rivolte alle donne dell’Iran, sulla cui condizione e sulla cui 
mobilitazione ci soffermeremo nei prossimi numeri del che fare. Non sono andate 
in porto perché l’evoluzione della situazione sociale nei paesi dell’Est dopo il 
1989 ha educato i lavoratori e gli oppressi di tutto il mondo e perché il 
ricordo della rivoluzione del 1979, e del ruolo che vi svolse l’Occidente, è 
ancora vivo tra gli sfruttati iraniani.
Le potenze occidentali sognano di ristabilire l’ordine imperialista a Teheran 
senza un diretto intervento militare, che avrebbe rischiose complicazioni. 
Sperano che Teheran, messa alle strette dalle sanzioni, dall’attizzamento dei 
secessionismi regionali nel nord e nel sud del paese e da altri ricatti, si 
pieghi ad un compromesso a loro favorevole. Solleticando l’orgoglio persiano 
contro il circostante mondo arabo, sono disposte a riconoscere un qualche ruolo 
allo stato iraniano nell’area in cambio della consegna del movimento degli 
Hezbollah e di Hamas al piombo imperialista e dell’assunzione del ruolo di 
gendarme (un tempo svolto dallo scià) verso il traballante mondo arabo. Contano 
così di stabilizzare il Medio Oriente offrendo la loro copertura alla borghesia 
iraniana per mettere in riga il proletariato iraniano, spingere in un angolo la 
Russia e accerchiare la Cina, penalizzandola nei suoi rifornimenti di petrolio e 
nella sua proiezione verso lo scrigno di materie prime africano. 
L’alternativa a questa soluzione “pacifica” è quella di uno scontro militare 
colossale. Nel quale l’Occidente sta mettendo in conto l’uso dell’arma nucleare 
come unico deterrente per terrorizzare l’ira delle popolazioni dell’Iran e del 
mondo islamico. Nell’uno come nell’altro caso, un’eventuale risottomissione 
dell’Iran all’Occidente riserverebbe ai lavoratori di tutto il mondo un’amara 
“novità”: lo schiacciamento della resistenza di decine di milioni di lavoratori 
al dominio totale della sferza del capitale mondializzato, ed un’accresciuta 
concorrenza tra lavoratori sul mercato del lavoro mondializzato.
Né Rafsanjani, né Ahmadinejad: i lavoratori possono contare 
solo su sé stessi.
La lotta dei lavoratori iraniani contro la morsa che si sta chiudendo sul loro 
paese non può contare sulla sponda della borghesia dell’Iran. Non perché essa 
sia asservita all’Occidente. Non lo è né l’una - i capitalisti rappresentati da 
Rafsajani e da Khatami, amanti della pace sociale interna e di quella con 
l’imperialismo - né l’altra - la direzione dell’apparato militare e alcune 
fondazioni, grandi imprese iraniane con attività in molti settori e centinaia di 
migliaia di dipendenti - delle frazioni in cui è diviso l’establishment 
iraniano. 
Nessuna di queste due frazioni vuole compradorizzarsi. Entrambe vogliono portare 
avanti lo sviluppo capitalistico in corso. C’è chi ritiene conveniente farlo 
sulla base del patteggiamento con l’Occidente, soprattutto perché si vedrebbe 
garantito di fronte al pericolo sociale interno. Ma con quale contropartita sul 
piano delle proprie tasche e del proprio potere nell’arena capitalistica 
mondiale? In un mercato mondiale in cui infuria lo scontro rivelato dalla crisi 
dei subprime, è forse possibile entrarvi alla “pari” con i “grandi briganti” 
senza esservi ridotti alla dimensione di pidocchi? C’è chi, invece, l’ala 
populista-militarista della classe dirigente iraniana, sta prendendo atto che 
all’Iran una simile contrattazione non lascerebbe granché e, edotta dalla 
lezione jugoslava e irachena, si sta organizzando per resistere alla pressione 
esterna proiettando contro il nemico imperialista la carica eversiva del fronte 
interno, e così mantenerne il controllo. Come fece Khomeini negli anni ottanta. 
Il suo progetto nucleare è un tassello di questa politica.
I lavoratori iraniani hanno interesse ad ingaggiare lo scontro che 
l’imperialismo ha lanciato sulla loro testa. Ma non possono farlo appoggiando 
l’opzione Ahmadinejad perché la strada indicata da Ahmedinejad si arresterebbe 
davanti all’unica prospettiva in grado di affrontare con efficacia lo scontro 
con l’imperialismo: l’armamento popolare, il controllo popolare della produzione 
e della vita sociale interna, l’appello agli sfruttati dell’area circostante al 
di sopra delle divisioni nazionali, religiose, statuali che ne frantumano al 
momento le fila. Vi si oppone già oggi perché una simile prospettiva nuocerebbe 
terribilmente agli stessi interessi iraniani, dell’Iran come nazione borghese, 
in quanto metterebbe in discussione l’intero ordine capitalistico nell’area. Una 
previsione dettata dal pregiudizio la nostra? Nient’affatto. L’esperienza 
passata della lotta all’imperialismo indica costantemente un comportamento 
vigliacco delle borghesie nazionali dei paesi oppressi o controllati. Ne abbiamo 
avuto una prova anche con una borghesia nazionale, come quella rappresentata da 
Saddam Hussein, che ha cercato fino all’ultimo di tener testa agli Usa e all’Ue.
La stessa politica interna di Ahmadinejad parla in questo senso. Aveva promesso 
di “distribuire le entrate del petrolio sulle tavole di tutti gli iraniani”. 
Cosa è successo in realtà? Risponde il segretario della sezione del “consiglio 
islamico del lavoro” di Eslamshahr, sobborgo operaio alle porte di Teheran: 
“Quanto a distribuire, il governo di Ahamdinejad ha distribuito. Dai pacchi di 
cibo alle gratifiche, ai sussidi per le giovani coppie che devono trovare casa… 
Ma questa è [solo] spesa assistenziale. E non ha impedito che nel frattempo 
l’economia sia andata a rotoli” (il manifesto, 12 marzo).
Per quanto, poi, il presidente iraniano si appelli ai fratelli del mondo 
arabo-islamico, contribuisce a mantenere le divisioni e le diffidenze tra i 
lavoratori persiani e quelli arabi e di altre nazionalità, come attesta il suo 
schieramento in Iraq pro-al Maliki. Contro l’accerchiamento occidentale, 
Ahmadinejad afferma che il popolo e i lavoratori iraniani possono contare sulla 
protezione internazionale derivante dalla collaborazione economica con la Cina e 
dalla alleanza con la Russia (di recente suggellata con la visita di Putin a 
Teheran). Ma anche qui siamo in presenza di una palla al piede, non di un 
salvagente.
Il sostegno della Russia e della Cina all’Iran è, infatti, legato a specifici 
interessi capitalistici e, proprio per questo, non è disposto ad alcun sostegno 
alla lotta degli sfruttati iraniani contro l’imperialismo. Basti considerare il 
consenso di Mosca e Pechino alle tre risoluzioni dell’Onu (l’ultima il 3 marzo 
2008), che hanno varato le sanzioni contro l’Iran. La Russia e la Cina vedono 
come il fumo negli occhi il pressing occidentale su Teheran, ma sono ancor più 
determinate a non permettere che si metta in moto il mondo degli sfruttati 
mediorientali, che anche per Mosca e Pechino deve accettare il destino 
riservatogli dalla divisione internazionale del lavoro così da garantire la 
prosperità dei profitti delle imprese russe e cinesi. Tanto per dire: 
recentemente la Sinopec e altre imprese cinesi sono entrate in contrasto con 
l’Iran perché ritengono troppo onerose le condizioni chieste da Teheran nei 
contratti buy back in corso di definizione. Gli alleati dei lavoratori stanno da 
tutt’altra parte: non nei governi della Russia e della Cina, ma tra i lavoratori 
russi e cinesi, non nei presunti governi europei “amici”, come quello italiano, 
o in una futura amministrazione democratica statunitense, ma tra i lavoratori 
europei e statunitensi, ridestati a sé stessi!
Note
(1) Di cui è parte lo sforzo per dotarsi 
delle centrali nucleari.
(2) La Cina importa dall’Iran il 13% del suo fabbisogno di petrolio.
(3) L’idea era già venuta in mente a Saddam Hussein agli inizi del nuovo 
millennio. Sappiamo come è andata a finire. Si veda P. C. Conti e E. Fazi, 
Euroil. La borsa iraniana del petrolio e il declino dell’impero americano, Fazi, 
Roma, 2007.
(4) Si veda l’articolo “L’Iran tra malessere sociale e tensioni politiche (sotto 
la vigilanza armata dell’imperialismo)” pubblicato sul n. 39 (giugno-luglio 
1996) del che fare.(5) Il 65% della popolazione ha meno di 30 anni.
(6) Secondo l’Un World Drug Report del 2005, in Iran ci sono 4 milioni di 
consumatori di oppiacei, soprattutto di eroina. Un sondaggio condotto dal 
governo iraniano nel 2005 ha mostrato che l’80% degli intervistati collega la 
diffusione delle droghe all’impennata della disoccupazione.
(7) I pozzi di petrolio attivi in Iran richiedono, ad esempio, un’operazione, 
l’iniezione di gas per prelevare il liquido rimasto all’interno del giacimento, 
per la quale sono necessarie tecnologie in mano alle multinazionali Usa e 
occidentali. Si veda M. Paolini, Il meccano di Ahmadinejad su Limes n. 5 del 
2006.
(8) Negli ultimi anni la Cina ha firmato con l’Iran accordi per lo sfruttamento 
di alcuni giacimenti di gas e di petrolio, per l’ammodernamento delle 
infrastrutture telefoniche e per la costruzione di uno stabilimento 
automobilistico nell’Iran settentrionale. Con la Russia Teheran ha siglato 
accordi per la fornitura di aerei militari e sistemi antimissilistici. Gli 
scambi prevedono anche investimenti della Tupolev nell’industria aeronautica 
iraniana. Si veda “La Russia, la Cina e l’Iran: perché non sarà un’alleanza” in 
Aspenia, n. 37 del 2007.
(9) Si veda A. Malm e S. Esmailan, Iran on the brink. Rising workers & threats 
of war, Pluto, London, 2007.
(10) V. l’articolo di M. Forti “Iran, il voto disincantato della città dei 
martiri” pubblicato su il manifesto del 12 marzo 2008 .
Dal Che Fare n.69 aprile maggio 2008
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA