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Dossier "Guerra"

Il nostro antimperialismo

L'aggressione imperialista alla Libia (con proiezioni, neppur tanto nascoste, verso la Siria e il Medio-Oriente in genere, già campo di battaglia su cui l'imperialismo opera), così come le reiterate minacce al Nicaragua rivoluzionario, per il momento concretizzatesi nell'azione di "contras" al soldo USA, pongono con drammatica urgenza il problema di una lotta intransigente all'imperialismo.

Come lottare contro l'imperialismo e con quali forze di classe qui nelle metropoli e là nei territori da esso aggrediti?

In primo luogo occorre stabilire se vi è o no aggressione imperialista, e se questa mira o no a postazioni di classe antagoniste, dalla Libia al Nicaragua.

Vi è chi, nel campo si pretende rivoluzionario, riduce l'aggressione USA alla Libia ad una sorta di regolamento di conti col singolo personaggio Gheddafi (isolando il "personaggio" dalle forze sociali che egli rappresenta, certamente a suo modo, come leader di un movimento antimperialista nazional-borghese) o ad un puro scontro inter-imperialista che - chissà per quale misterioso caso - avrebbe trovato in Libia il suo campo di azione. E c'è anche chi, dietro a queste "interpretazioni", ostenta le proprie doti di "super-rivoluzionario" intransigente, che "non ha nulla a che fare" con il regime libico o sandinista, borghese come quello di Reagan, Gorbacev o Craxi ed egualmente da respingere ed abbattere in nome della "pura" rivoluzione internazionale del proletariato.

Dietro l'immagine del "super-rivoluzionario" si nasconde la realtà del socialsciovinista, cosciente o meno poco importa, che semplicemente "dimentica" i fattori economici, sociali e politici che concretamente entrano nel gioco della rivoluzione internazionale. Porre la questione rivoluzionaria sotto l'aspetto di una indifferentisticamente eguale contrapposizione ai regimi tanto di Reagan che di Gheddafi o dei sandinisti equivale a consegnare all'imperialismo tanto la causa della rivoluzione delle masse arabe o centro-americane, quanto la "nostra" causa, di proletari delle metropoli. Non si tratta solo di "errori" e diffamazioni, ma di concrete pugnalate alla schiena della rivoluzione (come quando sentiamo certi "super-rivoluzionari" parlare della lotta dei comunisti rivoluzionari kurdi quale lotta "interimperialista").

Non c'è da stupirsi se, di fronte a posizioni del genere, trovano spazio le contro-posizioni opportuniste alla DP o alla "trotzkista" che sollevano la bandiera della lotta antimperialista per dire al proletariato metropolitano: "Appoggia la lotta delle borghesie nazionali oppresse, badando bene a non muoverti troppo contro l'imperialismo di casa tua", ed alle masse lavoratrici dei paesi oppressi: "Mettetevi dietro alle vostre borghesie nazionali, badando bene di non disturbare la lotta che esse, ed esse solo, possono condurre". Questo opportunismo è marcio, è le mille miglia al di sotto anche del menscevismo classico; ma esso si alimenta delle infamie del "purismo" rivoluzionario, che, per non "compromettersi", diserta il reale campo di battaglia dell'antimperialismo e della rivoluzione internazionale.

Nessuno ci darà lezione sulla necessità di rompere con questo opportunismo. Ma noi, convinti più di chiunque altro di doverlo contrastare e battere, pensiamo che ciò sia possibile solo strappando ad esso le bandiere reali per le quali esso dichiara di voler lottare.

A che cosa ha mirato e mira l'imperialismo con l'aggressione alla Libia o al Nicaragua?

Semplicemente a "normalizzare" le relazioni all'interno del blocco occidentale, richiamando all'ordine partners troppo indisciplinati ed in vena di avventure indipendenti intollerabili per esso? Certamente anche questo. Ma una tale operazione "normalizzatrice" ha evidenti radici nel sommovimento delle masse oppresse dall'imperialismo, nel pericolo che esso rappresenta per il comune campo delle potenze imperialiste, ed è a questa stregua che gli USA possono esercitare il loro ricatto verso gli alleati: lo vedete?, è un mondo inquieto che si solleva, contro di noi - ora - in quanto capocordata dei sistema imperialista, ma anche - in prospettiva - contro di voi, che di questo sistema siete parte integrante ed... approfittante; questo sollevamento va schiacciato, pena la messa in crisi non solo dei nostri interessi USA, ma degli interessi globali dell'azienda imperialista di cui voi, democratici partners europei, siete buoni azionisti.

La rivoluzione in Nicaragua, rivoluzione nazional-borghese senza alcun dubbio, ma proprio per questo pericolosa per l'imperialismo, non è un "affare interno" del Nicaragua, ma si proietta su tutta una vasta area latino-americana (con quali contraccolpi sulla cittadella USA è facile immaginare). L'accanimento contro di essa non conosce soste, per quanto i dirigenti sandinisti si mostrino disposti ad ogni tipo di transazione, interna e internazionale, con la museruola imposta al movimento delle classi lavoratrici nicaraguensi nello stesso momento in cui si riaprono le porte alla borghesia locale compromessa con l'imperialismo. In questo più marxista di certi pretesti marxisti, Reagan vede bene come la rivoluzione sandinista non lasci spazio a mediazione, ma abbia dinanzi a sé solo due strade: o il ritorno alla "normalizzazione" precedente, con la reimposizione delle vecchie classi dominanti in funzione di cinghia di trasmissione degli interessi dominanti USA, o la sua prosecuzione "sino in fondo", inconcepibile nel quadro di una rivoluzione nazional-borghese locale e innestantesi nel processo di "rivoluzione in permanenza" (alla Marx) su scala internazionale.

Il regime di Gheddafi in Libia (che certamente, per ragioni storiche strutturali, non ha percorso, né lo poteva, la strada del sandinismo, di un'ampia mobilitazione di massa) è egualmente pericoloso. Il pericolo non sta né in Gheddafi né entro i ristretti confini della Libia. Sta nel fatto che la "rivoluzione verde", per quanto condotta in Libia da un pugno di strati sociali superiori, rappresenta solo la punta dell'iceberg di una più larga urgenza rivoluzionaria di un'intera fascia del mondo arabo, dal Mediterraneo africano al Medio-Oriente. Nonostante Gheddafi, si potrà dire, nonostante i suoi infiniti traccheggiamenti e tutti i limiti intrinseci ad una "rivoluzione" fatta in nome primo del "proprio" paese, con tutto quello che ciò comporta e che abbiamo senza mezzi termini denunciato nell'inserto del precedente numero del nostro giornale.

E’ che un problema di rivoluzione libica si fa tanto più urgente quanto più non può obiettivamente restringersi entro la cornice disegnatale da un Gheddafi e va, quindi, portata fino infondo, al di là e contro il colonnello rivoluzionario nazional-borghese.

Lotta rivoluzionaria contro l'imperialismo

Di che si tratta? Essenzialmente di superare il separatismo arabo, di estendere il senso di unità di interessi antimperialisti del "mondo arabo", di farne un'arma di battaglia non di governi e stati coalizzati (che, non a caso, rappresentano il soggetto inverso di decoalizzazione), ma di "popoli" e cioè di classi sociali doppiamente sfruttate: dalla dominazione imperialista e dalle forze al potere all'interno dei propri paesi "sovrani", che persino quando - effettivamente costituiscono l'espressione di stati nazionali indipendenti in senso proprio sono spinte a contrattare, forzatamente al ribasso, con l'imperialismo, sulle spalle delle masse lavoratrici (secondo un ben noto copione di involuzione dei processo di liberazione nazionale socialmente bloccata). E non è il caso di soffermarsi sulle conseguenze che una tale lotta potrebbe scatenare col sovvertimento - finalmente! e sia come sia - dei bastioni semifeudali ed ultra-reazionari, Arabia Saudita capintesta. Traversando, con un processo rivoluzionario di area, paesi già relativamente sviluppati in senso borghese, come l'Egitto, e paesi ultra-arretrati, la riscossa delle masse arabe non porterebbe ad una ricomposizione del separatismo arabo (le cui cause storiche sono profonde e di lunga data): essa proietterebbe sulla scena storica masse sterminate di sfruttati in una guerra sociale ad immediate conseguenze sulle metropoli, con una azione di rimando reciproco tale da riavvicinare i tempi di una "nuova Bakù" e del suo presupposto primo, una nuova Internazionale Comunista.

C'è chi si oppone, a parte l'accusa di "irrealismo" riservata a tale prospettiva (ardentemente sentita dalle masse popolari arabe), che appoggiarsi ad essa potrebbe aprire la strada alla cauzione di riedizioni allargate del khomeinismo.

Curiosa obiezione! A meno di ridurre il fenomeno del risveglio islamico ad un fatto che non ha relazione con le basi storico-politiche ed economico-sociali, non dimostra proprio il propagarsi dell'integralismo su tutta l'area che esiste un problema obiettivo di unificazione degli interessi e delle lotte dei mondo arabo? Certo, quella è la soluzione reazionaria del problema. Ma chi favorisce una tale soluzione? Da un lato, come si è visto in Iran, l'imperialismo con le sue operazioni di isolamento dei focolai di crisi e le sue manovre di appoggio alla reazione khomeinista contro le classi sfruttate all'interno (gli interessi imperialisti hanno mostrato di saper ben distinguere tra la priorità di contrastare il risveglio di classe dalla seconda istanza, di levata di mezzo dello scomodo Khomeini); dall'altro lato la favoriscono anche quelle forze che, per indifferentismo organico o cecità causale, non vedono gli scenario della guerra sociale in atto.

Sollevare la bandiera della lotta antimperialista (del mondo arabo) "sino in fondo" significa concretamente preparare la fine dei regimi arabi, tanto reazionari quanto nazional-borghesi "progressisti". Chi resta incantato dal fatto che attualmente sono questi regimi a dominare la scena per ritrarsi dall'unica lotta in grado di mutare i termini dello scontro e dei rapporti di forza, rende involontariamente all'imperialismo ed alle classi dominanti arabe il miglior servizio possibile ed immaginabile.

Noi non possiamo concretamente dare delle "indicazioni" alle masse lavoratrici dei paesi in lotta contro l'imperialismo, se non quella di principio, dall'esterno delle condizioni in cui la lotta si svolge in loco, della piena ed assoluta autonomia del movimento di classe e dei suo partito. Una tale indicazione, comunque, varrebbe ben poco ed anzi si tradurrebbe in un ulteriore fattore negativo, quando prescindesse da considerazioni "leniniste", lasciatecelo dire!, sui termini di acquisizione di questa indipendenza: o essa poggia sulla partecipazione alla lotta antimperialista "sino in fondo" (con quel che ne consegue nei rapporti tra le classi all'interno) o essa non esisterà mai, se non, forse, nella testa di qualche intellettuale indigeno conquistato dall'indifferentismo occidentale all’ostilità al movimento reale di liberazione sociale.

L'idea che si debba chiamare il popolo libico o nicaraguegno al "disfattismo rivoluzionario" non è irrealistica (ci sono anche situazioni in cui i marxisti devono essere irrealistici!), ma semplicemente infame. Le masse sfruttate aggredite dall'imperialismo prenderanno spontaneamente le armi: dipenderà dalla decisione con cui sapranno condurre la loro guerra, chiamando a raccolta le proprie forze, dandosi chiari metodi ed obiettivi economico-sociali e politici, la possibilità di non farsi inquadrare, in nessun senso, dalle forze dei "loro" regimi, di scavalcarli e sconfiggerli nel corso della guerra antimperialista e per il buon esito di questa.

La mobilitazione popolare - contro l'affidamento delle sorti militari agli eserciti regolari -, la rivendicazione del controllo sulle misure economiche - contro il rafforzamento del centralismo dei poteri nelle mani delle classi dirigenti locali costituiranno le leve di questo processo rivoluzionario, destinato a non fermarsi alla soglia di una guerra di "liberazione" irrisolvibili nel quadro delle attuali sistemazioni di potere.

Nelle metropoli: sostegno incondizionato

Ciò posto, possiamo interrogarci sul nostro ruolo qui nelle metropoli, dove, bene o male, siamo presenti e attivi.

Ci sta benissimo il riconoscimento che il compito primo sta nel combattere il nemico di casa nostra come nemico principale. Tuttavia, anche su questo punto vanno fatte alcune chiarificazioni. Essere coerenti su questo punto significa sostenere fino in fondo il diritto dei popoli aggrediti all'autodecisione indipendentemente dalla strada che essa potrà prendere. Anche quella di un Gheddafi o di un governo sandinista. La sacrosanta estraneità a questi regimi non dovrà in alcun modo confondersi con una sorta di sospensione o condizionamento del nostro appoggio alla lotta delle masse aggredite che sono in causa. Significa difendere questo diritto nulla concedendo ai "distinguo" per cui ci si sente in dovere di spiegare che si, forse, un Gheddafi è un pessimo arnese e che sì, forse, anche lui "ci minaccia". No, la minaccia viene da un unico centro, ed è quello imperialista, USA ed italiano. Viene a noi, proletariato italiano allo stesso tempo in cui viene al popolo arabo (o nicaraguegno e via dicendo, la lista è lunga...). Significa, ad esempio, indirizzare la collera degli abitanti di Lampedusa dall'obiettivo antilibico su cui la si vorrebbe far convergere all'obiettivo netto ed esclusivo contro le manovre dell'imperialismo nostrano e... super-nostrano.

E tutto questo non equivale e "sospendere" la lotta contro i regimi nazional-borghesi, come ci si potrebbe obiettare, ma prepararne invece le migliori condizioni, perché solo a misura che noi, proletari delle metropoli, nulla concederemo alla demagogia sciovinista spianeremo la strada all'insorgenza sociale delle masse dei paesi aggrediti.

E c'è chi ha paura di lanciare la parola d'ordine "Giù le mani dalla Libia"? C’è chi oserebbe pretendere che non lo si possa fare se prima la Libia non si libera di Gheddafi o se addirittura non si mette sulla strada della rivoluzione socialista? Aspettatevi pure tale precondizione per fare del "buon" antimperialismo! Sarà la migliore precondizione perché ciò non si dia né oggi né mai...

Questo lo diciamo non solo rispetto ad "altri", ma anche rispetto a nostre posizioni titubanti e insufficienti che, di fatto, preoccupate di non affidare le sorti della lotta delle masse arabe a Gheddafi, per distanziarsi da questo finivano col distanziarsi dalle masse stesse.

Sostegno incondizionato ai paesi aggrediti dall'imperialismo, ben sapendo che in questi paesi ci sono delle classi messe in moto vorticoso dall'insieme delle contraddizioni capitalistiche che si traducono sia nella spoliazione economica delle ricchezze nazionali e nel duplice sfruttamento della ricchezza prima di essi - la forza/lavoro - sia nella guerra aperta. Sostegno incondizionato, quale che sia il regime provvisoriamente al potere laggiù. I socialisti intransigenti dell'Italia fine '800 non ebbero paura di gridare in faccia agli esaltatori delle "eroiche" azioni di Adua: "Viva Menelik". Non perché scegliessero Menelik, ma perché sceglievano di rompere senza esitazioni coi proprio imperialismo e di dare con ciò l'unico serio appoggio possibili alla lotta di emancipazione dei "colorati" sottomessi al regime feudale di Menelik. Sostegno incondizionato: questa è la parola d'ordine, non casuale, non retorica, e meno che mai opportunistica, lanciata dall'Internazionale Comunista.

Cambiate le situazioni (nel senso che lo scontro imperialismo - paesi oppressi e dominati è andato da allora sempre più acutizzandosi), questa resta la parola d'ordine che presiede alla nostra battaglia antimperialista.


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