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Dalla "ripresa" verso la guerra

I più ottimisti parlavano ormai di uscita dai bui anni della crisi, di inversione di tutte le tendenze al catastrofismo.

Una nuova alba di prosperità, di benessere, dopo una lunga notte di recessioni, scontri di classe e scontri nella borghesia mondiale. Il calo dell'inflazione, il crollo dei prezzo del petrolio, l'aumento dei profitti annunciato a catena da molte imprese industriali, di servizi, finanziarie, ecc., la febbre rialzista di tutte le principali Borse, via via che consolidavano la loro realtà, spingevano economisti e governanti, padroni e pennivendoli della stampa grande e piccola, ad annunciare al mondo la lieta novella: il nuovo risorgimento del dio-capitale sottrarrà l'umanità dalla misera esistenza prodotta dalla crisi.

Vero è che argomentatori più "arguti" e lungimiranti (o semplicemente timorosi che il proletariato, credendo troppo alle nuove sirene, presenti il conto di tutti i sacrifici fatti) si sono precipitati a raffreddare l'ebbrezza, ad aggiungere acqua nel vino ubriacante della "ripresa", ricordando i tanti problemi, più o meno "strutturali", non ancora risolti, che gravano come minaccia perenne sul "consolidamento" degli elementi positivi dell'economia. Ma, anche essi, finalmente orgogliosi di vedere il loro caro sistema capitalista "reagire", non piegarsi fatalisticamente ad una lunga e paralizzante agonia.

Ma, sulla fiducia e sull'orgoglio, sinistri sono piombati i bagliori dei bombardieri americani su Tripoli e Bengasi, la stretta di vite americana nei rapporti USA-Europa-Giappone, il dileguarsi dello "spirito di Ginevra".

La "ripresa" non e portatrice ai pace e distensione. Al contrario da essa si scatenano tensioni più forti e prorompono, ancor più minacciosi e reali, i "venti di guerra".

Naturalmente molti (anche nel campo "rivoluzionario") giurano che tra le due cose non c'è alcun rapporto, che l'una è la conferma delle progressive sorti del capitale, l'altra lo spiacevole manifestarsi della solita arroganza imperiale, forse solo un tantino più arrogante per le abbondanti dosi di silicone iniettate nei muscoli americani. Qualcuno rispolverando il malsopito "sciovinismo metropolitano", vituperato e messo alla gogna ad ogni passo da Lenin - ci aggiunge, di più, l'arroganza in sedicesimo del "dittatore" Gheddafi e archivia il tutto come conflitto tra imperialisti, tornando amletico a chiedersi se e come questa ripresa sia la storica uscita da un ciclo di crisi.

Il legame tra le due cose c'è, ed è fenomenale, mostra nel modo più chiaro come il capitalismo sia avviluppato in modo irresolubile nelle spirali della sua crisi storica, come in fondo ad essa non abbia altra possibilità che buttarsi anima e corpo in un conflitto mondiale dalle proporzioni immani, tanto più quanto immani sono divenute le stesse forze da esso evocate.

Da marxisti inguaribili e coerenti non ci limitiamo soltanto a cercare nella realtà le conferme alla nostra teoria, ma a individuarne e seguirne le strade che concretamente percorre, per indicare a noi stessi e al proletariato interno i compiti adeguati della lotta.

Se non ci si lascia abbagliare dalla propaganda, sciorinata e piene mani dai mass-media, e guardiamo un po' più a fondo a ciò che si è "ripreso", vedremo, innanzitutto, che ad essersi ripresi sono soprattutto i profitti, o meglio i profitti industriali, dato che quelli finanziari non avevano mai smesso di crescere (nella massa e non in tutte le singole aziende di credito, fallite anzi a decine negli ultimi anni, a conferma di come la tendenza alla concentrazione sia esasperata dalla crisi). L'insieme della produzione industriale è cresciuta rispetto agli ultimi anni, raggiungendo, solo ora e a malapena, gli indici dell'80.

Il mondo non va verso un aumento generale della produzione e del commercio delle merci, anzi alcuni tradizionali acquirenti - quei paesi che con l'aumento della rendita petrolifera tra il '73 e l'85 erano divenuti mercati relativamente capaci di assorbire una quota significativa della sovrapproduzione occidentale - vedono letteralmente crollare le loro possibilità di acquisto. Non v'è dubbio - notiamo di passaggio - che, costretti a selezionare gli acquisti, lo faranno a favore di quelli bellici, sia per contenere più che possibili rivolte interne, sia per affrontare l'inevitabile acuirsi di tensioni regionali.

Ripresa dei profitti, quindi non di tutti i settori (quello petrolifero, ad esempio, celebra messe funebri anche in occidente), né di tutte le imprese. Gli anni della recessione, gli anni della concorrenza senza barriere per resistere sul mercato hanno lasciato sul campo centinaia di aziende "decotte", vittime della "selezione naturale" imposta dai dislivelli di produttività.

Quelle che hanno superato questa prova del fuoco lo hanno fatto grazie ad un aumento incredibile dello sfruttamento operaio, aiutate dalle politiche statali che, liberiste o ancora in qualche modo legate allo "stato assistenziale", hanno tutte favorite l'indebolimento economico e politico della classe e convogliato, in modo selezionato, aiuti diretti o indiretti alle ristrutturazioni aziendali.

Ripresa solo dei profitti, solo di alcuni settori, solo di alcune aziende, ma anche ripresa solo di alcuni paesi. I paesi arretrati ne rimangono decisamente fuori (sono anzi le vittime privilegiate sull’altare del "risorgimento" capitalista) e, con essi, anche quel gruppo ristretto di "paesi emergenti" che hanno costruito le loro fortune inserendosi nelle maglie della bassa produttività "occidentale" e che sono oggi rimessi ai margini del mercato grazie proprio ad un recupero di quella produttività.

Ma differenze notevoli vi sono anche tra i grandi paesi imperialisti, innanzitutto tra gli USA, da un lato, e i paesi europei e i1 Giappone, dall'altro. Cerchiamo di approfondire alcuni aspetti di queste differenze (e delle conseguenti politiche) all'interno di questo numero. Ci basta qui ricordare come gli USA, principale volano della ripresa, debbano, oggi, intimare ai recalcitranti Giappone e Germania di "allargare i consumi interni" e contemporaneamente, accelerare la spinta alla guerra. Una accelerazione dovuta sia alla necessità di ristabilire un più potente dominio imperialistico americano (e, in subordine, "occidentale") sul mondo, sia alla necessità di spostare il livello della concorrenza (in preparazione della guerra) sul piano della produzione bellica moderna.

Il destino verso cui il mondo capitalistico si avvia è quello di un fenomenale accrescimento a tutti i livelli della concorrenza e dello scontro. Il crollo dell'inflazione, agognato da tutti i reggicoda della borghesia, rende improvvisamente "trasparente" la concorrenza delle merci. Le imprese non potranno più nascondere dietro essa le difficoltà produttive, i "gap" tecnologici o, più in generale, di "costo del prodotto". Tra gli stessi "sopravvissuti" la lotta diviene più cruenta e sempre più decisa dalle quantità di capitale che potranno essere investite in nuove incessanti ristrutturazioni. Aumento della concorrenza sul piano economico e suo trascrescere sul piano militare mai come ora vanno a braccetto, non necessariamente - come una superficiale trasposizione dei due elementi potrebbe far credere - con una collocazione meccanicamente predeterminata dei contendenti ovvero i nemici economici che divengono anche aperti nemici militari). Le borghesie sono entrate in una fase in cui la contrattazione e lo scontro al loro interno verte su come rispartire l’intero mercato mondiale, con quali schieramenti, con quali nemici, con quali strategie.

Non per una strana ostinazione ricordiamo che la ripresa riguarda solo i profitti, ma per mostrare come essa non prepari alcun nuovo e duraturo "boom", in cui il proletariato possa tornare a credere, confortato da materiali verifiche, che sviluppo del capitalismo e suoi miglioramenti economici e politici marcino di pari passo. Non ha avuto finora, né si delineano, "concessioni" sostanziali (confrontare le risposte padronali alle pur timidissime richieste contrattuali sindacali), anzi ad un rallentamento (in Italia: restituzione dei decimali, rimborsi del fiscal-drag momentanei e che non compensano i precedenti prelievi) dall'attacco sul piano salariale, si è già associato un attacco a fondo a tutte le sue rigidità, interne alla fabbrica o sul mercato del lavoro, sia per ottenere un indebolimento complessivo della sua forza, sia per adeguare le aziende al nuovo livello dello scontro sulla competitività, sia per renderle "elastiche" agli alti e bassi dell'economia.

La borghesia fa il massimo sforzo per ottenere un attivo compattamento del proletariato nella guerra e nella sua preparazione, ma le sue stesse contraddizioni economiche e politiche buttano benzina sullo scontro di classe "interno" ed "esterno", che, divampando, potrebbero sconvolgere, fino a sovvertire, i suoi - coscienti o meno - piani.

Per questo tutte le politiche borghesi cercano, o sperano, di attraversare la fase di preparazione alla guerra evitando l'entrata in scena della "complicazione proletaria" e delle masse dei paesi oppressi. L'uno cercano di irretire con i fili di un illusorio - e sempre futuro! - miglioramento delle sue condizioni, le altre di mettere a tacere con cambiamenti "soft" di regimi dittatoriali traballanti, o di terrorizzare con l'aperto intervento militare. Ad entrambi si preparano ad assestare, con la guerra e nella guerra, una severa lezione che ne frustri per lungo tempo qualunque "velleità" rivoluzionaria.

Lavoriamo, allora, con l'impegno più coerente in qualunque manifestazione - sia pure contraddittoria e limitata - di ripresa della lotta e dell'autonomia proletaria per rafforzarla ed estenderla sia sul piano delle rivendicazioni immediate che su quello, più apertamente politico, di opposizione alla guerra e di sostegno attivo alla lotta delle masse sfruttate e oppresse dall'imperialismo, con la consapevolezza che solo in questo modo il proletariato, e la sua avanguardia, possono prepararsi, dal canto loro, allo scontro attuale e futuro.


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