La trattativa sugli euromissili

Un passo verso il "disarmo" o un passaggio ulteriore del corso verso la guerra imperialista?


Indice


La trattativa di Ginevra tra USA e URSS sui missili a media gittata installati in Europa sembra essere entrata in dirittura di arrivo. Siamo alle rispettive "bozze d'accordo", e già l'una e l'altra parte ricorrono alla qualifica di "storico" per un eventuale accordo che, "per la prima volta", avrebbe l'effetto di ridurre le armi nucleari in circolazione. E davvero possibile un'intesa oppure no? E quali conseguenze essa avrebbe sulla tendenza verso la guerra e sul riarmo in atto, nonché nei rapporti tra le classi? Quali sono e come debbono essere difesi gli interessi del movimento proletario di fronte a questo apparente processo di "distensione"? Cerchiamo di dare una prima risposta a questi interrogativi.

Le ragioni dell'offensiva di Gorbaciov

Noti può esserci dubbio sul fatto che sia stata e sia l'URSS, con la leadership gorbacioviana, a premere con grande determinazione in direzione di un'intesa, per la quale ha apprestato sia "nuove" proposte sugli euromissili, i missili a corto raggio, le armi chimiche, e così via, sia la cornice propagandistica generale: la prospettiva di una "completa eliminazione dell'arma nucleare entro la fine del secolo".

Alla base di questa offensiva negoziale permanente che si è concretata in successive "aperture", vi sono, in prima istanza, le stringenti necessità della "perestrojka". Come abbiamo scritto nei precedenti numeri del "Che fare", l'ulteriore sviluppo del... capitalismo in URSS esige che si passi, senza altro indugio, da una fase estensiva dell'accumulazione ad una intensiva superiore, pena veri e propri tracolli economici e sociali e la certezza di soccombere nella concorrenza sul mercato internazionale. Nonostante l'oggettiva maturità (e non da oggi) di questo passaggio, la ristrutturazione del sistema produttivo in Russia sulla linea di una maggiore produttività e di un'effettiva centralizzazione è appena ai preliminari. Per poter procedere e il prima possibile - ascendere ad un ritmo più sostenuto - essa ha un bisogno vitale che il clima internazionale, specie quello delle relazioni Est-Ovest, sia nell'immediato meno teso, così da consentire, senza aggiuntivi intralci di carattere politico, l'accesso ai capitali ed alle tecnologie occorrenti. Viceversa: se si stabilizzasse o, peggio ancora, si accentuasse il clima da scontro ravvicinato con l'"impero del male" e la parallela corsa ai nuovi sistemi d'arma cui l'amministrazione Reagan ha dato impulso, il naufragio complessivo della politica di Gorbaciov diventerebbe quanto mai probabile.

Ristrutturare vuol dire ridislocare risorse secondo priorità "tecniche" e (in ultima analisi) sociali. Ora, anche le risorse di una "superpotenza" sono limitate (ci si accorge di ciò, di questi tempi, anche a Washington!)... La questione è tutto fuorché meramente contabile. L'avvio effettivo della "perestrojka" in Russia può avvenire solo a piccoli passi, onde evitare che il bersaglio destinato di essa, il proletariato, abbia a far sentire - e forte - una propria "prematura" opposizione. Perciò gli inevitabili tagli sul versante della massa dei salari e delle condizioni di vita debbono essere, almeno in una prima fase, graduati nel tempo e opportunamente selettivi. Ragione per cui i mezzi materiali per ristrutturare non possono provenire, per ora, tutti e nella misura adeguata, dalla classe operaia. Si deve "limare" o almeno non far crescere ulteriormente altre voci di spesa. Unica alternativa: il ricorso suicida ad un catastrofico livello di debito estero.

D'altro canto, anche sotto un profilo strategico e militare in senso stretto, l'URSS ha tutto l'interesse di "prender tempo", poiché l'evoluzione naturale della crisi porta all'inasprimento di tutte le contraddizioni intra-occidentali, tra le borghesie imperialiste d'Occidente e il vastissimo campo dei popoli e delle masse lavoratrici da esse oppresse (problema che certo esiste, ma con scala ed acutezza inferiore, anche per l'URSS), nonché all’obiettivo riavvicinamento, in tutti i campi, del colosso cinese. La rottura almeno parziale del sostanziale accerchiamento politico-militare è ciò cui mirano, con sagacia, Gorbaciov e soci - e a questo obiettivo è coerente l'attuale offensiva di proposte "di pace", che non per caso contiene anche, per la prima volta dal '79, un piano di "soluzione pacifica" nel conflitto in Afghanistan. Attraverso il caso afgano, infatti, la questione-guerra comincia a pesare ed influire già direttamente all'interno dei confini russi e la direzione gorbacioviana avverte il rischio crescente della sua durata.

Ecco perché sarebbe superficiale liquidare come puramente propagandistiche le aperture negoziali di Mosca. Esse trovano tanta feroce opposizione proprio perché concedere tempo al l'URSS significa concedere forza. Né Gorbaciov né altri ricorrerebbero a quelle che Nitze ha definito "riduzioni asimmetriche" per semplice schermaglia propagandistica. Nondimeno, la propaganda stessa opera come una componente materiale nei rapporti di forza. Da Reykjavik e da Ginevra, da Vienna e perfino da Kabul, l'URSS lancia messaggi "di pace", e fa fremere di rabbia i commentatori d'oltreoceano perché ha ormai conquistato una "win-win position" al tavolo delle trattative: ossia s'è messa nelle condizioni di vincere, qualunque sia l'esito dei colloqui.

Succubi della propria visione idealistica, i cosiddetti opinion-makers vanno diffondendo l'opinione che sia l'eccezionale abilità diplomatica del singolo a consentire tutto ciò. Per noi si tratta, invece, degli ultimi (in senso storico) spiccioli di credito positivo che la Russia di oggi ha ereditato, nei confronti dei "popoli di tutto il mondo", dalla rivoluzione del '17, magari ben spesi... Intendiamo dire che non solo per la congiuntura attuale ma anche per il futuro prossimo l'URSS continuerà a rivestire, all'interno ed all'esterno, la parte di difensore della "pace" per capitalizzare a proprio vantaggio sia l'appoggio del proletariato "patrio" che quello delle immense masse oppresse di tutto il mondo. Un motivo in più per presumere che la pressione in direzione di un accordo continuerà da parte russa, specie a Ginevra.

Ma gli USA hanno interesse a un'intesa?

Anche solo due anni fa la risposta sarebbe stata seccamente negativa. Oggi, invece, è più controversa, perché alcuni nodi stanno venendo al pettine. Sicché la scena che abbiamo di fronte è quella di un furioso scontro di interessi intorno e dietro ad una ipotesi di accordo che l'amministrazione Reagan non aveva interesse a coltivare all'epoca in cui successe a Carter. La controffensiva reaganiana si prefisse, per l'appunto, di superare questo primo momento di crisi, ripristinando l'egemonia di un tempo. Oggi, di quelle promesse di riscossa, dopo i giorni del boom iper-drogato, la borghesia USA assapora l'amaro della disillusione. Gli USA sono in rotta di collisione commerciale con il Giappone e l'Europa, assaliti dal dubbio di non essere più affatto competitivi. I loro migliori "amici" nei nuovi continenti in risveglio, o h minacciano sul piano concorrenziale (Taiwan, Corea del Sud, Brasile) o li minacciano per l'esplosione dei loro debiti (Mexico, Egitto, etc.). L'Iran-contras-connection s'è abbattuta come un uragano sui già fragili castelli di chiacchiere "pacifiste" ed "antiterroriste" con cui il governo Reagan cercava di abbellire il proprio sfrenato militarismo. La forte resistenza delle masse arabe, centro-americane, sud-africane ed il riemergere di una maggiore conflittualità negli stessi States hanno fatto il resto, mettendo a nudo quanto poco solide fossero le basi materiali e politiche della riscossa reaganiana.

Deficit commerciale record, montante indebitamento con l'estero, Iran-gate pongono in luce come, anche per il mega-imperialismo USA, c'è un acuto problema di risorse e di ristrutturazione, che si intreccia con una nuova caduta di legittimazione in rapporto alla pretesa yankee di dirigere la politica mondiale. Far quadrare i conti e riportarli in attivo a tutti i livelli è, perciò, quanto mai arduo per Washington. Le apparenti o reali sinuosità di condotta del governo americano si spiegano appunto come riflesso del repentino venire a maturazione di contraddizioni e squilibri che vengono da lontano, e che la politica degli ultimi anni ha portato ad un livello esplosivo.

È in questo contesto di nuove difficoltà che si è rafforzata negli USA la tendenza a prendere in considerazione l'ipotesi di parziali intese con l'URSS in materia di armamenti nucleari, ed in primis sugli euromissili. Dal realizzarsi di una tale prospettiva l'amministrazione Reagan o quanto meno una parte di essa, si attende un insieme di vantaggi: a) l'imposizione all'URSS del principio delle "riduzioni asimmetriche"; b) lo scaricamento sull'Europa di quote crescenti delle spese belliche per la "difesa" dell'Europa stessa, e) il reperimento di nuove risorse materiali e di credito politico per portare avanti il progetto SDI, in quanto progetto "di pace", tassello del cd. piano di "riduzione a zero" del rischio di guerra nucleare; d) la possibilità di rientrare nel giro delle forniture di capitali e di tecnologie all'URSS. Infine, ma non per ultimo, un accordo "di pace" quale quello prospettato da Gorbaciov rialzerebbe la credibilità, interna ed internazionale, di uno stato che, per svolgere al meglio la funzione di primo gendarme del mondo, non può rinunciare a presentarsi, fin che lo può, in vesti di potenza "ragionevole ed aperta al dialogo". Non è un caso se Reagan e soci, pur bersaglio di molteplici attacchi poggianti sul retroterra del potentissimo complesso militare-industriale, hanno invece ricevuto un certo supporto nei "grandi commentatori" in quotidiano contatto con la cosiddetta pubblica opinione.

Naturalmente, nessuno degli oppositori di un eventuale accordo a Ginevra dubita che il "partito della trattativa" intenda trovare qualcosa di più di una momentanea e parziale intesa. Non c'è nessun Craxi americano ad accusare Ron di "nostalgia" per il compromesso storico con l'URSS. Nondimeno, i vari Kissinger, Nixon, Rogers esprimono l'allarme per le possibili conseguenze "destabilizzanti" o addirittura "devastanti" di un accordo sugli euromissili. Ciò che preoccupa questi aspiranti strateghi della guerra prossima ventura non è, evidentemente, la "sicurezza" del territorio europeo, ma il rischio che una pur parziale riduzione della presenza USA in Europa possa rafforzare le spinte, già presenti nelle borghesie europee, ad una maggiore autonomia dal protettore di un tempo, con l'esito di indebolire la coesione del blocco-Nato. Ciò che preoccupa questa compagnia di feroci militaristi è che un eventuale primo accordo di riduzione possa spingere Mosca a "rilanciare" proposte nuove anche sull'intangibile terreno dell'SDI e possa far insorgere effettive aspettative di pace nelle popolazioni. Un loro portavoce ha scritto: "Reagan sembra accettare il nocciolo del credo della sinistra antinucleare, la concezione secondo cui il pericolo per la pace è tecnologico e non politico, sta nell'esistenza delle armi nucleari e non nella natura del regime sovietico... il grave pericolo non è quello dell'accordo su Pershing e SS-2. È nel subconscio messaggio che esso è appena un primo passo e che un mondo "libero dal nucleare" è possibile e desiderabile... L'alternativa alle armi nucleari in Europa, che hanno assicurato una deterrenza a basso costo, sarà l'insicurezza dell'Europa e la sua finlandizzazione" (G. Will su "Newsweek", 25 aprile '87).

È impossibile prevedere come si concluderà il durissimo conflitto in corso che tocca interessi immensi, la cui posta in gioco è, comunque, meramente tattica, essendo certa e prioritaria per tutti i contendenti la necessità di proseguire fino alle estreme conseguenze nella contesa imperialista per il dominio sul pianeta e nella corsa alle armi. Se la posizione più incline al negoziato non parte sconfitta in partenza, è principalmente perché - macroscopiche traversie economiche a parte - sta crescendo a Washington il timore di un formidabile guadagno propagandistico della leadership gorbacioviana nel caso in cui si desse a Ginevra una rottura provocata dall’irrigidimento americano. Lo ammette lo stesso gen. Rogers, comandante in capo uscente delle forze Nato in Europa, ostile alla "opzione zero": "Noi non abbiamo convinto le popolazioni (europee) che una minaccia pende sul loro capo - la minaccia della coercizione e dell'intimidazione, dell'accomodamento e del ricatto" (russi).

L'Europa al dunque

E l'Europa, la presunta beneficiaria del presunto accordo, che fa, che dice? L'Europa non c'è. Per l'ennesima volta si divide, confermandosi per quella che è da secoli (e che sarà fino al momento in cui il proprietario non ne abolirà ad un tempo la decrepita classe dominante e le decrepite istituzioni nazionali): una "giungla di nazionalismi", obbligata ad agire di rimessa rispetto alle decisioni di USA e URSS.

Si sono formate, in sostanza, tre posizioni. Da un lato i governi inglese e francese, diffidenti nei confronti della "doppia opzione zero" proposta da Gorbaciov e soprattutto attestati sulla rigida difesa dei propri arsenali nucleari e di una Europa non denuclearizzata ("Una delle ragioni per cui abbiamo avuto in Europa 40 anni di pace - ci informa la Thatcher dai teleschermi russi - è l'esistenza dei mezzi di deterrenza nucleare" - v. "Time", 13 aprile '87). Dall'altro lato i governi di Italia, Belgio e Olanda, favorevoli, per lo meno a mezza bocca, allo smantellamento degli euromissili, e desiderosi di approfittare, a piene ganasce in questo caso, dei risvolti economici positivi che un pur fugace intermezzo di apparente "distensione" potrebbe garantire. In mezzo, paralizzato da profondi contrasti, il governo tedesco, a rappresentare di nuovo la storica nullità politica della borghesia tedesca.

L'intera vicenda, indipendentemente dalla sua conclusione, mostra che l'Europa è giunta ormai al dunque. Doppiamente sconfitta nella seconda guerra mondiale, ha potuto realizzare la propria ricostruzione sotto la doppia "tutela" (antiproletaria) di Washington e Mosca fino al punto da divenire, da protetta, creditrice e concorrente "vincente" dei propri stessi "tutori". Senonché, chiusasi definitivamente la fase della contesa inter-imperialista "pacifica", se ne è aperta un'altra caratterizzata dalla crescente importanza dei mezzi "extra-economici". Per i paesi dell'Europa occidentale, è tramontato il tempo dell'idillio atlantico, mentre si infittiscono i reciproci colpi bassi in tutti i campi.

Tra i colpi bassi la maggior parte della borghesia europea annovera l'ipotesi di accordo USA-URSS che va profilandosi a Ginevra. Il timore è quello del "decoupling", cioè della scissione tra "difesa" dell'Europa e "difesa" degli USA. La certezza è che è finita la difesa "a basso costo", pagata prevalentemente dallo "zio d'America" (il quale, a sua volta, si rivaleva comunque in modo diretto e indiretto). All'orizzonte, per la borghesia europea, nuovi oneri economici e sociali, crescenti pericoli di guerra sul "proprio" territorio, minacce interne ed esterne che si addizionano.

In ordine sparso e tremando per la paura, l'Europa prende atto che - per dirla con il gen. Rogers - è destinata ad essere il "campo di battaglia". A farle animo c'è... la Francia della "force de frappe", che si propone ed è proposta a "mère des armes", quella Francia che da circa due secoli è sistematicamente sconfitta in guerra, sul proprio territorio e in Russia, in Amman come in Algeria.

I governi europei, divisi su quasi tutto ed in concorrenza accesa tra loro, concordano su un solo punto: l'incremento della spesa bellica e la dotazione di nuovi sistemi d'arma. Avviene, perciò, l'esatto contrario di quanto auspicato dal PCI e da altri partiti riformisti. Non solo l'Europa non agisce da polo "di pace", moderatore tra le due superpotenze, ma addirittura recalcitra dinanzi alla semplice ipotesi di un accordo per la riduzione degli euromissili e, prima ancora che esso sia concluso, si predispone ad una grande corsa alle armi. E sì che già oggi "in Europa è concentrata una forza militare alla quale non possono essere paragonati, nemmeno approssimativamente, tutti gli armamenti degli eserciti europei, a partire dal tempo delle legioni romane sino alla seconda guerra mondiale, presi insieme"... (v. D. Procktor, "Il dilemma dell'Europa, 1981, p. 14). In Italia, da Agnelli a Lagorio, da Spadolini al "Popolo", è un vero plebiscito a sostegno di questa necessità. Rubbi, a nome del PCI, non se la sente di non fare l'occhiolino all'aborrito schieramento pentapartitico: "Il problema (della "possibile preponderanza militare sovietica"... !?) naturalmente esiste, come esiste quello della difesa europea. Ma non si può pensare di risolverlo con una politica di riarmo crescente in ogni campo" ("L'Unità", 11 aprile '87). Sì, dunque, all'opzione zero, ma prima di tutto l'interesse nazionale: disco verde, perciò, alla "contrattazione", se come e quando lor signori vorranno, sui "campi" del riarmo cui dare la priorità. La direzione di marcia non si discute.

E ora un nuovo balzo della spesa pubblica

Facciamo il punto. L'accordo a Ginevra sugli euromissili è possibile, non certo scontato. La tattica negoziale degli USA, e soprattutto dei "falchi tra i falchi", sarà quella di incalzare una Mosca alla ricerca di rapidi "risultati" con proposte sempre più "asimmetriche" e di legare al problema euromissili altre questioni e proposte difficilmente accettabili. Impossibile pronosticare come finirà. Tuttavia, si concluda o no un accordo a Ginevra, una cosa è sicura sin da ora: la febbre del riarmo e la peste del militarismo capitalistico sono destinate a crescere ed espandersi in Europa, con pesantissimi costi e sacrifici da subito per il proletariato, in termini materiali e di libertà.

L'esito del negoziato potrà incidere, in un senso o nell'altro, sui modi e sui tempi del corso verso una nuova guerra imperialista, ma non potrà assolutamente né bloccarlo, né - tanto meno - invertirlo.

Tale corso, infatti, non dipende - ha ragione, in questo, il columnist di "Newsweek" dalla tecnologia militare e dalla quantità di armi nucleari. Il pensiero infantile e naïf (quando lo è davvero) di un certo pacifismo scambia gli effetti con le cause, i mezzi con i proprietari dei mezzi stessi. La causa di fondo della tendenza verso una nuova guerra mondiale sta nel modo di essere e nelle contraddizioni proprie al sistema sociale capitalistico giunto alla sua fase imperialista. l'ambiente entro cui questo processo va maturando è quello di una nuova crisi generale del capitalismo.

La fase imperialista della società capitalistica è contrassegnata dal dominio dei monopoli e del capitale sia sulla produzione sociale che su un mercato che non è più né locale, né nazionale, ma mondiale. In questa epoca storica, l'ulteriore sviluppo della accumulazione di capitale dipende - oltre che dal rivoluzionamento dei mezzi di produzione e dall'inasprito sfruttamento del proletariato reso per tale via possibile dalla spartizione e rispartizione del mercato mondiale per mezzo di guerre imperialiste. Guerre di tale natura, che non sono ovviamente fatti di tutti i giorni, ma eventi ciclici, "premiano" le componenti relativamente più giovani del capitale (tra quelle più fortemente centralizzate). Sotto il loro impulso e la loro "direzione", dopo immani distruzioni, un nuovo fermento di vita si trasmette all'insieme del capitale (senescente). In queste stesse guerre la borghesia imperialista porta al suo livello massimo l'oppressione sul proletariato, lo irregimenta, lo decima, lo scaglia in un massacro fratricida e suicida, cercando di infliggergli una sconfitta di lunga durata e di assicurarsi uno stabile dominio sulla società.

E tempo perso ricercare quale persona, quale singola istituzione ha "voluto" la prima o la seconda guerra mondiale. Come è vano chiedersi chi "vuole" oggi una nuova guerra. Un paio d'anni fa un diplomatico di un paese povero dell'Africa fece, dalla tribuna dell'ONU, pressappoco il seguente discorso: "Se prendo in considerazione le posizioni dei governi e degli stati uno per uno, non riesco a trovarne alcuno, anche tra i maggiori, che sia d'accordo nel proseguire con l'attuale pazzesco livello di spesa militare. Eppure, nei fatti, tutti proseguono e questa malattia, incredibilmente, sta prendendo piede anche nei paesi più poveri del mio continente, dove si muore di fame. Come spiegare questo enigma?". L'unico modo per spiegarlo è individuare (per farle guerra) quella forza sociale, impersonale, che si impone ai singoli (governanti borghesi) ed ai singoli stati (capitalistici e imperialistici), ricchi o poveri che siano, con le proprie leggi. Il capitale, appunto, che vive e funziona secondo leggi di movimento che includono la concorrenza e la guerra.

Come includono, del resto, la stessa "pace" imperialista, una pace tipo quella che i "popoli" hanno potuto godere dal '45 in poi, con oltre sessanta guerre "locali", una "pace" fondata sullo sfruttamento del proletariato e la feroce oppressione del capitale finanziario dei paesi più potenti sulla sterminata popolazione lavoratrice dei paesi dominati.

La pace siglata a Yalta come risultato della seconda guerra mondiale, è oggettivamente logora. Perché i vincitori di allora, specie gli USA, si sono indeboliti e non possono accettare di indebolirsi ulteriormente. Perché gli sconfitti di allora, Giappone e paesi europei (Germania in testa), si sono rafforzati e sono costretti a difendere con mezzi militari questo progresso. Perché nuove frazioni nazionali della borghesia bussano alla porta del mercato mondiale, "minacciando" i vincitori e gli sconfitti di ieri. Perché il proletariato e le masse semiproletarie, incessantemente ingraditisi di numero, hanno vissuto un processo di risveglio che contrasta in modo sempre più acuto con le necessità di un sistema capitalistico in crisi.

Il logoramento oggettivo dell'assetto fissatosi nel 1945 è iniziato gradualmente già nel corso del lungo ciclo di sviluppo succedutosi alla guerra. Le prime avvisaglie e soprattutto l'approfondirsi della crisi hanno avuto l'effetto di accelerare ed inasprire tutte le contraddizioni e gli antagonismi che la società capitalistica ha dentro di sé. Da qui ha preso impulso, insieme con la tendenza alle "guerre commerciali", la tendenza verso un regolamento bellico del contenzioso inter-borghese e tra borghesia e proletariato. Di questa tendenza la corsa alle armi è solo una manifestazione ed una conseguenza, certo con effetti di ritorno a vari livelli, ma che in nessun caso possono farla scambiare per una causa di fondo del corso verso una nuova guerra imperialista. Ecco perché le trattative di Ginevra (e di Vienna), qualunque sia il loro esito, non sono in grado né di bloccare, né - tanto meno di invertire tale corso "avvicinando il disarmo". La incredibile accumulazione di armi non è affatto "senza senso": essa corrisponde, non con le proporzioni di un piano razionale - s'intende! - alle necessità della preparazione del più aspro conflitto bellico mai generato dal sistema capitalistico.

Da dove viene la minaccia e come batterla?

La minaccia di guerra non viene dalle armi in sé, come nei predicozzi pacifisti, né dalle armi nucleari, come ha preteso sostenere Gorbaciov a Reykjavik. E neanche dal "regime sovietico", come vorrebbe credessimo ogni buon servo del militarismo occidentale: se non nel senso, rovesciato, che il capitalismo russo è una minaccia per il proletariato internazionale in quanto parte (integrante) del complessivo sistema sociale, il cui perno decisivo rimane tuttora lo schieramento NATO-Giappone, a guida USA.

La minaccia di una nuova guerra imperialista viene dal capitale, dalla borghesia, dai governi, dagli stati, dalla finanza, dagli eserciti imperialisti.

Per il proletariato e le masse lavoratrici del mondo l'unica via per fermare, come è possibile, il corso ad una nuova guerra mondiale è scendere sul piede di guerra contro la borghesia, su tutti i piani, negandole quella pace sociale che è essenziale alla preparazione della guerra.

Per il proletariato italiano, il nemico n. 1 non sta a Mosca, ma a Roma, è la borghesia italiana che di nuovo si protende a "difendere" con le armi i propri interessi di sfruttamento nel Mediterraneo, in Medio-Oriente, in Africa e dovunque potrà, che si candida al ruolo di astuto gendarme regionale, tornando sui luoghi dei propri vecchi crimini colonialisti. Il nemico n. 1 è il governo imperialista con i suoi piani di riarmo, le sue provocazioni alla Libia, il suo sostegno al massacro tra Iran e Iraq, la sua complicità nei ripetuti agguati al popolo palestinese, il suo sciovinismo verso i proletari immigrati, le sue striscianti attenzioni ai Balcani, il suo patto di guerra NATO.

Al tempo stesso, l'unica possibilità per il proletariato europeo, tedesco in primo luogo, di sfuggire al tremendo destino di essere ancora una volta il bersaglio e la vittima predestinata di un nuovo massacro reazionario nel cuore del territorio europeo, sta nel rivoltarsi contro i propri governi, nel rifiutare la falsa via del riarmo sponsorizzata dalla Thatcher e da Rogers, da Khol e da Mitterand, da Spadolini e da Chirac, prendendo nelle sue mani il proprio destino, ricollegandosi alla grande tradizione della rivoluzione tedesca ed agli insegnamenti attualissimi del disfattismo rivoluzionario di Luxemburg e Liebknecht. Per il proletariato europeo il nemico n. 1 è a Bonn, a Londra, a Parigi, a Roma! È da lì, dagli stati maggiori economici, politici e militari del grande capitale che si attenta sistematicamente alla "nostra" sicurezza!

Indifferenti, quindi, alle cosiddette trattative "per il disarmo"? No, in un duplice senso. Ci rallegriamo di tutto cuore per i successi propagandistici che Gorbaciov e soci riescono a conseguire nei confronti dello schieramento imperialista d'Occidente, di cui stanno spuntando lo storico argomento: "l'Orso russo è un animale quanto mai aggressivo"; e ci rallegreremmo del pari se riuscissero a "guadagnare" un po' di tempo di cui forse non solo la Russia capitalista, ma anche il movimento proletario ha bisogno. Suoniamo l'allarme, invece, verso il Gorbaciov spacciatore principe di morfina antioperaia, che cerca di ingannarci sul fatto che la sua "pace" sia la nostra pace, che la sua via al "disarmo" sia quella "proletaria e socialista". Mentre così non è. Ha scritto un socialdemocratico tedesco: "I socialdemocratici registrano con interesse come a Mosca la "questione di classe" passi in secondo ordine rispetto ai problemi fondamentali della sopravvivenza dell'umanità, soprattutto per ciò che riguarda i problemi del disarmo ... " v. H. Timmermann su "Rinascita", 4 aprile '87). Anche noi marxisti rivoluzionari, dal lato opposto, lo registriamo "con interesse" (ma senza faciloneria): ci aiuterà a mostrare come Gorbaciov e le frazioni del riformismo e del pacifismo che lo supportano vadano diffondendo la prospettiva inconsistente, ipocrita, menzognera di arrivare ad un disarmo della borghesia imperialista per via negoziale. L'obiettivo ancor non evidente dell'offensiva "di pace" gorbacioviana è il massimo di "tranquillità sociale" in Russia e nel mondo. " Il mondo bolle", ha detto Gorbaciov allarmato a Reykjavik (v. "Pravda" del 14 ottobre '86) in direzione dei suoi partners occidentali. "I popoli sono stufi delle parole" sulla pace, ha aggiunto, per perorare la causa di un accordo che serva a far sbollire "il mondo" e a rassicurare "i popoli" sulla saggezza dei propri legittimi governanti (imperialisti) e sulla loro capacità/volontà di assicurare la pace ed allontanare una nuova guerra.

Il mondo (non) bolle (ancora abbastanza). Ma a suo tempo farà saltare questi ed altri coperchi.

Promemoria: 25 anni d trattati "di pace" 
e di sfrenata corsa al riarmo

È opportuno ricordare che la storia delle relazioni tra stati capitalisti e imperialisti è costellata di accordi solenni, talora "storici", mai applicati o apertamente violati. Per limitarci all'ultimo mezzo secolo: l'asse Roma-Berlino che doveva durare in eterno, fu cancellato dopo 6- 7 anni,- il patto di non aggressione Molotov-von Ribbentrop fu stracciato in menodi24 mesi,- l’intesa di Monaco, invece, non riuscì a superare le 24... settimane. Non diversamente stanno le cose nel campo degli "accordi per il controllo degli armamenti". Facciamo una rapida verifica, limitata agli ultimi 25 anni.

Nel 1963 il Trattato per la limitazione degli esperimenti nucleari proibisce i test nell'atmosfera, nello spazio e sotto i mari. Nel 1974un nuovo trattato pone limiti agli esperimenti sotterranei. Con tutte queste "limitazioni", nel 1984 - secondo il Rapporto annuale del SIPRI di Stoccolma –si è avuta un'esplosione nucleare alla settimana. Dal 1945 ad oggi sarebbero avvenuti oltre 1.500 esperimenti nucleari. 1967: l'"Outer Space Treaty" proibisce la militarizzazione dello spazio (oltre l'atmosfera). Vent'anni dopo questo medesimo spazio è popolato da diverse migliaia di satelliti, gran parte dei quali militari o militarizzabili. Nel 1983 l'amministrazione Reagan, per "assicurare la pace"al proprio territorio e -manco a dirlo -a tutto il genere umano, inaugura il progetto SDI che produrrebbe un balzo gigantesco nella militarizzazione dello spazio. 1968: Trattato di non proliferazione, finalizzato a prevenire la diffusione delle armi nucleari e da promuovere un "uso pacifico" dell'energia nucleare. Oggi almeno una decina di stati sono "sospettati" di possedere armi nucleari (ci sarebbe perfino un "mercato nero" delle stesse!) ed almeno altri quindici possono mettersi in grado di produrne di proprie entro pochi anni. Coincidenza: sono proprio quegli statiche hanno messo in opera il "nucleare di pace". Nel "Super-Phoenix"francese (a massiccia compartecipazione italiana) si è intanto realizzata la più completa fusione tra nucleare militare e civile. Nel l972 USA e URSS concludono il cosiddetto SALT-1 accordandosi sia sulla limitazione delle armi strategiche che sulle restrizioni al dispiegamento di sistemi di difesa contro i missili balistici. All'atto della firma del trattato, le testate nucleari americane e russe erano meno di 10.000; dodici anni dopo erano raddoppiate (ci riferiamo qui alle cd. "armi strategiche"). Inoltre, l’SDI viola evidentemente anche questo trattato. 1979: il SALT-2 pone limiti ai bombardieri strategici e dallo sviluppo di nuovi missili. Questo trattato non è stato mai ratificato dal Congresso americano, e nel novembre scorso gli USA hanno cessato ufficialmente di rispettarlo. Quelle dei trattati sul "controllo degli armamenti" e della corsa al riarmo sono due storie parallele che non s'incontrano neppure all'infinito. La prima verte sulla razionalizzazione della produzione bellica e sul disarmo delle masse; la seconda è direttamente intrecciata con le vicende delle guerre reazionarie e imperialiste.

La Comune di Parigi e la Rivoluzione d'Ottobre hanno cominciato un'altra storia, quella del disarmo della borghesia ad opera del proletariato per l'unica via possibile, la via rivoluzionaria. A gran voce, tra un po', se ne chiederà il terzo capitolo.