Classici del marxismo

QUEST' "ULTIMO STADIO" CHIAMATO IMPERIALISMO


Prima e soprattutto dopo il crollo di Borsa di ottobre, la stampa borghese ha pullulato di osservazioni e deprecazioni sul distacco tra "economia reale" ed "economia fittizia", e sulla discrasia tra un mercato in tutto e per tutto mondiale e soggetti politici ed economici nazionali. In forma empirica e distorta, la realtà dei fatti ha posto sulle labbra di individui al di sopra di ogni sospetto di civetteria con il marxismo, frammenti della teoria marxista dell'imperialismo.

E forse una dichiarazione di resa? No, neppure alla lontana. La pretesa di costoro, infatti, è che il presente stato di caos ed il cosiddetto "eccesso di finanziarizzazione", cioè lo schiacciamento della produzione materiale sotto il peso della speculazione finanziaria, costituiscono dei puri incidenti di percorso, rilevanti e di complicata soluzione, se si vuole, ma pur sempre accidentali e pacificamente superabili, occorsi ad un sistema sociale sostanzialmente sano. Entro un tale contesto, non è certo superflua una ripassata a "L'imperialismo" di Lenin.

Questo celebre "saggio popolare", che ha fornito e fornisce armi fondamentali alla battaglia rivoluzionaria contro l'imperialismo, affonda le sue radici, al pari dall'intera opera di Lenin, nel marxismo di Marx. È stato lo stesso Marx, infatti, a dimostrare, ne "Il Capitale", come la borghesia abbia assolto il compito storico di concentrare i mezzi di produzione "sparpagliati e ristretti" della società feudale e semifeudale, trasformandoli nelle potenti leve della produzione capitalistica. Il processo di concentrazione dei mezzi di produzione, ben al di là della fase iniziale del capitalismo, rappresenta una caratteristica permanente di questo modo di produzione. L'incessante rivoluzionamento dei mezzi tecnici e l'ininterrotto aumento di scala della produzione spingono di continuo in avanti e all'insù la concentrazione e la centralizzazione del capitale. Questa dinamica, regolata dalle stesse leggi che presiedono all'estrazione ed alla realizzazione del plusvalore, determina importanti cambiamenti di forma del capitalismo. Da un lato, abbiamo lo sviluppo delle società per azioni, titolari di un "monopolio nazionale" nei singoli rami industriali, lo sviluppo del sistema creditizio e il potenziamento della Borsa, sicché già nell' "AntiDùhring" (1877) Engels può notare che "il capitalista non ha più nessuna attività sociale che non sia l'intascar rendite, il tagliar cedole e il giocare in borsa". Dall'altro, si ha la formazione di un vero e proprio mercato mondiale, di una divisione internazionale del lavoro che, lungi dall'essere "egualitaria", riproduce, nel rapporto tra nazioni, ad un diverso livello e con profonde conseguenze sociali, quella dicotomia tra paesi colonizzatori e paesi colonizzati che tanta parte ebbe nel compimento dell'accumulazione originaria. Già nel capitalismo "concorrenziale", dunque, Marx ed Engels individuano le tendenze intrecciate al capitalismo "redditiero" ed alla costituzione di un sistema capitalistico mondiale operante come una unità reale non omogenea.

La sostanza economica e politica dell'imperialismo

È sulla base di questi capisaldi che Lenin ed altri eminenti rivoluzionari muovono alla comprensione di come è evoluto il sistema capitalistico nei decenni di fine Ottocento e di inizio secolo. La conclusione di Lenin è: "il capitalismo (è) giunto a quella fase di sviluppo in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l'esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell'intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici". è a questo "particolare stadio di sviluppo" del capitalismo che si dà il nome di imperialismo. La società borghese vi è pervenuta attraverso il processo di concentrazione delle imprese in imprese sempre più grandi, che ha portato al sorgere dei monopoli, trust che, stabilito un controllo pressoché totalitario sui "propri" rami produttivi ed i rispettivi mercati nazionali, passano a contendersi il dominio sulle materie prime e sul mercato mondiale.

Questo generale processo di concentrazione ha riguardato sia le imprese che le banche, trasformando queste ultime "da modeste mediatrici in potenti monopoliste, che dispongono di quasi tutto il capitale liquido di tutti i capitalisti e piccoli industriali, e così pure della massima parte dei mezzi di produzione e delle sorgenti di materie prime di un dato paese e di tutta una serie di paesi". Trasformazione delle imprese industriali in monopoli e delle banche-mediatrici in banchemonopoliste sono entrambi aspetti di quella nuova "simbiosi del capitale bancario col capitale industriale", che segna il passaggio "dal dominio del capitale in generale al dominio del capitale finanziario". L'intero stadio imperialista del capitalismo, e non già un qualche suo periodo particolarmente turbolento, è contrassegnato dal prevalere del capitale finanziario sulle altre forme del capitale. In questo ultimo stadio, "sebbene la produzione di merci continui come prima a 'dominare' e ad essere considerata la base di tutta l'economia, essa è in realtà già mirata e i maggiori profitti spettano ai 'geni' delle manovre finanziarie. Base di tali operazioni e trucchi è la socializzazione della produzione, ma l'immenso progresso compiuto dall'umanità, affaticatasi per giungere a tale socializzazione, torna a vantaggio… degli speculatori". Un fondamentale cambiamento qualitativo si accompagna, quindi, a quello quantitativo: il "centro di gravità" dell'attività borghese viene a spostarsi "dalla tecnica produttiva alla manovra affaristica" (Bordiga). Poche centinaia di finanzieri diventano "i veri re della moderna società capitalistica", la cui evoluzione mette capo ad un "capitale usurario gigantesco".

La nascita dei monopoli immette dentro il corpo della società capitalistica "la tendenza alla stasi ed alla putrefazione", in quanto si formano, per la prima volta nella storia di questo modo di produzione, le condizioni materiali perché si paralizzi, "fino ad un certo punto", lo stesso progresso tecnico. Tale affermazione, specifica Lenin, va intesa in senso dialettico. Cioè a dire: il capitalismo continua a svilupparsi e, per dati periodi, lo fa anche ad un ritmo quanto mai rapido. Ma il tutto si accompagna ad una crescita delle sperequazioni, dei conflitti e degli sbalzi e all' "imputridimento dei paesi capitalisticamente più forti". Nessuna delle contraddizioni del capitalismo concorrenziale è abolita nella fase monopolistica, tanto meno le crisi, che trovano anzi l'ambiente adatto per riprodursi a più alti livelli e si intrecciano sempre più strettamente con lo scontro inter-monopolistico per la supremazia sul mercato mondiale.

Il "contenuto" dell'odierna lotta tra i capitalisti - afferma Lenin nel vivo del primo massacro imperialista - è "la spartizione del mondo". Non la cattiveria, ma "il grado raggiunto dalla concentrazione li costringe a battere questa via, se vogliono ottenere dei profitti". Il mercato mondiale non è una creazione recente del capitalismo. Ma l'enorme socializzazione delle forze produttive avvenuta nell'éra dei monopoli ha gettato basi ben più solide ed "organiche" per una vera e propria economia mondiale. In un bello opuscolo certo indigeribile per i suoi attuali "rivalutatori", Nikolaj Bukharin scrive: "il capitalismo moderno è un capitalismo mondiale", "nella nostra epoca l'economia sociale trova la sua concreta espressione nell'economia mondiale" (v. "Economia del periodo di trasformazione"). Tanto che può a buona ragione parlarsi di un mercato mondiale dei prodotti, dei capitali, dei titoli, delle monete, del lavoro; di un "lavoro sociale mondiale"; di una tendenza ad un saggio di profitto e ad un saggio di interesse mondiali; di prezzi mondiali; e, ovviamente, di RIVOLUZIONE PROLETARIA MONDIALE.

Entro una tale struttura effettivamente mondiale, la concorrenza "tra i monopolisti più cospicui" altro non è che lotta imperialistica per la spartizione e la rispartizione del mondo. Lotta "pacifica" e non pacifica, che porta con sé crisi mondiali e guerre mondiali imperialiste. Dire "dominio del capitale finanziario" è dire "dominio degli stati finanziariamente più forti", di quegli stati nelle cui mani si accumulano immense quantità di capitali liquidi, i detentori monopolisti di fatto del capitale finanziario. Con l'ingresso del capitalismo nel suo stadio imperialista, sostiene Lenin, il mondo si divide - chi potrebbe smentirlo? - "in un piccolo gruppo di stati usurai e in una immensa massa di stati debitori". Stato imperialista vuol dire, perciò, "stato rentier", grande esportatore di capitali, grande tagliatore di cedole, grande sfruttatore e "predone", "in grado di assoggettarsi (si badi bene! - n.n.) anche paesi in possesso della piena indipendenza politica", proprio in virtù della potenza finanziaria e militare che lo contraddistingue. Sostanza economica e sostanza politica dell'imperialismo sono, per Lenin, inseparabili: "L'imperialismo è l'era del capitale finanziario e poi dei monopoli, che sviluppano dappertutto la tendenza al dominio, non già alla libertà". "Brigantaggio coloniale" e - aggiungiamo noi - neo-coloniale, "intensificazione dell'oppressione nazionale" verso "l'esterno"; reazione politica "su tutta la linea" all'interno. Complementare e funzionale al mantenimento dell'ordine sociale imperialista è la tendenza del capitale finanziario "a costituire tra i lavoratori categorie privilegiate e a staccarle dalla grande massa dei proletari", scindendo così la classe lavoratrice per mezzo del rafforzamento in una sua parte, dell'opportunismo del social-imperialismo. Una possibilità, questa, che è legata alla estorsione di immensi sovrapprofitti nelle aree arretrate del mondo. Il cerchio, così, si chiude. Se l'imperialismo ha portato alla costituzione dell'economia mondiale come "un tutto (ancorché) disorganico", il destino dello scontro tra borghesia e proletariato è anch'esso, più che mai, un tutto unitario, dai paesi oppressi e poveri a quelli imperialisti.

Alla luce della teoria marxista, perciò, la "finanziarizzazione" oggi tanto deprecata è null'altro che un prodotto necessario di un intero stadio della società capitalistica, il quale è, a sua volta, non un'escrescenza accidentale dello sviluppo capitalistico, ma una sua fase necessaria, che sopravviene ad un dato momento della grande produzione. In questo periodo, la crescita senza interruzioni della produzione, che già nel capitalismo concorrenziale impattava con il periodico sopravvenire delle crisi, è ulteriormente ostacolata dal livello raggiunto dalla concentrazione e centralizzazione del capitale, dall'esistenza del capitalismo monopolistico di stato. Gli antagonismi tipici della fase giovanile ne risultano potenziati. Se, infatti, l'anarchia sociale rimane intatta. divisa restando la società tra classe sfruttata e classe sfruttatrice, l'anarchia produttiva è perfino accresciuta, entrando le forze produttive mondiali suscitate dall'imperialismo in flagrante contrasto con gli "attori" economici e politici nazionali (gli stessi soggetti economici "multinazionali" sono in aspra contesa tra loro e al proprio interno). I laceranti conflitti che esplodono nel sistema capitalistico per la rispartizione del mondo sono condotti nel solo modo possibile, con la forza. Nella lotta tra imperialisti decidono solo e soltanto i rapporti di forza. Siamo perfettamente agli antipodi dei sogni concertazionisti e "pacifisti" sfornati a ciclo continuo per il grande pubblico dalle botteghe della borghesia internazionale e del riformismo: "nella fase imperialistica l'espansione economica del capitale è inseparabile dalla serie di conquiste coloniali e di guerre mondiali che oggi viviamo" (R. Luxemburg).

È attraverso questo insieme di processi economici e politici che l'imperialismo, "capitalismo morente, ma che non è ancora morto", apre l'epoca della rivoluzione proletaria. Il "capitalismo parassitario e putrescente", infatti, proprio con lo sviluppo e la centralizzazione delle forze produttive che ha provocato, ha reso materialmente possibile, più che mai, il passaggio ad una produzione socializzata socialmente regolata in dipendenza dei bisogni umani, e non del profitto. Ed ha prodotto su scala universale la classe chiamata a realizzarlo.

Una teoria superata o tante critiche in frantumi?

La storia, chiamata a testimoniare, conferma: nessun secolo dell'epoca capitalista è più denso di crisi, di guerre, di rivoluzioni. Non ci riferiamo, semplicemente, al testo "L'imperialismo", che lo stesso Lenin dimensionò come "saggio popolare" dedicato alla sostanza economica dell'imperialismo, ma al complesso della teoria marxista dell'imperialismo.

Incuranti del corso complessivo degli eventi, antimarxisti dichiarati e "neomarxisti" hanno gareggiato, specie nel secondo dopoguerra, nell'addurre "prove" atte a smantellare la nostra teoria. Assolutizzando aspetti parziali o fenomeni transitori e contradditori, hanno preteso di volta in volta, che la dimensione produttiva avesse ripreso il sopravvento sul capitale finanziario; che la putrefazione avesse ceduto definitivamente il passo ad un nuovo grande sviluppo; che la decolonizzazione fosse in procinto di abolire i meccanismi dello sfruttamento imperialista e della tremenda miseria delle masse nei paesi poveri; che la distensione avesse archiviato per sempre la possibilità dello scontro militare tra gli stati imperialisti; e che, pertanto, l'analisi strutturale e materialista dell'imperialismo si fosse rivelata assai meno adeguata dell'analisi psicologica, soggettiva o politica dell'imperialismo (quella che, per intenderci, ha generato la miriade di libri-spazzatura sulla sete di potenza dei vari Hitler, Mussolini, etc., come causa prima delle guerre…). Non c'era bisogno dell' "Ottobre nero" per farsi beffe di simili prezzolate fandonie, che dipingono il capitalismo come un sistema saldo e sotto controllo, le cui ingiustizie sono superabili, se non eliminabili. Nondimeno si ride di gusto a vedere lo sgomento con cui la stampa ufficiale registra che i mercati finanziari internazionali muovono oggi (1987) un valore 40 volte superiore a quello della circolazione complessiva delle merci. E fa piacere aprire il "Time" (del 2 novembre) e leggervi: i guai per gli USA sono cominciati allorché "una economia che una volta era basata sulla forza della produzione manifatturiera e sul genio dell'inventiva, cominciò a ricercare il perseguimento della ricchezza per mezzo di fusioni e di scalate e a botta di nuovi strumenti finanziari". Putrefazione del paese finanziariamente più forte, o no?1 Nel contempo, i rapporti della non certo sovversiva FAO documentano l'estensione della fame nel mondo e quelli del super-imperialista FMI la caduta delle ragioni di scambio dei paesi formalmente "decolonizzati", ma nei fatti oppressi quanto prima; mentre i "libri bianchi" dei vari ministeri della "Difesa" imperialisti vanno a sostenere un'esplosione senza precedenti della spesa bellica e l'ONU lamenta la moltiplicazione dei "conflitti locali". I vostri centri studi, signori capitalisti, i vostri organismi e soprattutto il modo di essere del vostro sistema sociale in crisi, stanno rilucidando a nuovo quella teoria marxista dell'imperialismo che invano i vostri apologeti si sono industriati a demolire.

Il capitalismo decadente è dentro una nuova crisi generale. Il proletariato deve approfittare della "inevitabilità della crisi rivoluzionaria che ne erompe", organizzandosi per infliggergli quella sconfitta storica che da tempo l'umanità attende. Il rinvio a Lenin e agli altri grandi teorici rivoluzionari dell'imperialismo serve ai marxisti per mettere in guardia il proletariato verso ogni illusione di riformabilità del sistema e di pacifico superamento dei suoi antagonismi.