Il crack delle borse

NON È CHE L'INIZIO…


Come e perché è stato possibile l'uragano finanziario messo in moto da Wall Street? Quali prospettive sociali e internazionali esso annuncia? Che ne sarà del "capitalismo popolare" e della nuova "distensione internazionale" Cosa del secondo "New Deal" sognato da Occhetto? Molti problemi, una certezza: l'attacco capitalistico andrà più in profondità; per fronteggiarlo, il proletariato deve predisporsi a durissime battaglie.

Dunque, il "bloody day", il giorno maledetto (dai borghesi) è arrivato. "Non è la fine del capitalismo", si sono affrettati a precisare i De Benedetti, gli Amato ed altri ancora. Infatti. Rimane, però, immutato, il problema di fondo: quali sono le cause reali e quali le conseguenze del crollo mondiale delle Borse?

Per quel che riguarda le cause, le spiegazioni correnti insistono su due fattori: 1) l'eccessivo gonfiamento della speculazione finanziaria; 2) la politica reaganiana, produttrice di macrosquilibri, all'interno e all'esterno degli USA. Ma, con "spiegazioni" del genere, gli avvenimenti, più che essere compresi, vengono mistificati.

Non è indispensabile essere insigniti del Nobel per registrare che negli ultimi anni le Borse hanno corso al passo di carica di un toro infuriato. È sufficiente essere dei bravi pubblicisti, come sono quelli di "Le Monde diplomatique", per rilevare, con appropriata comparazione, che, viceversa, negli ultimi quindici anni, la produzione materiale è avanzata a passo di lumaca. Il busillis è tutto qui, nel dare conto del perché di questo doppio fenomeno e del come mai nessuna delle autorità politiche e finanziarie è riuscita a fermare questa "corsa all'abisso".

Reagan, gli "yuppies", i fattori oggettivi e impersonali

La Borsa è uno degli anelli della catena del capitale finanziario, che è, a sua volta, la forma predominante del capitale nella fase imperialista del suo sviluppo. Il suo andamento, in positivo e in negativo, è regolato, in ultima istanza, dalle stesse leggi che regolano il funzionamento del capitalismo nel suo complesso. È perciò null'altro che una interessata imbecillità attribuire il "crash" dell'ottobre '87 alla "follia" di una masnada di speculatori d'accatto, la cui brama di diventare ricchissimi in poco tempo avrebbe gonfiato a dismisura il mercato azionario. Dietro quel "crash" ci sono ben altro che fattori psicologici. C'è il materiale, ininterrotto assommarsi di contraddizioni economiche, sociali e politiche in atto dall'inizio della crisi. Poco importa quale goccia ha fatto traboccare il vaso: se il rialzo dei tassi di interesse, l'ennesima sconfitta politica di Reagan, la crisi del Golfo Persico, una combinazione di questi aspetti o altro ancora. Quel che conta è che il vaso era colmo. Lo scostamento del valore nominale dei titoli dal loro valore reale si era spinto a limiti estremi, proprio mentre la base di appoggio di un tale processo nell'economia e nella società si faceva sempre più precaria.

La crescita esponenziale dei traffici di Borsa non ha accompagnato l'intero arco dello sviluppo post-bellico. Essa è sopraggiunta solo in un dato stadio della crisi: allorché la valorizzazione reale (nella produzione) è divenuta molto difficile, sia nel "centro" del sistema capitalistico mondiale che in "periferia". È stato a quel punto che una massa senza precedenti di capitale monetario inattivo si è incanalata ed è stata canalizzata in forza verso le Borse. Primi anni '80: messi in ginocchio dalla esosità imperialista o scossi dalle fondamenta da processi insurrezionali i "paesi emergenti del terzo mondo" (leggi: Messico, Iran, centroAmerica, sud-Africa), bloccata la produzione industriale ed agricola dei paesi ricchi dall'emergere della sovrapproduzione, la compravendita di titoli e monete nelle grandi bische del "primo mondo" è divenuta l'operazione di gran lunga più remunerativa per il capitale finanziario (insieme con il sostegno della spesa bellica americana). A vantaggio di chi? dei perfidi "yuppies"? Non fateci ridere! Questi "predatori"… predati e licenziati in massa costituiscono appena l'ultima rotella, buona in quanto tale ad essere additata alla pubblica esecrazione, di un meccanismo che è servito, e a meraviglia, a rimpinguare i forzieri del capitale monopolistico. Nella Borsa di Milano, che riproduce in piccolo le caratteristiche di quelle di New York, di Tokio e di Londra, circa il 70% degli scambi riguarda quattro soli trust: FIAT, IRI, Olivetti, Montedison-Ferruzzi. Se prendiamo un biennio-chiave del boom borsistico, l'85-'86, leggendo il bilancio delle 96 principali società per azioni italiane, si può scoprire che "a fronte di un fatturato inferiore, il loro utile è aumentato, in un anno, del 38,7%. In ciò ha giocato un ruolo decisivo (incremento dello sfruttamento operaio a parte - n.n.) la voce proventi finanziari" ("L'Unità", 21 ottobre). Vero: nel 1985 i grandi gruppi monopolistici italiani hanno rastrellato in Borsa 4.000 miliardi, l'anno successivo ben 14.000.

La travolgente ascesa delle Borse e, dialetticamente, il loro repentino precipitare sono perciò da ricondurre, al fondo, alle determinazioni obiettive che presiedono al movimento del capitale e al ciclo capitalistico: la ricerca del profitto; la crescente difficoltà a realizzare adeguati profitti nella produzione; l'accumularsi di contraddizioni che mettono in forse la stessa valorizzazione "fittizia"; l'inevitabile arrivo della rottura traumatica con tutto ciò che ne segue. Rispetto a questo che è il processo reale, la "latente follia che ha sempre travolto la gente presa dall'idea di poter divenire ricchissima" (Galbraith) entra in gioco, esclusivamente, per la scontata identificazione dei "polli" di turno. Lungi dall'essere la causa del secondo "Ottobre nero", la "popolarizzazione" del possesso azionario è stata semplicemente il mezzo di una ulteriore centralizzazione del capitale, che ha rafforzato la potenza sociale di quelle compagnie multinazionali e mega-banche che dominano la produzione mondiale, le Borse e gli stati. Altro che menate sulla democratizzazione del capitalismo!

Non meno superficiale e mistificante è attribuire al reaganismo la responsabilità principale del tracollo. Infatti, se esso ha concorso a generare formidabili squilibri nell'economia mondiale (il deficit commerciale e l'indebitamento statale USA, le oscillazionirecord del dollaro, e così via), è stato a sua volta, e ad un livello molto più decisivo, il risultato necessario di fattori di crisi moltiplicatisi, negli USA e sul piano internazionale, lungo tutto il corso del quarantennio post-bellico. L'universale acclamazione per il reaganismo, checché se ne dica oggi, non è stata un abbaglio collettivo del "mondo libero", ma il dovuto tributo delle borghesie occidentali ad una ideologia e ad una politica che sembrava averle tirate fuori dalla stagnazione economica e dall'incertezza politica. Quelli che al momento biasimano l'illusionista Reagan creatore di guai, hanno lucrato formidabili guadagni proprio in virtù degli squilibri messi sotto accusa. Squilibri o, per dire meglio, antagonismi che, prima di riguardare i rapporti tra le singole economie nazionali e tra gli stati, attengono al sistema capitalistico nella sua globalità, ed anzitutto alla crescente incapacità della borghesia mondiale a governare le forze produttive socializzate che ha suscitato.

Al di là del burattino-Ron e della ripresa drogata che esso ha "diretto", è alla totalità del meccanismo capitalistico che dobbiamo risalire per spiegare il tracollo delle Borse. Con gusto della battuta tipicamente francese, Mitterrand ha affermato: "È il disordine di un non-sistema; non c'è un sistema; si è rotto". Brillante, Monsieur le President! Ma, se ci consente, alquanto confuso. Quel che è venuto in primo piano è il disordine di un sistema che c'è, il sistema capitalistico, e che funziona come un "non-sistema", come un meccanismo sociale non organizzato, non pianificato, né pianificabile secondo le necessità sociali, perché ciecamente comandato dall'impulso vitale di far crescere il capitale. Il lunedì 19, precipitando dal picco di Wall Street, quota 2246, un'omerica risata ha travolto i castelli di chiacchiere sui pretesi nuovi strumenti di regolazione e di controllo che avrebbero consentito all'economia mondiale di superare il "vecchio" disordine e le "vecchie" crisi. Gravati dal peso divenuto insostenibile di crescenti conflitti economici, sociali e politici, i mercati dei titoli hanno reagito "all'unisono", andando giù in caduta libera.

E gli stati? E gli organismi internazionali? Nessuna autorità era stata in grado di fermare la "eccessiva" ascesa delle Borse. Nessuna autorità ha potuto impedirne il "crack" ripetutamente annunciato. Né i vertici a tre, né quelli a cinque, né quelli a sette. Né il FMI né la Banca Mondiale, gendarmi inflessibili quando si tratta dei paesi poveri. E neppure la prospettiva del super-vertice tra USA e URSS. Ad una economia realmente mondializzata fanno da contrappunto soggetti politici ed economici nazionali, concorrenti tra loro anche all'interno delle istituzioni internazionali. II costo dell'immane caos che ne è derivato? Saranno chiamate a pagarlo quelle masse lavoratrici che non hanno certo concorso a produrlo.

Tutte le contraddizioni sociali e internazionali si inaspriscono

Con il tracollo delle Borse, la fase per dir così preliminare della crisi capitalistica si chiude, e il capitalismo entra d'un balzo, anche formalmente, nei passaggi più traumatici di essa. Il cosiddetto "impazzimento della speculazione finanziaria", che era legato allo stato complessivo dell'economia e dei rapporti sociali all'andata, lo è pure al ritorno. Finanza, moneta, commercio, produzione sono aspetti tra loro non separabili. Ad appena due mesi dal "break", il mercato monetario è già dentro una nuova tempesta del dollaro, e primi spruzzi di acqua gelata cominciano a investire il processo di scambio tra i paesi ed il movimento internazionale dei capitali. Sta diventando complicato mantenere in piedi perfino le apparenze della "concertazione" intra-occidentale. L'aggravamento della crisi alimenta l'inasprimento della lotta per il dominio sui mercati e mina più a fondo l'ordine mondiale post-bellico e lo stesso sistema sociale. La provvisoria "schiarita" nei rapporti USA-URSS non prelude (ed è l'esempio più rilevante) ad alcuna nuova risistemazione "di pace" tra questi due stati, ma è unicamente dettata dalle contemporanee situazioni di debolezza in cui le due super-potenze si trovano nella crisi dell'unitario sistema capitalistico cui rispondono e dalla"convergenza" d'interessi ad appoggiarsi l'uno all'altro per scongiurarne il precipitare. Pace duratura? Fuoriuscita dalla crisi? No, semplicemente un "mutuo soccorso" che prelude ad ulteriori ed "imprevedibili" contrasti insanabili tra i due, ad una competizione a coltello tra di essi sino al tracollo finale (ne siamo certi) di entrambi e dell'intero sistema.

Per il proletariato della metropoli, la breve pausa dell'ultimo biennio che, tra ripresa drogata e petrolio a prezzi stracciati, aveva consentito un po' di respiro, cede il passo ad un nuovo giro di vite, fatto di duri sacrifici, disoccupazione e restrizione delle libertà. Battaglie di una acutezza senza pari attendono le masse lavoratrici, se queste vorranno, come è loro interesse, respingere l'attacco capitalistico in gestazione.

Sono queste le tendenze che l' "Ottobre nero" rafforza. Del resto, è quanto mai difficile equivocare i messaggi che provengono dall'epicentro del sisma, gli USA. L'America deve impegnarsi con tutte le proprie forze nella "riconquista del mercato mondiale", ha detto Yeutter, il negoziatore dell'amministrazione Reagan per il commercio internazionale. Gli USA debbono riconquistare "la funzione (che spetta loro) nel mondo", ribadisce il "Time", la funzione di comando. Gli esperti di "strategia globale" specificano che per ottenere un tale risultato la borghesia yankee deve basarsi in ogni campo sui propri esclusivi interessi, abbandonando qualsiasi velleità di tutrice degli interessi comuni dell'Occidente. "La politica di coordinamento macroeconomico internazionale dovrà essere ora abbandonata esplicitamente, anche se in modo conciliante (!?) dagli USA", sostiene Feldstein, uno dei più influenti economisti americani. Ai redattori di "Business Week", però, le belle maniere sembrano superflue. A loro avviso l'offensiva contro gli ingrati sociconcorrenti di Bonn e di Tokio va condotta nel seguente modo: varare un qualunque simulacro di tagli al bilancio statale americano, indi, "with a baseball bat in hand", con una mazza da baseball in mano, da usare, se occorre, "senza esitazione"… , intimare loro di aprire i rispettivi mercati alle esportazioni USA, di continuare a finanziare il deficit statale americano e di pagarsi la propria "sicurezza".

Orientamenti altrettanto netti emergono sul piano sociale. Ancora "Business Week" (del 16 novembre) scrive: "America, è tempo di svegliarti! Il messaggio del crollo è chiaro: gli Americani hanno speso troppo, preso in prestito troppo, importato troppo. è ora che ciò finisca… Sacrifici, duro lavoro e frugalità saranno la nuova etica del lavoro di un periodo in cui il livello di vita andrà a declinare". La congiuntura pre-elettorale sta sconsigliando sia i repubblicani che i democratici dall'adottare misure immediate severe e spingendo provvisoriamente verso una sorta di manovra di aggiramento inflazionistica. Una manovra dal fiato corto che potrà al più, se le circostanze lo consentiranno, far slittare e graduare i primi secchi tagli ai consumi e agli investimenti. In realtà l'arrivo di una "austerità" ignota da molti decenni alla classe operaia americana è solo questione di tempo. Non per nulla il citato settimanale preferisce esemplificare l'amara ricetta con la figura di un cittadino-lavoratore (bianco!) che si stringe la cinghia…

È questo l'umore predominante nella borghesia americana dopo il crollo di Wall Street. Predominante, ma non esclusivo. Vi è, infatti, una parte del campo democratico che, da posizioni "neo-rooseveltiane" più o meno timide, critica la prospettiva della "austerità liberista", opponendo ad essa la possibilità di un programma di forte sviluppo, che avrebbe l'enorme vantaggio sociale di favorire una "nuora compattezza" della nazione americana. Sentiamo un sostenitore di questa tesi: "Il debito accumulato non è una ragione sufficiente per giustificare l'austerità. L'America venne fuori dalla seconda guerra mondiale con un debito pubblico che era più del 100% del prodotto nazionale lordo, mentre oggi è solo il 50% di esso. Eppure la guerra produsse una collaborazione senza precedenti tra lavoro, industria e governo… E ciò servì a creare una generazione di operai qualificati e di tecnologia avanzata, ed un'esplosione del potere di acquisto dei consumatori, che alimentò il boom post-bellico e servì a pagare il debito. La prosperità del dopoguerra fu costruita sulla base della collaborazione sociale, non del liberismo" (così R. Kuttner su "Business Week" del 23 novembre).

Lo scontro tra le due alternative borghesi verte, chiaramente, non sul se, ma sul come gli USA debbono andare alla "guerra", economica per il momento, per il controllo del mercato mondiale. I "liberisti" (la definizione è molto impropria, visto che il loro punto di riferimento, Reagan, ha espanso a dismisura l'intervento statale nell'economia) sono nei fatti, ad onta dei proclami ideologici trionfali che redigono, più realisti e pessimisti sullo stato delle cose. Presupponendo lo stato di declino americano, affidano la riscossa ai metodi più aspri all'esterno e all'interno. In campo sociale il loro primo obiettivo è ricompattare al vertice imperialista la massa più larga possibile delle classi medie, innalzando per il resto della società la bandiera dei sacrifici. I "neo-rooseveltiani" (al momento assai lontani dai toni "anticapitalistici" di Roosevelt), invece, mirano a cooptare anche una parte privilegiata ampia della classe lavoratrice americana nella competizione internazionale, concedendo ad essa qualcosa sul piano materiale attraverso la profferta di un nuovo periodo di sviluppo, pur di ottenere in cambio "l'anima", ossia il compattamento sciovinista. Per il proletariato: la padella e la brace.

Una reazione più estrema, un riformismo più duro

Il sogno riformista di un indolore, o quasi indolore, salto della recessione prossima ventura, è destinato a rimanere tale. Per un secondo "New Deal" mancano oggi sia i presupposti economici, sia quelli politici. La condizione economica prima di un altro "New Deal" (alla Roosevelt… o alla Hitler) è una caduta catastrofica della produzione materiale. Lo sviluppo capitalistico ed i suoi ritmi non dipendono, infatti, dalla semplice volontà politica, come nelle mistificazioni riformiste. Senza grandi distruzioni di forze produttive alle spalle non si danno grandi "ricostruzioni" capitalistiche. Ora, in questo secondo dopoguerra, l'economia mondiale, nonostante due recessioni di qualche portata nel '74-'75 e nell'80-'82, non ha ancora avuto, nel suo complesso, cadute verticali della produzione. Sicché contiene tuttora dentro di se una massa enorme di prodotti, di materie prime e di forzalavoro da distruggere, prima di potere, fisiologicamente (in accordo alla sua demente fisiologia), essere in grado di newdealisticamente rifiorire. Il "crash" borsistico ha annunciato una tale distruzione, ma non l' ha realizzata che in minima parte.

Manca, inoltre, lo stesso fondamentale presupposto politico: quello di un proletariato schiacciato sotto il peso di una sconfitta storica e stremato dai tormenti della crisi al punto tale da essere disposto, conflittualmente o meno (negli USA le lotte economiche non mancarono), sia a reggere formidabili ritmi di accumulazione che ad arruolarsi, senza battere ciglio, per il grande massacro imperialista. Anche nella fase introduttiva di questa crisi del capitalismo la classe operaia ha subito delle sconfitte, essendo arrivata ad essa meno organizzata della borghesia. Ma queste momentanee sconfitte portano, nella loro dinamica, i segni di primi passi di un processo di ripresa. Del pari, i sacrifici che il proletariato metropolitano è stato finora costretto ad accollarsi, l' hanno più esacerbato che demoralizzato.

Non è dunque alle porte un nuovo grande sviluppo. Al contrario, con l'ingresso nei tornanti più catastrofici della crisi, il capitale monopolistico imporrà rinunce anche ai settori intermedi della società, i quali, sinora, se ne erano usciti indenni e spesso rimpinguati. Questo processo sociale solleciterà ulteriormente le classi medie proprietarie a scendere in campo ed a marciare per difendere i propri privilegi dalle "minacce" del proletariato metropolitano e degli "straccioni" sfruttati dei paesi dominanti. E così altra linfa andrà ad alimentare l'incubazione di soluzioni reazionarie sempre più estreme. A fronte delle quali il reaganismo di Reagan, già bollato per la sua politica internazionale quale "utile idiota nelle mani del Cremlino", apparirà qualcosa di moderato quanto a ferocia antioperaia. La comparsa di queste "nuove" tendenze, formazioni, organizzazioni politiche borghesi è resa inevitabile dalla crescente inadeguatezza dei metodi e delle istituzioni capitalistiche "ordinarie" a gestire una situazione di crescente caos. Per il momento la loro visibilità è limitata, perché la decantazione è in corso. Ed è tale la confusione del presente che, mancando una forte iniziativa del proletariato, può perfino darsi un apparente irrobustimento delle spinte in senso contrario. Fatto sta, però, che dietro il declino del reaganismo di Reagan già si staglia una componente ultrareaganista e fondamentalista-yankee, che la Thatcher è alle prese con una fazione ultra-tatcheriana, che uno Chirac è condizionato e pressato da un Le Pen, che il "supplente" Goria si spinge oltre i titolati Craxi e Fanfani sulla via della provocazione anti-operaia, e così via.

Mentre Occhetto schizza alla lavagna dell'illusionismo il quadro astratto di un altro periodo di sviluppo, il pentapartito vara una finanziaria Goria n. 2 riveduta e peggiorata e i mass media unanimi scatenano una delle più virulente offensive che si ricordino contro il diritto di sciopero e l'organizzazione sindacale dei lavoratori. È stata una vera doccia fredda per gli operai che si attendevano e tuttora si attendono di poter dare continuità al recupero di salario e di forze avviato con gli ultimi rinnovi contrattuali. Le stesse direzioni di CGIL-CISL-UIL sono state costrette ad indire lo sciopero generale per impedire nuovi peggioramenti delle condizioni di vita del proletariato. Il dopo-" lunedì nero", quali che siano le intenzioni ed i programmi dei capi riformisti e sindacali, al di là degli zuccherini istituzionali o locali (avvelenati) che i Craxi ed i De Mita porgono al PCI, è il contesto naturale entro cui maturerà sia un indurirsi della difensiva di classe, sia - giravolte del momento a parte - un certo indurimento del riformismo. Dentro questa obiettiva coincidenza si muovono, però, spinte potenzialmente divaricanti e contrapposte, la cui contraddittorietà verrà fuori più netta a misura che il salto della recessione si rivelerà impossibile e la classe operaia dovrà ingaggiare battaglia contro un nemico di classe quanto mai aggressivo.

L' "Ottobre nero" chiama a nuovi, asperrimi scontri di classe lungo l'arduo cammino che ci separa da un altro Ottobre rosso. L'essenziale, ora, è che il proletariato si rifiuti di pagare il conto del crack.