IL KUWEIT: UNO "STATO" ARTIFICIALE 
CREATO DAL COLONIALISMO


La propaganda occidentale batte, tra l'altro, su un tasto: l'occupazione e l'annessione del Kuweit da parte dell'Iraq sono inammissibili perché compiute nei confronti di uno "stato sovrano". Della "sovranità" economica e finanziaria del Kuweit trattiamo in altra parte del giornale; diamo qui, invece, un rapido sguardo al processo di formazione del Kuweit come "stato indipendente" per mettere in evidenza come esso non sia altro che un prodotto artificiale del colonialismo.

Nella storia precedente la nascita dello "stato" del Kuweit (avvenuta nel 1961) non vi è traccia di una "nazione" kuweitiana che possa essere in qualche modo distinta dalle popolazioni della Mesopotamia e, più in generale, dell'intera Arabia quanto a circuito economico, istituzioni politiche, razza e (men che meno) lingua. La città di al-Kuweit fu fondata, agli inizi del XVII secolo, da tribù nomadi provenienti dall'interno della penisola arabica. Incrementò i suoi abitanti e la sua importanza commerciale in seguito al flusso migratorio provocato in Mesopotamia dall'occupazione persiana. Col tempo si rinsaldarono i suoi legami con Bassora, di cui al-Kuweit divenne il prezioso sbocco al mare (essendo Bassora un porto fluviale inidoneo alle moderne flotte mercantili e militari). Dalla metà del '700 la città fu governata da uno sceicco della famiglia Sabah, la quale si sottomise all'impero ottomano. Per il sultano ottomano che lo nominava, lo sceicco del Kuweit era un caimacan, ossia un funzionario di rango inferiore che rappresentava in loco il governatorato di Bassora.

Fino alla fine del 1800 al-Kuweit rimase parte del governatorato di Bassora. Le cose non cambiarono, in apparenza, neppure quando la Gran Bretagna impose il proprio protettorato sulla città (1899). Da quel momento, però, inizia la pressione, aperta e coperta, dell'imperialismo britannico (non della popolazione autoctona!) per fare di al-Kuweit un'entità a sé stante. La ragione di fondo è nella esplosione della rivalità con la Germania di Guglielmo Il per lo sbocco sul Golfo Persico. Tra il 1888 e il 1898 la Deutsche Bank aveva approntato ed avviato il grandioso progetto della ferrovia Berlino-Bisanzio-Baghdad quale mezzo di penetrazione del capitale germanico in Turchia e in Arabia. Dopo la sua visita in Palestina (nel 1898), fu lo stesso imperatore a sollecitare il prolungamento della ferrovia fino a Bassora e l'immediato inizio dei lavori di costruzione del suo tratto terminale (che una mano sapiente aveva, nel frattempo, ulteriormente prolungato fino a al-Kuweit…). Per contrastare questo progetto, e in specifico l'accesso al mare della ferrovia, la Gran Bretagna chiese di poter partecipare in prima persona alla Baghdadbahngesellschaft; nello stesso tempo si premunì assicurandosi il mandato sul Kuweit e intavolando trattative con l'impero ottomano perché concedesse la "autonomia" alla città contesa (una prima richiesta in tal senso è del 1909).

Con la sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale, per la Gran Bretagna si attenuò, momentaneamente, il pericolo della concorrenza tedesca nel vicino e medio Oriente. Le potenze vincitrici dell'Intesa si spartirono le spoglie del defunto impero ottomano. Questa spartizione, le cui linee dorsali sono fissate dal famigerato accordo Sykes-Picot (maggio 1916) poi sostanzialmente recepito nel trattato di Sèvres (agosto 1920), rispose ad un duplice interesse del capitalismo imperialista: anti-arabo e, su un altro piano, anti-socialista. Il governo francese e quello inglese provvedettero a suddividere

Arabia e Medio-Oriente nel maggiore numero di "parti" possibile, sia consolidando le vecchie divisioni amministrative formatesi sotto la dominazione turca, sia predisponendo la nascita di nuovi stati minati ab origine vuoi da confini tracciati in spregio dei trascorsi storici, vuoi dall'essere un coacervo di più razze o nazionalità (con le potenze coloniali opportunamente attente a rinfocolare i motivi di conflitto tra esse). Il colonialismo vecchio e nuovo ha operato ed opera nel senso di impedire la costituzione di un grande stato arabo unitario. Questo, non tanto perché sia allarmato dalla eventualità, alquanto improbabile, del sorgere di un capitalismo arabo capace di prendersi la rivincita sull'Occidente predatore, quanto piuttosto perché è cosciente che il processo di formazione di un tale stato, in sé debole come stato borghese, avrebbe una duplice ricaduta positiva per la causa della rivoluzione proletaria: da un lato favorirebbe il movimento di unificazione degli sfruttati arabi, e dall'altro attizzerebbe la lotta di classe del proletariato in una Europa messa in ginocchio dalla perdita dell'immensa riserva degli extra-profitti lucrati nell'area araba. È in ragione di ciò (eccoci alle scaturigini imperialiste del "diritto internazionale") che venne impiantato un "focolare ebreo" in Palestina, fu spezzata l'antica unità della Siria, venne inventato il Libano ed inegualmente spartito secondo linee confessionali, furono riconosciuti a parole e insieme negati nei fatti i "diritti nazionali" dei curdi e degli armeni, venne frammentato il territorio della penisola arabica, etc.

Anche se sarà formalizzato 40 anni più tardi, il distacco del Kuweit dall'Iraq rientra perfettamente in questo quadro. Quando, a seguito delle prime insurrezioni nazionaliste, la Gran Bretagna fu costretta a concedere una parvenza di indipendenza all'Iraq (1921), la posizione del Kuweit rimase nella più completa ambiguità. Perfino Feisal I, il monarca sistemato sul trono di Baghdad dalla stessa Gran Bretagna, ed il governo di Nuri Al Said, servilissimo verso i padroni occidentali, dichiararono di considerare il Kuweit come una provincia dell'Iraq, tentando molto timidamente di estendervi la propria giurisdizione. Londra si oppose. I primi successi delle ricerche petrolifere, avviate nel 1934 congiuntamente dalla Anglo-Persian Oil Company e dalla statunitense Gulf Oil Corporation, irrigidirono questa posizione. Più petrolio si scopriva, meno il capitalismo britannico ed il suo nuovo socio di maggioranza americano erano intenzionati a mollare il Kuweit.

Nel luglio 1958 un moto popolare rivoluzionario rovesciò la monarchia hascemita infeudata all'Occidente. Questo rivolgimento (che porterà con sé, tra l'altro, la nazionalizzazione delle risorse petrolifere irachene) e la crescente presa del nazionalismo pan-arabo suggerirono all'imperialismo anglo-americano di superare le forme di dominazione più smaccatamente coloniali per meglio tutelare, nei tempi mutati, la continuità della propria rapina. Nel giugno 1961 il governo inglese attribuisce 1indi-pendenza" al Kuweit. L'Iraq di Kassem protesta duramente, senza però passare alle vie di fatto. Viceversa gli inglesi e, apparente paradosso, anche la Lega araba (con motivazioni tra loro divergenti, allora, più di oggi) intervengono in armi a sbarrare il passo ad eventuali iniziative del governo nazionalista di Baghdad. Nonostante l'appoggio dell'URSS che condanna l' "aggressione" e l' "avventura" militare inglese (lo ricordiamo per dovere di cronaca: nessuna rivalutazione del kruscevismo, of course), l'Iraq si piega abbastanza presto allo stato di fatto imposto dall'imperialismo. Ma non è bastato, evidentemente, per dare "legittimità" storica ad uno "stato" che è un'invenzione, a suo pro, del capitale imperialista. Tutto al contrario: proprio questo trentennio di "indipendenza" ha spinto all'estremo tale contraddizione fino a farla, infine, esplodere.

Una democrazia in progress?

Un altro "argomento" della propaganda di regime in Occidente è che il regime "dittatoriale" di S. Hussein avrebbe troncato di netto l'esistenza di uno stato almeno in parte, e in progress, democratico. Certo, una "democrazia con il bavaglio" ("Corriere della sera" del 6 agosto), ma pur sempre un inizio di democrazia ("L'Unità", come il notaio, conferma). Vero è che su questo tema è stata messa un po' la sordina per l'ossequio dovuto a quella crème di re, sceicchi, emiri e principi ereditari che le democrazie si onorano di avere con sé; tuttavia un po' di controinformazione può giovare.

Si dà per scontato che nel Kuweit vi fosse una monarchia costituzionale o parlamentare (Donini parla, ad esempio, di "monarchia democratica parlamentare"). In Europa tale espressione fa venire in mente l'Inghilterra o la Spagna o l'Olanda o la Svezia o il Belgio di oggi (cristo, a due secoli dall'89…) in cui il potere legislativo è, formalmente, nelle mani di un parlamento eletto a suffragio universale e il re è poco più, poco meno, una mazza di scopa con compiti di rappresentanza. Senonché la situazione nel Kuweit era un attimino diversa da quella, tutt'altro che esaltante per il proletariato, delle monarchie borghesi europee.

Tanto per cominciare, l'Assemblea nazionale, concessa dalla famiglia Sabah in base ad una costituzione ottriata, non è eletta a suffragio universale, ma a suffragio ristretto.

Hanno diritto di voto soltanto gli uomini dotati di un buon grado di istruzione (leggi: di censo) che siano originari del Kuweit da prima del 1920. Si tratta di non più dell'8% della popolazione residente in Kuweit (la stima è di R. Garaudy), ossia una "massa" appena un poco più estesa di quella (calcolata in circa 90.000 unità) delle 15 "famiglie" o clan che detengono il 100% della ricchezza dell'emirato. Si tratta, altresì, di poco meno del 30% degli stessi cittadini kuweitiana d.o.c. Essendo vietati i partiti politici (e, naturalmente, i sindacati: nulla da ridire, - vero? - "grandi firme" di CGIL-CISL-UIL…), si vota su candidature individuali. Nonostante ciò, per due volte ebbe modo di formarsi (ordini dal sottosuolo sociale!) una minuscola frangia di opposizione ispirantesi, verso la metà degli anni '70, al nazionalismo arabo e verso la metà degli anni '80, all' "integralismo islamico". In entrambi i casi l'emiro sciolse autocraticamente l'Assemblea, e di recente (il 16 luglio di quest'anno) ha pensato bene di abolirla definitivamente sostituendola con un Consiglio nazionale provvisorio di sua nomina.

Lasciamo perdere i "poteri" della defunta Assemblea (si pensi solo che non spettava ad essa, bensì all'emiro, insediare o dimissionare il governo, interamente composto - s'intende - da membri della famiglia Sabah), e diamo un'occhiata alla istruttiva questione della cittadinanza. Godono della cittadinanza kuweitiana non già, come si legge di solito, il 40%, bensì soltanto il 28% del circa 1.800.000 residenti in Kuweit. Nel 1989, infatti, i kuweitiani "di origine nomade senza nazionalità" sono stati esclusi dalla cittadinanza e licenziati dagli impieghi statali (per i quali è obbligatoria la cittadinanza), mentre i loro figli venivano espulsi dalle scuole pubbliche (lo ricorda una bella lettera di protesta di Richard Foltz sull' "International Herald Tribune" del 17 agosto). E del resto nel 19661a "democratica" Assemblea nazionale aveva deciso che non possono essere naturalizzate in Kuweit più di… 50 persone l'anno. Se si considera che, eccettuati gli impieghi governativi, i cittadini kuweitiani costituiscono l'1,6% della forza-lavoro e che la totalità della forza-lavoro sfruttata è composta da non kuweitiani, è esagerato concludere che il tenero virgulto semi-democratico calpestato dai cingoli iracheni altro non era che un infame regime di apartheid e di sfruttamento edificato a pro dei forzieri delle banche e delle multinazionali occidentali e delle "eterne vacanze" di un pletora di regali parassiti arabi?

Non stiamo qui, lettore, ad invocare una vera democrazia borghese per il Kuweit, ché l'oggettività delle contraddizioni economico-sociali che impedisce alla borghesia di instaurarla, pone agli sfruttati ed al proletariato, anche nel Golfo, compiti "più avanzati". Richiamiamo solo la tua attenzione sulla sconfinata ipocrisia di quanti, dopo avere consumato nauseabondi festini per l'avvento della democrazia nell'Est Europa, marciano oggi senza batter ciglio, in assetto di pre-guerra, rivendicando che Sua Eccellenza l'emiro Sabah torni sul suo trono.