AUTOCONVOCATI: UNA ALTERNATIVA AL COLLABORAZIONISMO DI CGIL-CISL-UIL?


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Un contratto di categoria al ribasso, una controriforma annunciata del salario e della contrattazione con cui si vorrebbe fare del lavoro una variabile assolutamente dipendente dal profitto e dal mercato; la ripresa delle ristrutturazioni e della Cig; la pretesa di scambiare "nuova" occupazione - che non compensa i tagli avvenuti - contro aumento di sfruttamento (vedi i futuri stabilimenti nel Sud della multinazionale Texas Instrument e della Fiat, autorizzati alla flessibilità totale nell'organizzazione del lavoro, con sabati lavorativi e turni di notte anche per le donne): sono questi gli ultimi colpi che il padronato sta assestando alla classe operaia, mentre ritorna all'orizzonte la recessione economica internazionale.

Il Governo rincara la dose con leggi di restrizione del diritto di sciopero, una politica di prezzi e tariffe rigorosa solo verso il proletariato mentre ai padroni riserva succulenti incentivi e sgravi fiscali, una mediazione nella trattativa contrattuale che ha accolto tutte le richieste della Federmeccanica, a dimostrazione di quanto sia organizzato il fronte della borghesia e di quale concordia essa sia dotata, quando si tratta di disciplinare e sconfiggere la classe operaia.

In una situazione come questa, cosa rappresenti per i lavoratori la politica dei sindacati confederali, sempre più "responsabilmente" sottomessa agli interessi del capitale nazionale, è facile capirlo. Le molte concessioni fatte al primato del profitto e al mantenimento della tregua sociale, lasciano la classe operaia priva di adeguati strumenti di difesa immediata.

Non c'è da meravigliarsi se da qualche tempo i lavoratori manifestano il loro malcontento, a diversi livelli e con molteplici espressioni. L'episodio più clamoroso si è visto durante la stagione contrattuale dei metalmeccanici, con la contestazione della proposta di piattaforma Fiom-Fim-Uilm: una protesta che, al di là di come si presentava - bocciatura della piattaforma, emendamenti, ecc. - nella sostanza suonava come una richiesta di difesa più adeguata delle proprie condizioni materiali, di rimettere al centro le necessità operaie e non le "compatibilità" col sistema economico.

In questo quadro il movimento degli autoconvocati metalmeccanici, malgrado i suoi limiti nel contrastare realmente gli effetti della politica sindacale, è una spia abbastanza eloquente del crescente malessere operaio, come l'esperienza maturata durante la fase contrattuale ha messo in luce. All'ultima assemblea degli autoconvocati metalmeccanici del 10 gennaio scorso a Sesto San Giovanni, a cui ha preso parte un alto numero di delegati e di lavoratori delle maggiori fabbriche, un grosso spazio negli interventi è stato dedicato al bilancio dell'ultimo anno di attività. Ma, francamente, non si è sentita una riflessione convincente. Proviamo allora a farla a modo nostro.

Inizialmente gli autoconvocati hanno avuto un ruolo di pressione nei confronti dei vertici sindacali, raccogliendo la spinta della base operaia ad una difesa al di fuori delle "compatibilità". L'assemblea del 16 dicembre 1989 a Torino (con la partecipazione di delegati delle fabbriche Fiat), mentre erano in corso interminabili discussioni preliminari delle segreterie nazionali, affermò con forza il diritto dei lavoratori ad incidere sui contenuti della piattaforma e indicò miglioramenti concreti di salario, orario e altre condizioni di lavoro, invitando le direzioni a tenerne conto.

Quando, poi, la piattaforma fu presentata, suscitando più di una protesta tra i lavoratori, l'assemblea nazionale autoconvocata del 6 febbraio 1990 a Milano, che raccolse qualche centinaia di delegati (da Milano, Torino, Roma, Napoli, Venezia), di nuovo si fece portavoce degli umori della categoria, chiese alle organizzazioni sindacali una consultazione "non solo formale" dei lavoratori e al tempo stesso lanciò una propria proposta di piattaforma alternativa, che in diverse fabbriche riscosse larghi consensi.

Ma dopo il sostanziale rifiuto delle direzioni di modificare la piattaforma, il movimento degli autoconvocati, piuttosto che incoraggiare i lavoratori a proseguire ed estendere la mobilitazione, concentrò la sua azione su una visione formalistica del problema della "democrazia" nel sindacato. Non a caso andò scemando anche la sua capacità mobilitante alle assemblee del 23 febbraio a Torino e a quella del 7 marzo a Milano l'area della partecipazione si era ristretta ai lavoratori più politicizzati, generalmente facenti riferimento all'area Dp-Lcr. Questa tendenza fu confermata dall'autoconvocata del 24 marzo e dalle successive scadenze.

Il resto è noto: anche i lavoratori più combattivi, che avevano promosso il NO e il Si condizionato, si sono trovati costretti a difendere la piattaforma contestata, augurandosi di vederla passare così com'era di fronte al pericolo di ulteriori svilimenti, senza poter impedire l'indietreggiale continuo del sindacato davanti all'aggressività padronale-governativa, e la conclusione di un modestissimo contratto-ponte fino all'incognita di giugno prossimo, rispetto alla quale i recenti auspici di "nuove relazioni industriali" non promettono nulla di buono.

La posta in gioco al di là della piattaforma

Questa vicenda avrebbe dovuto suggerire una autocritica, che però non c'è stata. Innanzi tutto gli autoconvocati - in questo non da soli hanno sottovalutato la portata dell'attacco capitalistico. Sette anni di tassi positivi di sviluppo economico nazionale, di conti aziendali tutt'altro che in rosso ed un contratto per il pubblico impiego chiuso con aumenti consistenti sembravano precedenti favorevoli ad un accordo contrattuale soddisfacente per i lavoratori, mentre in realtà il padronato aveva l'intenzione e la necessità di andare ad una fase di attacco ai lavoratori più pesante, in una situazione internazionale in cui il logoro meccanismo della produzione capitalistica cominciava a incepparsi nuovamente.

In secondo luogo è stato, invece, sopravvalutato il movimento di base nato all'apertura della fase contrattuale e culminato con le contestazioni della piattaforma. Ci si è illusi di poter vincere uno scontro obiettivamente molto duro senza raggiungere un'unità operaia ampia, unificando le diverse risposte provenienti dalle fabbriche e senza rivitalizzare TUTTA la massa dei lavoratori rimasti estranei o "tiepidi" in questa battaglia. Non si poteva dare per scontato che le realtà più arretrate entrassero in campo più o meno per imitazione, né si poteva fare a meno di loro.

Dopo molti anni di attacco padronale sul posto di lavoro, di arretramenti materiali e ideologici dovuti alla linea sindacale - e di campagne orchestrate dagli apparati della borghesia, con l'inevitabile effetto demoralizzante, sulla presunta "scomparsa" del proletariato e degli antagonismi sociali, il crollo del cosiddetto socialismo dell'Est… fino al disfacimento del Pci, intento ad abolire se stesso come riferimento del polo anticapitalistico della società - il fronte operaio, per quanto lanci importanti segnali di ripresa, si trova ancora in una situazione complessiva di scompaginamento e non ha riconquistato un alto, stabile e cosciente livello di conflittualità organizzata.

Perciò il proletariato (poiché è chiaro che la cosa non riguarda i soli metalmeccanici) ha bisogno innanzi tutto di riorganizzarsi, recuperando la fiducia in sé e nelle possibilità di modificare a proprio vantaggio i rapporti di forza, e dotandosi di una linea di reale autodifesa. Questo può avvenire solo attraverso un percorso di lotta, non l'esplosione di un momento, che coinvolga la grande massa. Ma, invece di lavorare per lo sviluppo del movimento, gli autoconvocati non hanno puntato che a far ritirare una piattaforma "inadeguata" per sostituirla con un'altra "migliore", senza curarsi di predisporre la forza necessaria ad imporla, al padrone prima ancora che ai burocrati sindacali.

I lavoratori avevano, certo, una forte aspettativa di poter strappare miglioramenti sul piano delle condizioni salariali e di lavoro, ma poi, quando il sindacato ha fatto orecchio da mercante verso il pronunciamento critico delle assemblee, questa stessa massa, benché scontenta, ha finito per ripiegare. Così pure durante i successivi mesi di trattativa, su una piattaforma che ormai nessuno aveva più la forza di mettere in discussione, i lavoratori non sono riusciti a contrastare le "proprie" direzioni nella loro gestione di contenimento del conflitto e a sviluppare sufficientemente la propria autonoma iniziativa, se non in parte nella fase conclusiva, in cui la rabbia è tornata ad esplodere.

Per parte loro gli autoconvocati, quando è apparso impossibile ottenere la modifica della piattaforma, hanno ritenuto che la sola causa delle difficoltà della lotta fosse la mancanza di democrazia nelle organizzazioni sindacali: erano i burocrati che, facendosi forti di un potere quasi assoluto di rappresentanza sindacale, impedivano agli operai di far valere democraticamente la propria opinione. Tutto qui l'inconveniente. Di conseguenza, il loro impegno si è concentrato sul modo in cui rimuovere QUESTO ostacolo, e la soluzione è stata ricercata nell'ambito istituzionale-legislativo borghese: una riforma degli organismi elettivi di rappresentanza nei luoghi di lavoro, poiché attualmente "le strutture di base e i Cdf sono in crisi. La strada più opportuna può essere l'iniziativa di legge, dice l'assemblea nazionale di Torino del 23 giugno 1990.

Hanno insomma cercato una scorciatoia rispetto alla difficile via dell'allargamento della lotta di classe. Invece di raccogliere la richiesta di lotta che proveniva da quei NO e quei Sì condizionati, hanno finito per contribuire a bloccare quell'iniziale movimento, deviandolo nelle secche di una "querelle" sulla democrazia rappresentativa, proprio nel momento in cui c'era bisogno della massima mobilitazione per sfondare le barricate della Federmeccanica.

Democrazia borghese e "democrazia operaia"

Si è arrivati così a rivendicare, come mezzo di soluzione dei problemi della classe operaia, la democrazia borghese! "La democrazia va applicata nel paese e nel sindacato", si legge nella relazione all'assemblea del 7 marzo. Ma la pratica autoritaria delle direzioni sindacali non è frutto di un'astratta "degenerazione" della democrazia, cui bisogna contrapporre la "riaffermazione degli autentici valori democratici"; dipende dalla loro posizione tra un sistema capitalistico sempre più totalitario, di cui sono il puntello, e le tensioni operaie. Lo scollamento dei vertici dalla base copre il crescente indebolimento della loro funzione di difesa dei lavoratori a misura che procede la loro integrazione nella democrazia imperialista. Di conseguenza gli accordi di svendita non risultano da una insufficienza di rappresentanza, ma dall'UNICA rappresentanza che in tale ambito essi possono assicurare.

La democrazia borghese è, né più né meno, l'ordine capitalistico: i lavoratori non hanno bisogno di un capitalismo più democratico ma di scrollarsi di dosso una condizione che diventa sempre più schiacciante con l'unico mezzo che hanno, la lotta contro l'ordine della borghesia. La democrazia sindacale (che non coincide affatto con quella rappresentativa), invece, è un obiettivo dei lavoratori: non per se stessa, quanto come strumento per affermare le esigenze operaie e, perciò, non può essere separata dai contenuti e dal pieno sviluppo della lotta.

"Il conflitto è il fondamento della democrazia", dicono gli autoconvocati all'assemblea del 23 giugno. Questa enfasi sulla democrazia (borghese) è del tutto mistificante perché tace dei conflitti e del dominio di classe che sono alla base della società democratica. Dietro il velo delle forme più garantiste, rimane la sostanza immobile della condizione di sfruttamento dei lavoratori. In quanti casi la democraticissima regola del voto si è rivelata contraria agli interessi della classe operaia (v. referendum sulla scala mobile)?

Non che non sia necessario denunciare e combattere una pratica sindacale centralizzatrice, che esclude ormai sistematicamente lavoratori e strutture di base da ogni decisione: il MODO di muoversi per contrastarla, scegliendo il terreno legalitario come surrogato della lotta in fabbrica, è perdente. Questa concezione formalistica della democrazia sindacale non ha fatto compiere neppure un passo avanti alla "democrazia operaia" (chiamiamola così, con un termine improprio, per distinguerla dall'altra), che consiste nel più ampio discendere in campo e nell'organizzazione per la lotta della classe operaia.

Rappresentanze "nuove", ma non troppo

In tutti i paesi dell'Occidente la normativa che regola l'associazionismo sindacale è cambiata nel tempo, rispecchiando l'evoluzione delle condizioni economico-sociali. Le stesse forze borghesi sono oggi interessate ad un certo svecchiamento del principio maggioritario e proporzionalistico sancito dall'art. 39 della Costituzione ("I sindacati… possono, rappresentati unitariamente in proporzione ai loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro), e dallo Statuto dei diritti dei lavoratori (le Rsa sono formate nell'ambito delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative o firmatarie di contratti collettivi nazionali) per la necessità di trovare una diversa, al fondo più autoritaria, forma di regolamentazione stabile delle tensioni nel mondo del lavoro.

In Parlamento attendono di essere discusse due proposte di revisione dell'art. 39: una, primo firmatario G. Giugni, allarga il concetto di "maggiore rappresentatività", redistribuendo alcune prerogative sindacali tra quelle associazioni che riescono a raggiungere un certo quorum di voti aziendali; l'altra, presentata da Ghezzi, Zangheri ed altri è più "pluralista", riconosce un pacchetto di diritti di base a qualsiasi associazione sindacale, senza riferimento alla sua consistenza numerica, pur mantenendo una norma che premia la maggioranza e l'unità dell'azione sindacale.

A queste proposte si è aggiunto il disegno di legge di Democrazia Consiliare, ripreso da Charta '90 e da Forum Diritti/Lavoro, che prevede un nuovo tipo di rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro (Rul) che, sottoposte alla verifica elettorale dei dipendenti dell'azienda, sono titolari uniche del potere di stipulare contratti collettivi aziendali, e per quelli nazionali partecipano alla delegazione trattante (delegati di piattaforma). Anche le RdB hanno formulato una loro proposta sulle "libertà sindacali" che estende una serie di diritti e poteri, con verifica referendaria, direttamente ai dipendenti, purché raggiungano una certa percentuale.

Queste proposte, dalla più conservatrice alla più permissiva, sono, in realtà, varianti di una stessa operazione: sostituiscono al principio maggioritario un criterio d'ordine diverso, che di per sé non aumenta l'autodeterminazione dei lavoratori; accreditano l'idea che lo Stato borghese sia un'organizzazione "super partes", da cui i lavoratori possono attendersi buone regole. Ma queste "nuove regole", a ben vedere, non sono lontane da quelle vecchie. Dal punto di vista degli interessi di classe, la riflessione che si sta sviluppando sul problema della rappresentanza potrà fare un passo avanti solo se ci si misura con il problema della ripresa del movimento: il che vuol dire risalire dal terreno dei "diritti" a quello dei rapporti di forza reali.

Come già accadde negli anni '70 per i Cdf, nuovi organismi delegati operai prenderanno forma quando il livello della lotta salirà al punto necessario. Se dovessero arrivare come frutto di una regolamentazione "dall'alto" (cosa non improbabile nelle iniezioni della stessa borghesia), di chi sarebbero portavoce e quale forza avrebbe la loro azione? La sola garanzia di non andare a legittimare "nuove" rappresentanze incapaci, quanto e forse più delle "vecchie", di recepire le esigenze dei lavoratori, è che si spezzi la stasi di tanta parte della classe lavoratrice. I delegati attingeranno la "titolarità" a varare piattaforme e firmare accordi più dal movimento che da norme giuridiche.

Creare un nuovo sindacato?

Che dire, infine, di quelle componenti degli autoconvocati che in questa battaglia contrattuale hanno scelto di non aderire, anzi, di sabotare gli scioperi indetti dal sindacato? Che la loro idea è stata veramente micidiale e suicida. Lo si è potuto constatare all'Alfa-Lancia di Pomigliano, ed è stata costretta a farlo anche una parte degli stessi autorganizzati dell'azienda, quando l'esperienza ha mostrato interamente i suoi limiti. Il gruppo di base, che nacque all'Alfa dalla protesta contro l'imposizione dell'accordo dell' 8-3-89, poteva essere un primo tentativo di organizzare più stabilmente forze non subalterne al padrone, in una fabbrica che conosce spesso scoppi improvvisi ma discontinui; tuttavia esso non seppe sciogliere correttamente il nodo del rapporto con gli altri lavoratori. Prevalsa una linea separatista, con il programma di formare un altro sindacato, gli autorganizzati si sono trovati privi di seguito: deboli loro, indebolita la lotta della fabbrica.

Per quanto la tentazione di "fare da sé" o "con chi ci sta" sia forte, nelle condizioni attuali di frammentazione del fronte, la creazione di un altro sindacato sarebbe una semplice forzatura organizzativa. Significherebbe dare vita ad un organismo necessariamente ristretto, minoritario, continuamente esposto al pericolo di diventare espressione di spinte corporative. Non avendo la possibilità di un rapporto autonomo con la più larga massa dei lavoratori, non rappresenterebbe la classe meglio delle confederazioni. Indebolendo il potere di contrattazione sindacale, esporrebbe tutta la classe ad attacchi più duri.

Questa tentazione, pur - a quanto sembra - minoritaria, era presente nell'ultima assemblea del 10 gennaio. In questa occasione, benché alcune realtà di fabbrica siano portatrici di una pratica notevolmente differente, ancora una volta il problema della democrazia sindacale è stato posto in termini di nuove strutture e nuove norme "più democratiche" di rappresentanza; assolutamente negativa l'idea di alcuni di integrare i magri risultati del contratto attraverso trattative aziendali separate, dunque con strumenti riservati a poche e più grandi aziende. L'illusione di poter percorrere vie separate, ottenendo nella propria fabbrica ciò che l'intera categoria non ha raggiunto per difetto di mobilitazione, non fa che indebolire il fronte.

In definitiva, nonostante un atteggiamento rivendicativo più duro, gli autoconvocati non hanno espresso una posizione realmente alternativa al collaborazionismo sindacale, nel senso di una prospettiva generale fondata davvero sull'unità e la lotta per affermare gli interessi autonomi della classe operaia, né durante la lotta contrattuale né dopo la sua chiusura.

A conclusione del contratto dei metalmeccanici bisognava chiedersi come tenere in piedi la mobilitazione nelle fabbriche, impedendogli di rifluire nel dopo-contratto, come trasformare il vasto disaccordo sulla conclusione del contratto in una spinta a riorganizzarsi, sia per contrastare la pressione martellante dello sfruttamento nelle singole fabbriche, sia per arrivare alla trattativa di giugno sulla contrattazione e sul costo del lavoro con un movimento forte, in grado di porre precisi vincoli ai vertici sindacali (al di là di una raccolta di firme), ma, ancora una volta, gli autoconvocati hanno eluso i nodi centrali dello scontro di classe, che sono quelli che una effettiva alternativa al collaborazionismo sindacale deve saper sciogliere.

La stessa idea di costituire comitati (di difesa degli automatismi sarà valida solo se questi comitati sapranno conquistarsi un seguito di massa nei luoghi di lavoro, se sapranno unire i lavoratori a prescindere dalla loro collocazione politica e sindacale, se sapranno aprire una reale mobilitazione nella comune necessità di difesa delle condizioni di lavoro e di vita.