Gli schieramenti anti-borghesi nella guerra del Golfo

IL VALORE DELL'INSORGENZA ANTI-IMPERIALISTA



L'articolo che segue, scritto molto prima dello scoppio delle ostilità, si prefiggeva non tanto di "fotografare" le forze anti-borghesi in campo, ma di fare il punto sulla loro situazione immediata nella previsione di una dinamica inevitabilmente e - si spera - salutarmente destinata a modificarne gli assetti. E la logica di questa dinamica che ci interessava e ci interessa indagare in vista dello sbocco cui noi tendiamo.

In questo senso (e non certamente in quello di una cronaca da "ultimissime della notte") esso conferma la sua attualità e la sua validità.


Come abbiamo scritto nel numero precedente, lo scioglimento in senso per noi positivo del "conflitto del Golfo" dipende da una serie intrecciata di plurimi fattori. Il primo di questi sta nell'afflato anti-imperialista delle masse oppresse direttamente chiamate in causa dall'aggressione occidentale.

Ebbene: possiamo salutare oggi come un primo risultato, del massimo rilievo che queste masse abbiano immediatamente inteso, con sicuro istinto di classe, il senso del conflitto in corso (non Bush contro Saddam, non "certi paesi" contro l'Iraq, ma: imperialismo occidentale contro l'insorgenza delle masse oppresse arabo-islamiche) ed abbiano risposto ad esso con una massiccia testimonianza popolare di disponibilità alla lotta. Il ricatto occidentale, costruito sulle accuse di infamia al regime di Hussein (che infame lo è davvero, ma per tutt'altre ragioni che quelle per cui gli Usa lo vorrebbero alla gogna), non è valso in Iraq a saldare le sacrosante ragioni di opposizione a questo regime alle grandi manovre imperialiste volte a sfruttarle per mettere in piedi un "disfattismo interno" a suo uso e consumo. Partiti, nazionalità e classi oggettivamente interessate al rovesciamento del regime baasista hanno fatto sapere al signor Bush (e a tutta la "comunità internazionale" con lui solidale) che la ragione della loro opposizione a Saddam. non viene assolutamente a cessare, ma non si darà disertando dalla lotta antimperialista o addirittura affidandola alle buone sorti delle cannoniere imperialiste: al contrario, potrà darsi utilmente proprio mettendosi in prima linea in questa lotta, spingendola oltre i calcoli e le furbizie, del tutto inconseguenti, del "rais", armando direttamente gli oppressi e chiamandoli all'esercizio del potere. Un'effettiva "democrazia dei consigli" in armi potrebbe sbarazzarsi facilmente del regime di Saddam ove si dimostrasse capace, in prima persona, di far fronte all'aggressione dell'imperialismo occidentale.

Questo hanno ben sentito le masse povere irachene, non perciò riappacificate o ricomposte quale pecorame informe dietro un regime contro il quale hanno mille ed una ragione di risentimento. Ed è tanto vero che s'è subito visto il regime provvedere a porre degli argini contro questa marea montante dal basso, ad esempio "congelando" l'armamento diretto sollecitato dalle masse e costringendo i volontari a mettersi in (inutili) liste d'attesa ("se mai ce ne fosse bisogno…"). E nella logica storica dell'ordine borghese, infatti, fin nel corso del suo definirsi per via rivoluzionaria, guardare con orrore alla presa in carico da parte delle masse popolari dei compiti borghesi stessi "spinti sino in fondo", sapendo che di lì si sprigionerebbero fiamme di rivolta non solo contro il vecchio, ma anche contro il nuovo "ordine", secondo le leggi della "rivoluzione in permanenza" delineate da Marx. Un certo "sostegno sino in fondo" da parte delle masse oppresse a Saddam Hussein sarebbe costretto a farsi strada contro di lui e rappresenterebbe per esso il classico sostegno della corda all'impiccato. Non diciamo che questo stia già nel "menù", ma, insomma, qualche decisivo passo in tal senso si è compiuto.

Non solo. All'indirizzo delle masse irachene - questo è quel che più stupisce e spaventa i nostri nemici! -, ha corrisposto un concorde indirizzo da parte dell'insieme delle masse sfruttate della regione. Nel giro di pochi giorni, ad esempio, il re giordano ha dovuto inchinarsi (per il momento almeno, ed immaginiamo con quante e quali speranze di rivalsa!) al volere della strada, all'invocazione dell'armamento popolare per la "guerra santa". L'Olp, in quanto organo statuale borghese senza territorio, è stato indotto alla stessa "scelta", in una sua parte (minoritaria) per propria volontà (Habbash e soci; e lasciamo stare qui la questione della "consequenzialità rivoluzionaria anti-imperialista" che neppure ad essi concediamo), in un'altra, ufficialmente maggioritaria (Al Fatah) per non rischiare di vedersi delegittimata sul campo (in ogni caso schierandosi con lo stato iracheno, non con le masse, e mostrando di dover ingoiare con ciò un rospo con la speranza di poterlo risputare al più presto). Manifestazioni analoghe si sono avute in Algeria, Tunisia, Marocco, Sudan, Egitto (dove un emerito mascalzone è stato fatto, non metaforicamente, saltare in aria). Non basta: nello stesso Iran, di certo non immemore della guerra decennale scatenata contro di esso (contro la sua originaria rivoluzione di popolo), non s'è abboccato all'amo imperialista. Improvviso innamoramento per Saddam Hussein? Davvero non è credibile. Vero invece è che anche qui s'è perfettamente colta la sostanza del conflitto in corso: di manomissione imperialista su tutta la regione si tratta e ad essa dobbiamo saper rispondere. Non stiamo "con" Saddam Hussein, stiamo contro l'imperialismo; se si dovrà togliere di mezzo il rais, questo dev'essere "affare nostro" per, e non contro, gli interessi della lotta anti-imperialista.

A chi può piacere tutto questo? A Saddam Hussein? Anche, se vogliamo, ma solo sino ad un certo limitatissimo punto. Qualcuno potrebbe dire che sta bene a costui presentarsi nella veste di un "nuovo Saladino", unificatore, sotto le bandiere dell'Iraq, di tutto il mondo arabo-islamico. Ma è credibile che egli possa, prima ancora di volere, percorrere questa strada? Che, lungo un ipotetico tragitto lungo di essa, non avrebbe a che fare con lo sconvolgimento di tutti i rapporti, economico-sociali e politici, che deriverebbero da un'effettiva "guerra santa" dell'insieme dell'area medio-orientale? Il nostro "Saladino", per parte sua, se ne rende perfettamente conto e non a caso agisce in controsenso a quest'ipotesi.

Altro discorso è quello relativo ai limiti entro i quali si muove l'attuale mobilitazione delle masse arabe. Essi esistono senz'alcun dubbio e ad essa non consegue direttamente ed immediatamente l'unificazione rivoluzionaria della regione. Le manovre delle borghesie locali han luogo, più o meno facile, a misura che essa è ancor lungi dal delinearsi. Si deve inoltre sempre tener bene a mente alcune considerazioni marxiste: che l'unico anti-imperialismo conseguente può esser solo quello che s'inscrive nella rivoluzione comunista internazionale, sotto la direzione del suo partito e che neppure la più fervida manifestazione di "spontaneità" anti-imperialista può sopperirvi, meno che mai nel ristretto di un'area (ancorché incandescente al massimo grado) in cui mancano gli elementi oggettivi sufficienti a superare i confini del sistema borghese. Abbandonata a sé stessa, anche un'autentica rivoluzione "di popolo" contro l'imperialismo non potrebbe spezzare le catene su cui si regge lo sfruttamento imperialista; riuscirebbe, al massimo, "unicamente" a ripulire il campo interno dalle forze borghesi più compromesse con l'imperialismo in vista di passaggi (o "tappe") successivi. Non stanchiamoci perciò di ribadire che alla magnifica dimostrazione di volontà rivoluzionaria da parte delle masse arabo-islamiche deve venire in soccorso un nucleo almeno di partito comunista in loco e, soprattutto, una saldatura del movimento "locale" con un rinato movimento di classe (e un rinato partito rivoluzionario) nelle metropoli.

Per ricordare

Il 23 maggio 1915appariva sull' "Avanti!", a firma A. Bordiga, un articolo dal titolo " Il fatto compiuto ", in cui esemplarmente si rispondeva al quesito sul "che fare quando la guerra, da noi non voluta ed avversata, è tuttavia scoppiata?". Che fare quando "i nostri figli", la "nostra patria" è in pericolo?

Ci piace riportarne qui la chiusa, tuttora e più che mai attuale:

In questo momento storico sarebbe deplorevole se il Partito socialista italiano, nel caso di una guerra, si lasciasse far prigioniero della situazione, si lasciasse legare le mani in una qualsiasi solidarietà con la borghesia, sacrificando la continuità logica del suo atteggiamento politico.

Il pacifismo borghese, movimento sterile e per nulla rivoluzionario, può arrestarsi dinanzi alla guerra inutilmente avversata, e ricordarsi solo della necessità di salvare la patria. Ma il socialismo, antimilitarista perché antiborghese, non deve desistere dalla propria azione dinanzi allo scoppio di una guerra, non deve lasciarsi vincolare da scrupoli patriottici. Altre forze, altri fattori sociali, altri partiti pensino alla salvezza della nazione, se a loro è noto il contenuto di quel termine alquanto astratto. Il Partito socialista non ha e non può avere altra missione che quella di salvare il socialismo (…). Il socialismo italiano, malgrado la triste guerra a coltello di vecchi e nuovi avversari, deve, e saprà - avvenga o non avvenga la guerra - passare attraverso l'incendio e la rovina tenendo alta la bandiera, sicuro di trovare domani solidali col suo atteggiamento i lavoratori degli altri paesi ridesti dal sonno sanguinoso di distruzione e di strage.

Per questo, mentre diamo tutta la nostra incondizionata solidarietà al movimento anti-imperialista in atto nel Medio-Oriente, cui attribuiamo "comunque" il più alto valore dirompente possibile, non stiamo alla coda di esso - che significherebbe una cosa soltanto: tradirlo -, e poco ci cale di trovarci spiazzati sul mercato da certa "concorrenza" che accorre ad allisciare le forze del mondo arabo-islamico "che contano" in funzione di mosche cocchiere. Appoggiare "sino in fondo" la tendenza rivoluzionaria presente non deve significare far fronte comune con i Ciang Kai-Schek locali ed arruolarsi (nel comodo delle "libera espressione di idee") dietro di essi. Deve significare, al contrario, far leva sulle potenzialità e contraddizioni che sprizzano, a miliardi di scintille, dalla situazione presente per porre concretamente in primo piano contenuti e funzione del partito comunista e la più completa autonomia della masse medio-orientali rispetto alle "proprie" direzioni borghesi. Tutto il resto è ristampa economica dei classici dello stalinismo, affossatore della rivoluzione proletaria e, con essa, dello stesso moto di liberazione nazional-coloniale "sino in fondo".

Da questo non deriva assolutamente, però, la conclusione che "la crisi sociale che questa guerra provocherà in tutta l'area, dall'Iraq alla Giordania, alla Siria, agli Stati del Golfo (e forse un pochino più oltre, n.n.), in mancanza di un potente movimento rivoluzionario in Occidente, non potrà risolversi che in maniera favorevole all'imperialismo e ribadire, magari sotto nuove forme e in Stati dai diversi confini e regimi, i vecchi rapporti di sfruttamento e di oppressione." ("Il Partito Comunista", n. 186, settembre-ottobre '90).

Con Bordiga noi diciamo: vero è che la chiave della soluzione definitiva della questione, sta in un "potente movimento rivoluzionario in Occidente" e nel partito comunista internazionale; ma è altrettanto vero che la crisi sociale sopra evocata è destinata a non lasciare affatto, in ogni caso, le cose "come (o peggio di) prima". Questa deduzione è falsa riferita all'area, dal momento che le masse sfruttate vi sono chiamate, e si chiamano, ad una "scuola di guerra" estremamente salutare, ma soprattutto ha il difetto di non vedere come lo sconvolgimento sociale ivi scatenato non si limiti a quest'area, ma si trasmetta all'Occidente, anche "in assenza…". Non a caso, nel passato, abbiamo stabilito il nesso indissolubile che ha legato i moti di liberazione nazional-coloniali in paesi quali l'Algeria e il Congo alla riattivizzazione del proletariato metropolitano. Quest'ultimo può definirsi sì come il "terminale" decisivo dello scontro di classe internazionale, ma esso stesso è un "terminale"che ha bisogno, per rimettersi in funzione, delle sacrosante pedate dalla periferia.

Repetita juvant. "Per il marxismo, la rivoluzione è un fatto internazionale, una catena i cui anelli reagiscono gli uni sugli altri: i movimenti coloniali sul movimento proletario, indebolendo la borghesia delle metropoli e rilanciando ivi la lotta a scadenza più o meno breve; poi l'azione di ritorno del proletariato d'avanguardia sulle masse dei paesi di colore (…). Persino la sconfitta delle masse anti-imperialiste - per esempio l'arresto a livello borghese della lotta per l'emancipazione - è di per sé feconda, se genera (e non può non essere così se v'è stata lotta) le forze e gli strumenti "oggettivi" delle conquiste future, più durature (…). Se il proletariato metropolitano non si muove, l'avanguardia marxista si rallegrerà egualmente della disfatta dell'imperialismo e della vittoria delle forze anticoloniali, anche se la loro lotta resta temporaneamente a livello borghese". ("L'incandescente risveglio delle 'genti di colore' nella visione marxista", 1961).

La svalorizzazione del movimento anti-imperialista in corso altro non significa che il duplice sabotaggio della lotta rivoluzionaria là e qui ed offre incoscientemente armi a quanti, in seno al proletariato metropolitano, sostengono che l'attuale insorgenza delle masse arabo-islamiche "non ha niente a che fare con noi" con la vera rivoluzione", trattandosi di pure beghe inter-imperialistiche (tra piccoli e grandi satanassi) in cui non farsi coinvolgere "in attesa che…

La risposta in Occidente

Ribadiamo: la lotta anti-imperialista in corso chiama direttamente in causa il proletariato occidentale, non per motivi di astratta "solidarietà" o meno con essa, ma perché esso proletariato, anche se "non lo sa", è coinvolto in essa; perché l'oppressione imperialista esercitata contro le masse arabo-islamiche è l'altra faccia ("diseguale", certo) dell'attacco capitalista contro l'insieme del.proletariato e delle classi oppresse di tutto il mondo; perché, ove il proletariato occidentale non riuscisse a svincolarsi dall'abbraccio mefitico col "proprio" capitalismo e magari contribuisse alla sconfitta del movimento anti-imperialista, solo illusoriamente potrebbe continuare ad approfittare delle "briciole" che gliene deriverebbero in subordine in quanto, di fatto, si troverebbe più esposto ai ricatti ed alla forza stritolatrice del capitalismo, una volta tagliati i ponti coi propri fratelli di classe medio-orientali. L'imperialismo mira a "balcanizzare non solo i paesi sotto suo controllo, ma lo stesso Il "suo" proletariato, ed è chiaro come ciò porti ad un indebolimento di questo su tutta a linea.

Ebbene, a che punto stiamo sotto questo profilo? Ad un punto estremamente basso, se non proprio a zero. Ne prendiamo atto.

Il proletariato occidentale non e assolutamente sceso in campo preventivamente contro la minaccia di guerra imperialista per impegnare contro di essa la propria forza di classe. Addirittura sembra non aver neppure inteso la portata di questa minaccia e le sue possibili (o necessarie) conseguenze. Per restare all'Italia, addirittura le lotte contrattuali dei metalmeccanici anziché legarsi a quella contro la guerra, rafforzandosi su entrambi i fronti, son quasi valse - sotto l'accorta regia dei capi "riformisti" -, a stornare l'attenzione dei proletari dalle "lontane" e "normali" (non doveva trattarsi di una semplice operazione di "polizia"!), vicende medio-orientali.

Se dei proletari sono scesi in piazza a manifestare "per la pace" lo hanno fatto, oltre che in numero proporzionalmente ridotto, in quanto individui ed al seguito di iniziative riflettenti gli umori, gli indirizzi e gli interessi di altre classi. Diciamo pure: al seguito della massa piccolo-borghese che, finché la barca va, "ripudia la guerra" ma, per la sua stessa natura sociale, non può spingersi alla conseguenza di vedere (ed attaccare) nel capitalismo la radice materiale della guerra stessa, in quanto ciò significherebbe emettere una condanna storica anche nei confronti del proprio "ruolo" sociale.

A relativa distanza dallo scadere dell'ultimatum del 15 gennaio, le manifestazioni che si sono avute in Occidente si sono univocamente espresse coi volto del piccolo-borghese "sinceramente preoccupato", ostile alla soluzione militare, rabbioso persino per la piega presa dagli eventi, ma perfettamente smarrito e impotente. Si è partiti con gli inviti alla "ragionevolezza" (naturalmente conditi da severe condanne anti-Saddam), la richiesta dei poteri d'intervento in "esclusiva" all'Onu (preteso organo di "governo mondiale" super partes) per arrivare sino alla risoluzione "eroica" che "il nostro paese non deve entrare in una guerra che non ci riguarda", che "è contraria alla nostre carte costituzionali", che -addirittura! - "non dobbiamo lavorare per gli Usa" ("per l'Europa" sarebbe un altro discorso…). Solo in pochissimi casi si sono avute manifestazioni (ultraminoritarie, ma non certo per questo disprezzabili!) connotate in senso anti-imperialista e di solidarietà con le masse oppresse del Medio Oriente che un'autonoma presenza proletaria avrebbe potuto trasformare da testimonianza di buone intenzioni in un inizio di effettiva mobilitazione anti-imperialista.

Diciamolo chiaramente: se diamo una valutazione fredda e severa delle manifestazioni "pacifiste" prebelliche e del loro inconcludente carattere piccolo-borghese non è perché vediamo in esse l'unico od ultimo ostacolo al libero dispiegarsi della soluzione proletaria, ma perché, al contrario, vediamo nell'assenza del proletariato la ragione prima di situazioni di stallo e deviazione di un movimento di lotta che - in diversa ipotesi - potrebbe vedere stretti col e dietro il proletariato, con e dietro un programma ed un'organizzazione comuniste, stragrandi masse non proletarie coinvolte negli effetti distruttivi del capitalismo ed anche disposte a contrastarli alla radice in presenza di una guida reale.

Quando parliamo di carattere piccolo-borghese di queste manifestazioni non lo facciamo, quindi, nel vuoto o per astratta contrapposizione di categorie metafisiche. sappiamo che, comunque, di fronte allo scatenarsi della guerra, una parte-di questo movimento andrebbe a riconfluire nel lealismo borghese guerraiolo e guerrafondaio, ma non è questo il problema. Il problema sta nell'urgenza che il proletariato torni a scendere in campo "per sé" offrendo un indirizzo a quella parte rilevante delle masse che si trova attualmente bloccata e priva di prospettive al livello attuale del movimento. Questa parte (qui scandalizzeremo qualcuno) ha dato un segnale al proletariato; spetta a quest'ultimo raccoglierlo conseguentemente.

Ma perché, sino ad oggi, il proletariato sostanzialmente tace?

I motivi sono molteplici, tutti legati tra loro.

Primo. Una spessa coltre di grasso protettivo avvolge tuttora la metropoli e ciò ha permesso all'imperialismo negli ultimi anni (in certi casi: negli ultimi decenni) di gestire un' "onorevole" pace sociale al proprio interno, senza dover immediatamente e massicciamente scaricare sul proprio proletariato oneri insostenibili (i peggioramenti delle condizioni occupazionali, normative, salariali - pur se rea - sono stati limitati e selettivi con spazi persino per "premiare" certi settori di aristocrazia operaia).

Secondo. Se è vero che ciò ha comportato un parallelo aggravamento, oltre ogni limite, nelle condizioni di vita (di schiavitù) del proletariato del "Sud del mondo", è anche vero che tra le due sezioni del proletariato mondiale (delle metropoli e della "periferia") non si è data alcuna saldatura, ma si è fatta al contrario strada una crescente divaricazione.

Terzo. Questo stato di cose si spiega, sul versante soggettivo, con il venir meno (all'indomani della sconfitta del proletariato rivoluzionario compiutasi sul finire degli anni venti) di una tangibile prospettiva marxista ed il giganteggiare di vecchi e nuovi (peggiori questi!) "riformismi" in corsa a precipizio sulla china del più infame "socialsciovinismo".

L'insorgenza delle masse oppresse dall'imperialismo, come s'è detto, pur nel suo tragico isolamento attuale (con tutto quel che ne consegue), varrà ad impedire che un capitalismo in preda ad una storica crisi possa tranquillamente scaricare su di esse le proprie contraddizioni. Con ciò la prima condizione dell'assenza dalla scena del proletariato metropolitano sarà sensibilmente rimossa. A partire la qui spetta anche a noi, all'avanguardia rivoluzionaria, far sì che siano superate le altre due. E' il terreno "inesplorato" cui ci troviamo oggi di fronte.

Se guardiamo a questa prospettiva, vediamo che esiste qualche motivo a nostro conforto. Fotografando la situazione, ci accorgeremo che è vero sì che il proletariato non si è fatto (ancora) sentire "in conformità a quel che esso è ed a ciò che deve divenire", ma è anche vero che non si è fatto assolutamente intrappolare nell'isteria nazionalista e guerrafondaia. Nessun arruolamento dietro le insegne armate della "patria". Il sentimento prevalente è stato sin qui quello della non coscienza della posta in gioco e dei suoi possibili costi, con una cauta accettazione dell'ideologia "onuista" propagata dai capi ufficiali come soluzione indolore della questione ed una petizione di fondo per una via d'uscita "comunque" pacifica (perlomeno per quanto riguarda "il nostro paese", la nostra pellaccia) ed un marcato senso di ostilità verso gli esclazionismi alla Bush od alla Thatcher (in Usa e Gran Bretagna ciò si è ovviamente tradotto in sia pur platonica ostilità verso il "proprio" governo).

E questo un dato estremamente importante in vista del futuro.

Stanti queste condizioni, infatti, un precipitare della situazione nella guerra guerreggiata che vedesse decisamente innalzati i costi in contanti ed in vite umane potrebbe spingere una parte almeno del proletariato verso un più concreto impegno "antibellico" che per forza di cose, si tradurrebbe in un inizio di disfattismo e sabotaggio nei confronti della propria borghesia e metterebbe a nudo i contorsionismi "pacifisti" delle organizzazioni "riformiste" in quanto puro e semplice armamentario di chiacchiere alla superficie e copertura delle "avventure" militari imperialiste nel fondo. Si aprirebbe così una dinamica della contraddizioni che costringerebbe il proletariato (e non solo esso) a bruciare i punti di partenza ed a porsi chiaramente di fronte al dilemma: o col fronte di guerra della borghesia, ad esso fornendo all'uopo la necessaria carne da macello, o sul fronte della lotta antiborghese a tutto raggio.

Il fatto che a tutt'oggi lo stesso "riformismo" non sia ancora arrivato, nonostante tutto, a sposare sino in fondo la causa del bellicismo imperialista e tantomeno a trascinare dietro di essa il proletariato, fa intendere che per la borghesia non saran tutte rose e fiori. E lo saranno ancor meno per i "riformisti": via via che cadono le granate a che valgono le preghiere e le fiaccolate, le suppliche all'Onu perché assolva "sovranamente" al suo ruolo di gendarme mondiale?, a che valgono le invocazioni ai propri governi perché "autonomamente" si ritirino da un campo di battaglia in cui si giocano i propri borghesi interessi? e basteranno a tacitare gli animi cinque minuti di "sciopero di riflessione"? Movimenti spontanei di opposizione e disobbedienza ("civile" e… meno civile) si determineranno al di fuori dei limiti entro i quali i "riformisti" li vorrebbero castrare. Assisteremo ad un generale rimescolamento delle posizioni da parte di tutte le forze, sociali e politiche, in gioco e questa sarà per noi un'occasione non da poco per propagandare e lavorare acché si dia un salto in avanti nella coscienza e nell'organizzazione del proletariato.

Mentre scriviamo siamo alla vigilia di tutto ciò. Quando questo giornale sarà uscito il quadro sarà di già, nel frattempo, modificato quanto alle posizioni che le varie pedine coinvolte nella tragedia militare andranno ad assumere. Non ci resta che confidare e lavorare affinché le nostre forze ne escano rafforzate: nel Medio Oriente, con l'infiammarsi della "guerra santa" oltre i confini entro i quali sin qui è stata soffocata; nelle metropoli, con l'uscita dalla logica delle marce francescane, della delega ai parlamenti, delle "proposte alternative" verbali dei collitorti "riformisti" ed il prorompere ovunque de battaglia: GUERRA DI CLASSE CONTRO LA GUERRA IMPERIALISTA! SOCIALISMO CONTRO CAPITALISMO!