Dopo l'operazione "Massacro nel deserto"

L'IRAQ È DEVASTALO E SCONFITTO, MA LA PACE IMPERIALISTA NEL MEDIO ORIENTE E NEL MONDO È ADESSO PIÙ LONTANA DI PRIMA

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L’"operazione internazionale di polizia" voluta dall'ONU è, per il momento, finita. L'alleanza imperialista con gli USA al posto di comando ha vinto. La bandiera degli emiri dell'Occidente sventola di nuovo sui "luoghi sacri" del Kuwait. L'indisciplinato Iraq è stato fatto a pezzi, ricacciato nell'era pre-industriale ed è tuttora parzialmente occupato. Alle istanze di riscatto delle masse sfruttate arabo-islamiche il capitalismo imperialista ha risposto con una Deir Yassin in grande. Ma le cancellerie imperialiste non possono farsi grandi illusioni. La loro "pace", strangolatoria per tutti i popoli del Medio Oriente, non potrà che alimentare quella ripresa della rivoluzione "anti-imperialista" di cui abbiamo visto, negli scorsi mesi, soltanto il prologo. E questa, a sua volta, scuotendo l'altrettanto rivoltante pace sociale delle metropoli, richiamerà in scena il proletariato, ben altro genere di nemico - per la borghesia imperialista - di un Saddam Hussein. Per quanto la propaganda dominante la dichiari annichilita, la prospettiva comunista rivoluzionaria inizia a riemergere, anche da avvenimenti quali la guerra del Golfo, come l'unica, reale alternativa alla barbarie del capitalismo in crisi.


Reazionari e democratici dei paesi imperialisti possono tirare un bel respiro di sollievo. Sotto la guida degli USA di Bush, l'impegno "altamente morale" di riportare sul suo trono il feudale autocrate del Kuwait è adempiuto. L'ONU ha di che congratularsi con se stessa, ed i suoi tanti fan, compresi quelli "di sinistra", pure. L'ordine internazionale violato dall'Iraq, ovvero il primato dei "nostri vitali interessi economici" in Medio Oriente e nel mondo, è stato restaurato. "Con tutti i mezzi necessari", come aveva richiesto il Palazzo di vetro.

Per centrare l'obiettivo è stato sufficiente - ci si inchini dinanzi alla superiorità tecnologica dell'Occidente – quell’"uso minimo della forza" caro agli scrupoli umanitari dell'onorevole Napolitano e della socialdemocrazia europea più disonorata di sempre. Pochissima roba: appena qualche migliaia di tonnellate di bombe in più di quelle, anch'esse rigorosamente democratiche, che gli "alleati" scaricarono nell'intera seconda guerra mondiale sulla Germania. Appena 43 giorni di "Tempesta". Ed alla fine, come è d'uso nei pranzi diplomatici, un dessert leggero, leggero: non le rozze atomiche di Hiroshima e Nagasaki, bensì le sofisticate Fuel Air Explosive, le bombe Aerosol comparabili alle atomiche tattiche. Rigorosamente, come nel 1945, a guerra conclusa.

Tutto si è svolto "secondo i piani". E poiché dai documenti ufficiali è stato espunto con cura il termine guerra, il bravo Comando "alleato" ce l'ha messa tutta per fare una guerra senza morti. Da parte "nostra" quasi non ce n'è stato uno; dalla parte degli "altri" il costo è stato modestissimo: un cento-duecentomila morti, si assicura, non più. Trattandosi però di arabi e per di più sudditi del "nuovo Hitler", non è un'azzardo parlare, con i "liberi" massmedia unanimi, di una guerra praticamente incruenta.

La distruzione dell'Iraq, monito agli sfruttati arabi e islamici

Della buona riuscita dell’"operazione chirurgica" dà testimonianza - e che testimonianza! - il medesimo consesso capitalistico-imperialistico che l'ha avallata. "Niente di ciò che avevamo visto o letto ci aveva preparato - scrive nel suo rapporto l'inviato dell'ONU in Iraq Martii Ahtisaari - alla particolare forma di devastazione che è avvenuta nel paese. Il conflitto ha avuto risultati quasi apocalittici sulla infrastruttura economica che è stata, fino a gennaio 1991, quella di una società altamente urbanizzata e meccanizzata. Ora, la maggior parte dei mezzi economici a sostegno della vita moderna è stata distrutta o indebolita. Per i tempi a venire l'Iraq è stato relegato in un'area pre-industriale, ma con tutti i disagi dovuti alla dipendenza postindustriale da un uso intensivo di energia e tecnologia". ("Avvenimenti", 3 aprile).

Il merito non è solo dei più criminali bombardamenti della storia. Anche le sanzioni applaudite dai "pacifisti" come alternativa al conflitto armato hanno funzionato. In particolare come mezzo di affamamento della popolazione, dal momento che, come osserva il suddetto rapporto, il 70% dei consumi alimentari dell'Iraq era coperto da importazioni. Senza sementi, con l'allevamento del bestiame gravemente danneggiato, il raccolto del grano "seriamente compromesso", la mancanze di pesticidi, di fertilizzanti, di carburante e di pezzi di ricambio per i mezzi agricoli, l'Iraq del dopoguerra è, secondo l'ONU che tutto ciò ha schifosamente "legalizzato", alle soglie di una "fame diffusissima". E, data la distruzione scientifica dei suoi sistemi fognari e lo studiato inquinamento dei suoi fiumi, di "una ulteriore imminente catastrofe, che potrebbe includere epidemie e carestie".

Gli esperti della City londinese, una delle istituzioni che più ha beneficiato di questa "nobile guerra per la pace", hanno provato a quantificare lo stato delle cose. Si può calcolare, assicurano soddisfatti, "che l'Iraq abbia perso il 90 per cento delle sue capacità industriali, dal 75 all'80 per cento delle raffinerie, che sia praticamente privo di cibo, zucchero, fertilizzanti, acciaio, cemento". Se "ad un debito estero spaventoso (circa 75 miliardi di dollari)" si aggiunge l'ancor più spaventoso onere delle "riparazioni" di guerra, risulta evidente "l'assoluta impossibilità (per l'Iraq) di affrontare una ricostruzione che richiederà migliaia e migliaia di miliardi". Per il pugno di banche e di società petrolifere che decretarono nel 1961 la nascita del Kuwait e che mai hanno dimenticato l'affronto della sollevazione popolare irachena del 1958 e le conseguenti nazionalizzazioni, v'è di che compiacersi: "Con le sue risorse, l'Iraq semplicemente non sarà in grado di sopravvivere" ("La Stampa", 11 marzo).

Non soltanto, dunque, il capitale imperialista ha riacquisito a sé le riserve petrolifere immense (240-260 anni) che sono nelle viscere del Kuwait e si è ripreso una sua cassaforte, ma lo stesso Iraq è ai "nostri" piedi, e le sue risorse - ed anzitutto il suo petrolio e la sua forza lavoro - sono di nuovo de-nazionalizzate di fatto. Quanto più grande è il debito estero, infatti, tanto più dispotica è la signoria dei creditori.

La festa del campo imperialista accomuna il vecchio ed il nuovo colonialismo. La bandiera a stelle e strisce, che nel '56 si era erta in nome dell’"anticolonialismo" a "difesa" dell'Egitto di Nasser, lava oggi col sangue del popolo iracheno le brucianti sconfitte patite in Vietnam, in Libano, in Iran. Come ai "bei tempi" di El Alamein, l'Union Jack torna a sventolare sulle terre arabe tronfia dell'orgoglio dei "dominatori". La "grandeur" di una Francia che non è mai stata tanto piccola (e meschina) si pasce nuovamente di sogni imperiali, con l'antico ministro alle colonie asceso all'Eliseo. Anche la "pacifica" Italia s'è conquistata un posto al banchetto delle iene imperialiste, e l'ha fatto grazie agli ultimi ritrovati della tecnologia bellica (i Tornado) e della civiltà (i suoi bravi professionisti "born to kill", nati e profumatamente pagati per assassinare). E’ stata la riconciliazione, per un istante, dei vecchi concorrenti di ieri, con L’"amico" Gorbacev nelle vesti di gonfaloniere, sulla pelle delle masse Irachene e di tutti i popoli del Medio Oriente, palestinesi e curdi per primi.

La "particolare forma di devastazione" imposta all'Iraq è il più "solenne" monito che le cancellerie imperialiste, a cominciare da Washington, danno agli sfruttati arabo-islamici dall'epoca della guerra di Algeria: "Non tollereremo più atti di ribellione che ledano i nostri interessi, che mettano a repentaglio i nostri equilibri economici, che violino il nostro diritto a considerare il Medio oriente - e tutto il mondo - come nostro spazio vitale. Non tollereremo più che ai nostri fedeli scagnozzi sia torto un solo capello; la considereremo, anzi, una sfida alla nostra pace ed al nostro ordine, che sarà punita, per usare l'espressione dell'ONU, con tutti i mezzi necessari". Un monito che è diretto, inutile dire, a tutte le masse oppresse del mondo ed alla stessa classe operaia delle metropoli.

Ma l'imperialismo "unitario" vincitore non può farsi (e in realtà non si fa) alcuna illusione. Esso ha vinto, non senza costi di vario tipo, soltanto una battaglia. Altre se ne preparano, e non saranno tanto impari... Altre esso stesso ne prepara, dal momento che le cause dell'insorgenza anti-imperialista e della lotta proletaria al capitalismo restano intatte ed anzi, nel fondo, perfino accentuate. Basta considerare il genere di "pace" che gli stati imperialisti, ed anzitutto gli USA, pretendono di imporre in Medio Oriente, per rendersene conto.

Una "pace" strangolatoria e instabile

La formula di rito per imbonire le masse è "una pace giusta e durevole"; la realtà - ben anticipata dalle condizioni di resa imposte all'Iraq - è quella di una "pace" imperialista strangolatoria ed instabile. Strangolatoria, perché mira a conseguire, attraverso la balcanizzazione del mondo arabo-islamico e lo scatenamento dei conflitti tra i popoli dell'area, il loro completo asservimento. Instabile, sia in quanto va a scontrarsi con le insopprimibili necessità, già ora mostruosamente compresse, del proletariato e delle masse supersfruttate da ulteriormente "pacificare", che in quanto l'esito della guerra, ha, con i suoi sostanzialmente scarsi e diseguali ricavi, acuito i contrasti tra i differenti e conflittuali progetti imperialisti di rispartizione del Medio Oriente (e del mondo). "Un Medio Oriente stabile - ha osservato il "Time" - sarà più difficile da realizzare di quanto lo sia stato conseguire la vittoria in guerra". E se questa stabilizzazione non verrà, aggiungiamo noi, come non verrà, l'intero processo di pacificazione imperialista del mondo ne riceverà un colpo decisivo.

La prima pietra della "pax alleata" è stata posta con la dettatura all'Iraq delle condizioni per la tregua. Un diktat spietato che porta, naturalmente, il sigillo dell'ONU. Baghdad è stata costretta non solo a riconoscere l'esistenza del Kuwait come altro stato legittimo, ma anche ad accettare come giusti e definitivi i confini tracciati nel proprio interesse dal colonialismo. Il paese devastato e vinto, ossia - in ultima analisi - la massa dei lavoratori iracheni, è schiacciato sotto il peso di una tangente sui proventi petroliferi da devolvere, per i "danni di guerra", alla derelitta famiglia al-Sabah. Lo stato iracheno è disarmato, acché non abbia a cadere in nuove tentazioni "anti-imperialiste" ed anti-israeliane; gli si lasciano soltanto le armi necessarie a sopprimere le insorgenze sociali interne e, come si è visto, una piena facoltà di uso di esse. L'embargo contro l'Iraq viene mantenuto in forma elastica, quale mezzo di ricatto permanente. Truppe internazionali di controllo (tranquilli, ci saranno anche i "nostri" ragazzi...) si installano ai suoi confini, anzi dentro di essi. C'è infine, come in tutte le transazioni borghesi che si rispettino, un "fuori busta". Se lo sono aggiudicato le tre cancellerie imperialiste in prima fila nella guerra (Washington, Londra e Parigi), ma non è mancato un contentino neppure per l'Italia e la Germania. Si tratta della cosiddetta "zona di sicurezza" per i curdi situata, con centro a Zakho, nel Kurdistan dell'Iraq, che è tutt'altra cosa da ciò cui il suo nome può far pensare: una testa di ponte dell'imperialismo in territorio curdo e iracheno. Un'altra Peshawar collocata, però, a differenza di quella afghano-pakistana, direttamente nel territorio nemico, nella quale i curdi potranno essere... sicuri di una sola cosa: che i governi imperialisti cercheranno di arruolarli, tenendoli sotto strettissima sorveglianza, per i più ingrati e obliqui compiti di sabotaggio verso l'Iraq e, al fondo, verso la propria stessa causa.

Il primo tassello della pace "giusta e duratura" promessa dai vincitori è dunque, per dirla con "Business Week", la riduzione dell'Iraq, al rango di nazione paria. Sorte non più felice riserva questa brigantesca "pacificazione" alle masse oppresse palestinesi, più che mai al centro di una offensiva concentrica da più lati. Se infatti Israele continua a martellare la non spenta Intifadah ormai al riparo perfino dalle ipocrite "condanne" della "comunità internazionale", in tutta l'Arabia i lavoratori palestinesi patiscono la pratica delle espulsioni di massa per mano araba (quanta strada ha fatto il sionismo!) e nel Kuwait di nuovo "libero" il terrore delle esecuzioni sommarie (a migliaia) e di selvagge torture. Il governo libanese allineato con la convertita Siria dispone l'immediato disarmo delle milizie palestinesi (altrimenti...). Il regime di Damasco ordina alle formazioni palestinesi che ancora sciaguratamente lo seguono, di rientrare nell'OLP onde dar forza alle istanze più conciliatrici. La stessa OLP è messa in quarantena pure dall'Europa per avere osato schierarsi, sebbene in evidente stato di necessità, con il "fratello popolo iracheno" bestialmente aggredito.

Della autodeterminazione del popolo palestinese, dello stato palestinese, nessun governo imperialista parla più neppure per mezzo dei consueti velati accenni. La benevolenza della "colomba" Baker prevede soltanto "qualcosa di meno" di uno stato palestinese: un solo, grande (rispetto al 1948) stato... israeliano, all'interno del quale potrà, col tempo, essere concesso ai palestinesi, se sapranno meritarselo, un certo grado "autogoverno" locale. In alternativa, o in combinazione, potrebbe profilarsi anche una confederazione giordano-palestinese, architettata in modo tale che, data l'angustia del territorio e delle possibilità economiche e (magari) le disparità di trattamento tra le due (o più) componenti della popolazione, già in partenza vi esistano le condizioni per riaccende l'ostilità tra palestinesi e giordani di origine beduina, invertendo così la positiva tendenza all'affratellamento rafforzatasi negli ultimi anni.

Il fondamentale proponimento delle potenze imperialiste resta quello di schiacciare la lotta rivoluzionaria palestinese ed innanzitutto di soffocare quell'Intifadah che è il costante bersaglio di ogni iniziativa "di pace" Il conseguimento di questo risultato dovrebbe passare anche attraverso l'alleggerimento degli ostacoli posti alla crescita di una industria palestinese e, più in generale, di una borghesia palestinese nei "territori occupati" (dove si segnalano finanche clandestine joint ventures israeliano-palestinesi), secondo la classica metodica dell'oppressione: concessioni economiche in cambio della capitolazione politica. La capitolazione politica alla quale una parte di Al Fatah si è detta disponibile e per preparare la quale un Faysal Husseini ha dichiarato aperta la caccia al pericolo "di sinistra", dovrebbe consistere nella definitiva rinuncia esplicita del movimento palestinese a reclamare un proprio stato, nella sua definitiva accettazione dello status di popolo di profughi. Lo stato usurpatore di Israele dovrebbe, per contro, esso riconosciuto sacro ed intangibile ben al di là delle stesse risoluzione dell'ONU, a mezzo di accordi bilaterali tra esso e tutti gli stati arabi che ne contestarono la nascita. A sua volta l'URSS dovrebbe fornire ad Israele ristabilendo le relazioni diplomatiche, la garanzia che non interromperà il rifornimento umano che è indispensabile a Tel Aviv per alimentare il proprio espansionismo territoriale (un espansionismo che i suoi protettori yankee da un lato continuano a finanziare, e dall'altro procurano di mantenere sotto controllo).

Il rilievo che la questione curda ha avuto, per qualche settimana, nella cosiddetta opinione pubblica internazionale, può dare l'impressione che per lo meno per gli sfruttati curdi, e sia pure al prezzo di inaudite sofferenze, la vittoria imperialista nella guerra del Golfo abbia portato una chance di "promozione". Ma non è affatto così. Spieghiamo in altra parte del giornale che, invece, gli "alleati" (a cominciare dagli USA) hanno giocato alle masse curde un'altra crudele beffa. In realtà il movimento curdo-iracheno è stato semplicemente usato (la "carta" curda) dalle potenze imperialiste per tentare di disarcionare Saddam "a furor di popolo", ritenendo queste troppo avventurato farlo direttamente con le proprie truppe. L'obiettivo si è rivelato, però, più arduo di quanto preventivato, nel mentre che la sollevazione curda, contro le intenzioni dell'Occidente, minacciava allargandosi di diventare un elemento di complicazione per la "pacificazione" della regione (in primis dentro il bastione turco). Da qui la scelta di Washington e soci di consegnare le popolazioni insorte alle ritorsioni di Baghdad. La terribile disfatta subita dalle masse curdo-irachene che con immensa ingenuità (e per l'immensa colpa dei loro capi) si aspettavano l'aiuto dell'imperialismo, le espone ora più di prima ai cinici calcoli di Stati Uniti ed Europa. I quali, è sin troppo palese, consistono nel tentativo di assoldare i contingenti curdi d'Iraq in una permanente azione di disturbo anti-araba e pro-imperialista, contrapponendoli - per mezzo dell'infeudamento al governo di Ankara - alle lotte delle masse lavoratrici curde di Turchia. Per intanto, quale anticipo e pegno della futura "autonomia" (!) dei curdi, la presenza militare imperialista si è estesa dalla zona turca del Kurdistan, che già ora è piena di basi NATO, ad una prima fetta del Kurdistan iracheno. Un passo avanti, senz'altro: non però per l'autodecisione e la riunificazione degli oppressi curdi e, tanto meno, per la loro emancipazione dallo sfruttamento, bensì per i nemici mortali dell'uno e dell'altro processo.

Non deve ingannare neppure la conclusione di un nuovo accordo tra il regime iracheno e le rappresentanze curde. Esso è frutto dell'indebolimento di entrambe le parti in causa nei confronti del capitale imperialista. Ben difficilmente, perciò, potrà dare il via all'attuazione dell'intesa del 1970 sull'autonomia del Kurdistan dell'Iraq (a proposito: lo sapevate che il vituperatissimo Iraq baathista è il solo ad avere riconosciuto, sia pure sulla carta, l'autonomia dei curdi? Lo ricordiamo a puro titolo informativo, ché per il regime borghese di Saddam i comunisti non hanno da spendere una sola parola di difesa). Assai più probabile é, invece, che la soprintendenza internazionale plurima invocata dai curdo-iracheni (e pretesa dalle potenze imperialiste) sarà il canale "legale" attraverso il quale passerà ogni genere di manovra e di intrigo volto ad utilizzare la resistenza del popolo curdo all'oppressione ai fini delle mene imperialiste ad essa antagoniste.

È un fatto: la instaurazione dell'ordine caro alla "santa alleanza" ultrareazionaria cui il "nostro" paese si fregia di appartenere, passa necessariamente attraverso la rovina delle nazioni e delle nazionalità oppresse più ribelli ed il ferreo assoggettamento al capitale finanziario di tutti i popoli dell'area - nessuno escluso - e, in massimo grado, del proletariato e dei lavoratori. La guerra del Golfo non si spiega soltanto con la necessità degli stati imperialisti di dare una lezione all'Iraq, ma anche con la crescente difficoltà dei loro più tradizionali punti di appoggio nell'area, come pure dell'insieme delle borghesie locali, a fronteggiare l'insorgenza sociale anti-imperialista ed anti-borghese.

Il successo della controffensiva congiunta del vecchio e del nuovo colonialismo imperialista contro gli sfruttati del Medio Oriente dipende dalla sua capacità di dividere il fronte degli sfruttati, scagliando gli uni contro gli altri (e, insieme, di impedirne il decisivo collegamento con la classe operaia delle metropoli e con il comunismo rivoluzionario). Sebbene il bestiale attacco al popolo iracheno abbia sortito piuttosto l'effetto inverso, ed anche in considerazione di ciò, l'intento di fondo delle massime potenze imperialiste resta quello di ostacolare, con ...tutti i mezzi necessari, l'unificazione del fronte dei lavoratori arabo-islamici. Come? Inducendo la più acuta concorrenza tra i paesi arabi per l'accesso agli "aiuti", alle misure di parziale condono dei debiti, a più favorevoli clausole di interscambio, etc. Soffiando sul fuoco delle ragioni di contrasto e di guerra tra gli stati medio-orientali (da questo nascosto interventismo "altamente morale" sono nati sia lo scontro tra Iran e Iraq che quello tra Iraq e Kuwait). Servendosi delle sedimentazioni materiali, di cultura e di sentimenti prodotte nelle masse dalla storia passata, per mettere curdi contro arabi, sunniti contro sciiti (e viceversa), arabi contro iraniani, egiziani contro iracheni, beduini giordani (e quanti altri è possibile) contro palestinesi, israeliani contro arabi, curdi iracheni contro gli altri curdi, berberi contro algerini di origine araba, sauditi contro yemeniti, egiziani contro sudanesi, e via dividendo, allo scopo di poter più efficacemente opprimere e torchiare tutti.

Non è in vista alcun "piano Marshall" per i paesi più poveri del mondo arabo

La pax imperialista in via di allestimento non porterà alle masse oppresse arabo-islamiche altro che sopraffazione, supersfruttamento e nuove guerre. Non ci sarà grasso che cola neppure per i lavoratori dei due paesi arabi (l'Egitto e la Siria) candidati a trarre i maggiori benefici dalla vittoria degli "alleati". È probabile, certo, che l'ostracismo delle monarchie petrolifere verso i lavoratori palestinesi, yemeniti e quelli provenienti da altri paesi ritenuti pro-Saddam, apra nuove opportunità di impiego per i salariati egiziani e siriani; niente di più, però. La prospettiva di un grande piano di investimenti a propulsione dello sviluppo dei paesi arabi più poveri é destinata a rimanere lettera morta. Semplicemente: mancano i capitali da anticipare. E manca, ancor più, una effettiva volontà politica in questo senso in chi dovrebbe promuoverlo.

La massima parte del cosiddetto aiuto statunitense ai paesi del Medio Oriente consiste, è risaputo, nella vendita di armi a credito. È facilmente prevedibile che, nel contesto di una crescente instabilità del capitalismo, su scala mondiale prima ancora che medio-orientale, sarà la medesima voce ad assorbire, quanto mai lo è stato finora, le sempre meno illimitate disponibilità finanziarie che gli USA sono in grado di destinare alla regione. Ma se è poco o punto probabile che gli gnomi di Wall Street si imbarchino nel finanziamento di un iper-ipotetico "piano Marshall" volto a far uscire dalla miseria i paesi arabi più indebitati, anche la praticabilità di un suo finanziamento endogeno, ad opera di Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati, è molto scarsa.

I non disprezzabili costi della guerra e della ricostruzione mettono fuori gioco, per un certo numero di anni, il Kuwait. Per parte loro gli Emirati rappresentano null'altro che una forza di complemento per soluzioni la cui chiave è altrove. Non potrebbe che essere l'Arabia Saudita, perciò, il perno di quella sorta di redistribuzione egualitaria delle ricchezze nel mondo arabo che è stata da taluno vagheggiata. Ma la guerra all'Iraq ha riservato al regno degli al-Saud (e degli al-Sheikh) un tiro davvero mancino: "L'immensa fortuna petrolifera dell'Arabia Saudita - scrive l'International Herald Tribune" del 13 febbraio - è stata svuotata dal costo delta guerra dei Golfo, costringendo la monarchia, per la prima volta, .a richiedere forti somme in prestito dalle banche internazionali". Si cominciano a pretendere troppi prodigi dalla pur ingentissima rendita petrolifera saudita! Essa dovrebbe continuare a sostenere, con l'acquisto dei buoni dei Tesoro federali, l'indebitamento della amministrazione statunitense; coprire una forte percentuale della spesa bellica americana per la "sicurezza" dell'Arabia; far fronte all'esplosione del bilancio relativo alla propria "difesa"; puntellare i regimi arabi che si sono allineati con l'aggressione imperialista; ed infine mettere a disposizione dei paesi medio-orientali maggiormente colpiti dalla crisi (e non sono certamente pochi!) le anticipazioni occorrenti a tentare, se non altro, di frenare il regresso economico in atto. Senza dubbio realistica è, a questo riguardo, la conclusione del "Business Week" dell'11 marzo: "Nel migliore dei casi, l'aiuto agli stati arabi più poveri sarà altamente selettivo. Egitto e Siria saranno ricompensati per il loro apporto. Ma nessuno (a Riad, n.) ha intenzione di aiutare Giordania, Yemen, Sudan e OLP che si sono schierati con l'Iraq. E questo potrebbe infiammare i radicali. Come ha detto un esponente della Brookings Institution, "la guerra dei Golfo non solo ha reso più povera la regione nel suo insieme, ma ha fatto diventare ancora più marcate le diseguaglianze tra gli stati ricchi e gli stati che ricchi non sono".

Stretta tra le contrapposte necessità dell'imperialismo e della rivoluzione sociale (nessuna delle due forze antagoniste in campo ha rispetto per i decadenti "custodi dei luoghi santi" islamici), l'Arabia Saudita non potrà essere di certo il caposaldo regionale di una "pax alleata" che sia in qualche misura marcata in senso "democratico". Non potrà esserlo perché, ove accettasse di assumere un ruolo "egualitario" verso l'esterno, si troverebbe quasi certamente, all'interno, di fronte al montare di un movimento democratico-borghese che sta iniziando a venire allo scoperto, pungolato anche dalla preoccupazione di prevenire il coagulo della insoddisfazione popolare in forme "islamiche"-radicali o, peggio, "di sinistra". Ove quindi, per estremo assurdo, il regno saudita si accollasse l'onere di cui sopra, finirebbe verosimilmente per moltiplicare i fattori della propria instabilità socio-politica. In realtà, la sconfitta e la devastazione dell'Iraq, proprio per il carico di problemi irrisolti che lasciano ai vincitori, suonano le campane a morto per l'autocrazia saudita, non meno di quanto lo fece l’"invasione" del Kuwait.

Qui sta il busillis: gli USA e gli "alleati" avvertono che, dopo l'incalcolabile semina di odio operata con il "massacro nel deserto", é indispensabile fare delle pur limitate concessioni alle attese degli sfruttati arabo-islamici, ed anzitutto dei palestinesi. Ma debbono richiederle a dei regimi, da loro protetti o a loro sottoposti, che sono particolarmente restii a farle, o perché, uscendo rafforzati dalla vittoria "alleata" e dalla frattura nel mondo arabo, tendono piuttosto ad accrescere i propri appetiti e le proprie pretese (vedi Israele), o perché nonostante la distruzione dell'Iraq, non si sentono e non sono a tal punto padroni del campo al proprio interno e nell'area da ritenersi al sicuro dall'effetto di eccitazione delle aspettative di massa che le concessioni potrebbero avere (vedi Arabia Saudita e Kuwait). Del resto, è la stessa amministrazione Bush a procedere con estrema cautela sulle questioni più spinose (le rivendicazioni delle masse palestinesi, la questione curda, 1’"aiuto" ai paesi arabi più poveri, la "democratizzazione" delle petrol-monarchie feudali) proprio perché teme di mettere in moto un processo incontrollabile non di "pacificazione", bensì, al contrario, di riaccensione di tutte le contraddizioni della regione medio-orientale.

In realtà la vittoria della "santa alleanza" imperialista tanto è stata piena sul piano militare quanto è fragile sul piano socio-politico. È per questo che il puzzle della "pace" in Medio Oriente resta di difficilissima composizione. Non si può escludere in assoluto, naturalmente, che il processo di "pacificazione" imperialista di cui gli USA sono il principale protagonista, possa compiere nei prossimi tempi un qualche limitato progresso. Quel che è certo, però, è che né l'imperialismo americano né i suoi soci-avversari dispongono di vere soluzioni "giuste e durature" per gli oppressi ed i popoli arabo-islamici. Le loro sono soltanto pseudo-soluzioni inconsistenti e reazionarie (non per nulla l'ultima istanza di esse è la guerra di devastazione imperialista sperimentata contro l'Iraq), che la lotta rivoluzionaria degli sfruttati farà inesorabilmente fallire.

La vittoria imperialista acuisce le ragioni di conflitto tra i predoni "alleati"

Un'altra, e non secondaria, ragione di debolezza del processo di "pacificazione" imperialista sta nel fatto che la guerra del Golfo ha accentuato i motivi di contrasto (largamente preesistenti ad essa) tra le massime potenze imperialiste. Quando Bush proclama, sull'onda del "massacro nel deserto", l'avvento di un "nuovo ordine mondiale" che dovrebbe coincidere con un "secondo secolo americano", riesce a mettersi in urto perfino con i suoi scodinzolanti cagnolini britannici che dalle colonne di "The Economist" si fanno avanti a suggerire agli USA che é venuto il momento di spartire la leadership dell'imperialismo: "La lezione della guerra del Golfo non è che il mondo è un giocattolo dell'America, ma che l'America, se vuole realizzare nel mondo ciò che più le aggrada, ha bisogno di costruire alleanze con altri paesi. È per mezzo della persuasione, e non di comandi, che la superpotenza deve esercitare la sua funzione di guida". Dopotutto, si osserva con perfidia, "per sconfiggere un paese con il prodotto nazionale del Portogallo", gli USA hanno dovuto mettere in piedi una coalizione di trenta stati ed impiegare ben il 75% della propria aviazione tattica ed il 40% dei propri carri armati...

Se dalla fida Gran Bretagna arriva a Washington il suggerimento di non abbandonarsi alla "illusione della onnipotenza", messaggi ben più minacciosi, si inviano ai "trionfatori" da Tokio, da Bonn e dalle altre capitali europee, a riprova che la lotta tra le maggiori potenze imperialiste sta inasprendosi in ogni campo. Non solo e non tanto per la contesa intorno ai "dividendi della pace", quanto piuttosto perché questi dividendi sono meno cospicui di quanto ci si potesse attendere, e perché la guerra del Golfo è stata tutt'altro che bastevole a dar soluzione alle sempre più aggrovigliate contraddizioni del sistema capitalistico mondiale.

Il prezzo del petrolio - ecco un innegabile successo del gesto di insubordinazione di Saddam Hussein - non potrà ritornare ai livelli pre 2 agosto, ossia poco sopra i 10 dollari, perché, nonostante l'OPEC sia ridotta in frantumi, né l'Arabia Saudita né il Kuwait, i due stati-guastatori di ogni tentativo di sostegno del prezzo del petrolio da parte dei produttori, hanno più interesse alla svendita del petrolio a costo zero, diventata anche per essi insostenibile. Così come lo é, più in generale, per tutte le borghesie medio-orientali all'indomani di una insorgenza delle masse sfruttate che è giunta, nelle sue espressioni di avanguardia, a rivendicare anche il taglio delle forniture di energia agli stati imperialisti.

Neppure è alle viste la normalizzazione del Medio Oriente, ché anzi. Pur riducendo l'Iraq ad un cumulo di macerie, la guerra del Golfo non ha, poi, appianato alcun problema neanche per gli USA. Messi sempre più alle strette dalla perdita di dinamicità e di competitività della propria economia e dalla sfida dei propri rampanti concorrenti, gli USA hanno estratto il "nodoso bastone" raccomandato da Roosevelt e lo hanno usato senza mezze misure anche per difendere il proprio primato dentro l'Occidente. Con risultati, però, assai contraddittori. Hanno salvato per sé dei mercati; hanno ripreso il controllo pressoché monopolistico di una importante colonia; hanno riaffermato la funzione-guida del campo imperialista. Nonostante ciò, l'area dell'economia mondiale in recessione (e l'epicentro è oltre Oceano) va allargandosi, la super-potenza continua ad avvitarsi nelle spire del proprio indebitamento (e debito, si sa, vuoi dire debolezza) e contemporaneamente allarma i propri "alleati" con il rilancio alla grande di una spesa bellica che altri (loro) dovrebbero foraggiare.

Le menzogne della diplomazia hanno crescente difficoltà ad occultare il dato di fatto, prodotto dal maturare in profondità della crisi generale del capitalismo, che le aree di conflitto tra le nazioni imperialiste stanno infittendosi. C'è scontro aperto intorno al livello dei tassi di interesse: il debitore preme per la riduzione, ma i creditori non vogliono saperne. Gli USA reclamano una politica immediatamente espansiva; la Germania, alle prese con le incognite dell'unificazione, ed il Giappone, disturbato dal crollo della sua Borsa e dalla crisi del suo mercato immobiliare, praticano una politica economica di segno diverso. Non è stata superata la controversia sulle tariffe doganali (1’"Uruguay round"), né quella sulla modifica delle quote del FMI. E per buon peso vi si è aggiunta la rissa sulla struttura e le regole della BERS, la banca multinazionale per gli investimenti all'Est. L'accordo tra la tedesca Daimler-Benz e la nipponica Mitsubishi per il potenziamento dell'aviazione dei due paesi e la pronta risposta americana con il varo del supercaccia Lockheed dicono che la contesa inter-imperialista è ormai sconfinata nel più strategico di tutti i settori industriali. C'è scontro, poi, oltre che sul pagamento della fattura per la guerra del Golfo e sull'incasso degli utili a breve, anche sulla cosiddetta conferenza regionale "di pace", da cui l'amministrazione yankee vuole escludere l'Europa (un'Europa a sua volta lacerata da storiche inimicizie), ovvero sugli utili a media-lunga scadenza. Le ragioni del contenzioso inter-imperialistico si accumulano, ed ormai quasi ovunque la disamina delle prospettive future chiama in causa le politiche "di difesa". È forse un caso che Giappone e Germania abbiano profittato dell'aggressione all'Iraq per inviare all'estero, per la prima volta dal 1945, proprie truppe? E che l'Italia ne abbia tratto spunto per accelerare la formazione di un proprio esercito di mestiere?

Dopo aver punito il "guerrafondaio" Iraq, le cancellerie imperialiste promettono una "pace giusta e duratura" ed invitano i lavoratori a lavorare sodo per renderla possibile. I comunisti rivoluzionari, all'opposto, vedono nel "massacro nel deserto" l'avvio di una fase di generale intensificazione dell'oppressione e dello sfruttamento e di rilancio del militarismo capitalistico, e chiamano il proletariato a dare battaglia da subito, più e meglio di quanto non sia avvenuto per l'aggressione all'Iraq, alle forze della più fosca tra tutte le contro-controrivoluzioni: la controrivoluzione democratica.