UN AUTUNNO DENSO DI MINACCE.
IL PROLETARIATO È CHIAMATO A RISPONDERE


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Tutti davvero tutti, dalla destra storica alla - Occhetto in testa - sinistra "nuova" e democratica, dai conservatori confessi ai riformisti senza riforme (ma con tante contro-riforme…) hanno visto nel definitivo crollo del sistema "sovietico" in URSS l'occasione per officiare l'ultimo e definitivo atto di "morte del comunismo" e per celebrare il trionfo dell'unico - e, inevitabilmente, anche il migliore - mondo possibile: il capitalismo.

Ufficialmente i destinatari della lezione sono gli irriducibili - e, per la borghesia, indistinti - "sognatori" di qualcosa di "diverso" dal capitalismo; nella realtà si vorrebbe che ad impararla siano soprattutto le sterminate masse del proletariato mondiale, sia quello abituato a conoscere i ritmi dello sfruttamento industriale e moderno nelle metropoli imperialiste, che quello sospinto sul baratro della fame nelle dependances periferiche.

A qual pro' protestare, organizzarsi, lottare se nessuna meta può essere posta, se non c'è alcun realistico obiettivo finale da raggiungere? Nessuna alternativa esiste al capitalismo. Lo si lasci, alfine, tranquillo a svolgere il suo corso.


L'ardore ideologico messo in campo è cospicuo, ma è… solo ardore. A esso non si associa alcunché di concreto. Infatti, quanto gli stessi paesi imperialistici (quel gruppo di stati ricchi che dominano, più incontrastati che mai, il mondo) possono offrire oggi persino alla loro classe operaia non è "pace e benessere", bensì ulteriori passi indietro sul piano delle condizioni di vita e di lavoro.

Questa analisi ce la consegna un semplice sguardo alle cose italiane, ma il risultato sarebbe identico anche indirizzando la vista altrove.

Per tutti gli anni '80 la classe operaia italiana è stata sottoposta a una sistematica azione di martellamento con lo scopo di convincerla a cedere alcune delle conquiste del ciclo precedente di lotta, premessa indispensabile - si diceva - per consentire al sistema economico quel recupero di produttività che avrebbe innescato una nuova stagione di sviluppo generale e, di conseguenza, di crescita del benessere anche per gli operai.

E' stato il decennio dei "sacrifici oggi per i benefici domani".

La "logica dei due tempi" è stata presente in ogni singolo passaggio dell'offensiva borghese, anche nei più duri come fu - non tanto sul piano economico, quanto per il valore politico di "attacco generale" - l'annullamento di 4 punti di contingenza decretato dal governo Craxi nell'84. Pure in quell'occasione il piatto su cui veniva servita l'amara pietanza era contornato da rosee promesse di ripresa dello sviluppo, nonché di quella concezione - cara, allora, alla CISL, ora non più solo a lei - della solidarietà tra lavoratori e disoccupati tanto più vicina alle "dame di san Vincenzo" che non a una vera solidarietà di lotta (gli operai doveva cedere una parte del salario per favorire gli investimenti per nuova occupazione).

Un intero decennio è trascorso. Agli operai sono state strappate molte di quelle conquiste. Il loro ruolo in fabbrica e nella società, pur partendo da picchi non certo eccelsi (ma sono quelli che il capitalismo, al massimo del suo sforzo riformistico, poteva consentire), è precipitosamente calato. L'occupazione industriale è andata progressivamente scendendo, quando si è parzialmente ripresa lo ha fatto con condizioni di maggiori precarietà e ricatto. I salari sono stati falcidiati da un'inflazione mai doma - anche se internazionalmente e nazionalmente in discesa - e da una interminabile teoria di misure fiscali e para-fiscali. Gli orari di lavoro sono andati estendendosi, e più di loro sono cresciuti i ritmi di produzione.

Per il capitalismo è stata una gran festa di profitti, ma dal suo tavolo sono cadute per gli operai - e solo nell'ultima tornata contrattuale – delle miserissime briciole, che non hanno reintegrato neppure in minima parte la capacità d'acquisto perduta dai salari negli anni precedenti.

I frutti del "secondo tempo" per gli operai non si sono ancora visti. Anzi, già la sigla di quegli accordi contrattuali fu apposta dal padronato alla sola condizione che si aprisse di lì a poco (nel giugno '91) una grande trattativa per la riduzione del costo del lavoro, fondata sulla scomparsa delle indicizzazioni e degli automatismi, il blocco dei salari pubblici e privati, la non restituzione del fiscal drag, la riforma del rapporto di pubblico impiego e la privatizzazione dei servizi.

Non solo sono, quindi, rimaste inevase le promesse di futuri benefici, ma da allora si ripete ossessivamente il ritornello che "l'azienda Italia" cola a picco, che "se non vogliamo uscire dal novero dei paesi di serie A" dobbiamo accettare ulteriori e più pesanti sacrifici.

Quale sia la soluzione per risolvere la nuova emergenza è detto senza troppi riguardi: bloccare i salari, ridurre i consumi dei lavoratori, tagliare le spese per i servizi sociali.

Il padronato lavora da tempo e a tutto campo affinché questa nuova offensiva vada in porto e cerca, nel contempo, di contenere la conflittualità operaia attraverso il coinvolgimento consensuale dei sindacati agli obiettivi del "risanamento economico" delle imprese (della loro competitività sul mercato internazionale) e del bilancio dello stato. Ma il governo non è stato, e non è, da meno.

Governo latitante o anti-operaio?

Altro che "latitante e senza strategie" - come l' ha definito Trentin -, il traballante governo Andreotti-Martelli ha già varato, o messo a punto, una serie di misure di decisivo interesse, dal contenuto essenzialmente anti-proletario:

* decreto sulla salute: gli obblighi per le imprese sono notevolmente ridotti e con essi le garanzie per un minimo di sicurezza nei luoghi di lavoro;

* contro-riforma del mercato del lavoro: varata all'inizio di luglio, la nuova legge dispone una durata massima per la cassa integrazione di 2 anni per crisi aziendale e di 4 anni per ristrutturazioni. Dopo di essa i lavoratori non rientrati in fabbrica saranno collocati in mobilità per un anno, dopodiché licenziati. Viene introdotta una maggiore deregulation del mercato del lavoro, con l'abolizione delle chiamate numeriche e la massima discrezionalità alle aziende;

* contro-riforma previdenziale: lo scontro politico tutto interno alla maggioranza di governo (in cui nessuna forza può essere presa a sponda per la difesa degli interessi operai) ne ha prodotto il momentaneo (fino alle elezioni?) accantonamento, ma nei suoi capisaldi l'accordo è totale: elevazione dell'età pensionabile e aumento degli anni (da 5 a 10) per il calcolo della media retributiva;

* contro-riforma sanitaria: passaggio dall'assistenza diretta a quella indiretta, processi di privatizzazione della sanità e drastici tagli alla gratuità delle prestazioni.

Ciò che il governo ha predisposto -ori la legge finanziaria per il '92 chiarisce inequivocabilmente i suoi obiettivi: una megastangata di circa 50 mila miliardi ("amara come una medicina necessaria" l' ha definita il solitamente cauto Andreotti).

Il pacchetto di misure varato il 30 settembre tende a dare una immagine di tagli "equi", distribuiti, cioè tra tutti gli strati sociali. Gli imprenditori dovrebbero partecipare con una sottospecie di patrimoniale, la rivalutazione dei beni d'impresa. Da facoltativa questa misura ha portato nelle casse dello stato poco più di mille miliardi. Ora il governo la vuole rendere obbligatoria e spera di incassare 5.000 miliardi (nel frattempo ha ridotto l'aliquota d'imposta). Niente paura, però, alle aziende saranno dirottati fondi ben superiori a tale cifra con la completa fiscalizzazione degli oneri sociali e gli innumerevoli contributi a vario titolo per sostenere la "competitività del sistema- Italia ".

Anche alle banche il governo chiede dei contributi: il principale non fa altro che ripristinare l'imposizione nei futuri casi di fusione bancaria, che una precedente legge-Amato aveva sospeso per favorire gli accorpamenti delle banche in previsione della più acuta concorrenza indotta dall' "apertura dei mercati" del 93.

Evidentemente il governo considera soddisfacente la quantità di fusioni già realizzate!

Tra vari altri contributi richiesti a queste "parti sociali", di dubbia riscuotibilità e rilevanza, spicca il "condono fiscale", la beffa delle beffe, con la quale si "perdonano" gli evasori piccoli e grandi (a quali classi appartengono non è il caso di ribadire) in cambio del pagamento di un'infima parte delle imposte evase.

Il contributo fiscale aggiuntivo chiesto alla borghesia e alle sue sottoclassi è, dunque, nullo o quasi, e quando è significativo (almeno sul piano complessivo, i 12.000 miliardi previsti dal condono) è richiesto in cambio di un regalo maggiore: la certezza di poter continuare a evadere il fisco, e di essere chiamati a pagare per un misero "condono" una volta ogni circa 10 anni!

Di diversa natura i contributi aggiuntivi imposti ai lavoratori.

Tanto per iniziare, pur avendo rimandato l'organica contro-riforma previdenziale, il governo ha aumentato il contributo previdenziale sulla busta-paga di 0,90 punti percentuali (4.000 miliardi, questi sì, sicuri!).

Del pari, il rimando dell'organica contro-riforma sanitaria è stato salutato con un ulteriore aumento dei tickets - quello sui medicinali è giunto ormai al 60% del prezzo - (4.000 miliardi risparmiati).

Se a queste misure si aggiungono una miriade di ulteriori tagli alla spesa sociale, la negazione di aumenti salariali nei prossimi contratti del pubblico impiego (per le categorie più importanti per l'apparato statale, o per la pesca elettorale dei partiti governativi, non mancheranno, al solito, le leggine e i provvedimenti compensativi) e il più che probabile attacco ai livelli occupazionali delle aziende a partecipazione statale in procinto di passare nelle mani dei privati, il quadro è quasi completo, e al suo centro campeggia un drenaggio di ricchezza dal lavoro salariato verso il capitale, un pesante attacco alla massa del proletariato, ai suoi consumi, tagli ai servizi sociali e un'infinita serie di aumenti. Il tutto a favore dei mille finanziamenti alle imprese e del risanamento del bilancio statale".

Ma anche la questione dei conti dello stato non è una cosa neutra, al di sopra delle parti, è, al contrario, una questione di rapporti di forza fra classi contrapposte- dare a una non può che significare togliere all'altra. Altro che interesse comune!

Le misure già prese e quelle in via di realizzazione (le varie controriforme e gli obiettivi della "trattativa sul costo del lavoro") non saranno le ultime. Dopo le elezioni saranno necessarie altre "correzioni" dei conti dello stato e il vortice della concorrenza internazionale terrà sempre caldo il problema del costo del lavoro e della produttività. Questo la borghesia lo sa e lo dice senza infingimenti. Di promesse di futuri benefici neanche a parlarne. Questa è l'unica novità!

Paradiso, purgatorio, inferno

Collocata dai venditori di illusioni - negli anni '70 - a due passi dal paradiso, la classe operaia ha conosciuto, per tutti gli '80, un durissimo purgatorio. I '90 le preparano l'inferno.

In tale contesto la politica dei sindacati si presenta totalmente inadeguata. Ai richiami della Confindustria sui pericoli della perdita di competitività dell'industria a causa del costo del lavoro (e, quindi, dei salari operai) il sindacato ha risposto assumendo l'impegno a rispettare il quadro di compatibilità fissato dalle imprese, accettando di porsi nell'ottica di diminuire il costo del lavoro, di depotenziare le indicizzazioni, di stabilire un legame ancora più diretto tra retribuzioni e andamento aziendale, di ridurre ulteriormente il monte-salari complessivo.

L'assunzione degli imperativi della difesa dell' "economia nazionale" e della concorrenzialità delle imprese ha reso i sindacati incapaci anche solo di arginare (come pretenderebbero) gli effetti più pesanti dell'iniziativa capitalistica.

Questa operazione è resa, inoltre, sempre più difficile dalla aggravata - e aggravantesi - riduzione, per il capitale, dei margini di concessione agli interessi immediati dei lavoratori.

In una parola il corso stesso del capitalismo mina alle fondamenta la possibilità di difendere le ragioni del lavoro salariato e al contempo quelle del capitale. E il fulcro stesso del riformismo "operaio"-borghese che vacilla sotto i pesanti colpi di maglio dell'offensiva capitalistica. Vacilla, ma non è ancora all'ultimo atto, né si estinguerà per auto-dissolvimento. I guasti che è ancora in grado di produrre per l'insieme del proletariato possono essere ancora enormi.

Il sindacato ha affrontato tutta la trascorsa fase di ristrutturazione con la logica dello "scambio". Concessioni fatte al padronato in cambio di qualcosa, e sempre con l'illusione che favorire un nuovo sviluppo capitalistico equivalesse a migliorare le prospettive di vita e di lavoro operaie.

Ogni volta quel qualcosa era più vicino al nulla. Spesso lo "scambio" vedeva su entrambi i piatti della bilancia solo sacrifici operai. Vedere, per credere, per esempio, l'accordo alla FIAT con la chiusura della "campagna sui diritti" data in cambio della partecipazione sindacale al progetto della "qualità totale", quel progetto dal valore ideologico-politico di compartecipazione operaia alle sorti del capitale, in virtù del quale ogni idea operaia per aumentare la produttività viene retribuita 50.000 lire.

Nonostante le miserie ottenute dal baratto il sindacato ha continuato a operare sulla base di quella logica, per lui inevitabile.

Non è un caso, quindi, se ha sottoscritto accordi contrattuali insoddisfacenti - tanto più se rapportati alla quantità e qualità delle lotte, in particolare dei metalmeccanici -. Né è un caso se le ultime misure del governo, prima della finanziaria, sono passate coi suo consenso (o dissenso solo verbale). Né è un caso che abbia accettato di sedere al tavolo di una trattativa che ha lo scopo dichiarato del taglio dei salari, apportandovi la "originalissima" proposta di una "politica di tutti i redditi" (dove la differenza coi padroni e governo è sul "tutti", una differenza non da poco se fosse perseguita con coerenza, e non solo enunciata).

Coltivare l'illusione di poter fare al contempo gli interessi del salariato e del capitale, non vuol dire tout-court fare gli interessi del capitale, essere semplici porta-voce del piano del capitale tra i lavoratori. Momenti di frizione, e anche di scontro, tra il riformismo "operaio"-borghese, compreso quello moderato, e capitale ce ne sono stati anche di recente, ce ne sono e ce ne saranno, non per un attento "gioco delle parti" diretto da qualche misteriosa onnipresente regia, ma per una diversità di strategie reale sul come ottenere l'unitario obiettivo di funzionamento del capitale.

La finanziaria per il '92 sembra prestarsi a uno di questi momenti.

CGIL-CISL-UIL l' hanno criticata duramente e hanno indetto uno sciopero generale per il 22 ottobre.

Nella decisione di CISL e UIL ha avuto, indubbiamente, un peso rilevante l'attacco alle retribuzioni dei pubblici dipendenti.

Negli ultimi contratti questi hanno avuto un trattamento più favorevole delle categorie industriali e dei servizi privati, e tra gli operai più di un mugugno si è levato contro questi trattamenti differenziati. Mettere ora la forza operaia al servizio dello sblocco dei contratti del pubblico impiego suona come una beffa, che naturalmente CISL e UIL cercano di annacquare mettendo in prima pagina altre critiche alla finanziaria.

Da parte della CGIL la protesta alla finanziaria è motivata dallo "scippo" che questa avrebbe fatto dei temi propri della "trattativa sul costo del lavoro" (come a dire: se queste cose le imponete per legge, non abbiamo più la possibilità di contrattarle e di ottenere "qualcosa" in cambio) e perché prefigura una politica dei redditi fatta solo contenendo i redditi da lavoro.

Sarà vera lotta? Le premesse non sono delle più promettenti, ma i sindacati devono, in qualche modo mai nel più coerente, è ovvio - tenere conto di una protesta che viene dalla base e che si è manifestata anche con scioperi locali. Che lo sciopero generale del 22 ottobre si risolva solo in uno sciopero-polverone (sempre che ci sia, e che il governo non lo prevenga con qualche piccola misura correttiva della legge), in una sorta di momentaneo sfogo della rabbia operaia contro il reiterarsi di misure a proprio danno, è rischio reale. Non per questo gli operai debbono recedere dalla battaglia. L'unico modo per andare oltre l'orizzonte posto dai sindacati è quello di accettare con molta serietà e impegno lo scontro, puntando non solo alla riuscita dello sciopero del 22, ma perché si organizzi una lotta coerente e continua contro le misure anti-proletarie della finanziaria e contro le proposte padronali in tema di "costo del lavoro".

La difesa è possibile solo con la lotta

La classe operaia esce frastornata dal ciclo di ristrutturazioni dell'ultimo decennio. Su di essa pesano anche negativamente le vicende internazionali (da ultimo il crollo dei regimi dell'Est e dell'URSS, con la feroce campagna anticomunista e l'ubriacatura sui valori "eterni" della democrazia borghese e del capitale che ne è seguita) e interne (ulteriore e radicale passaggio del riformismo - sindacale e politico - verso l'omologazione ai sacri valori di cui sopra). Essa ha dinanzi a sé una strada tutta in salita. Deve fare i conti non solo con la sua direzione sindacale e politica, ma anche con la sfiducia nelle sue reali possibilità e con le illusioni che nutre verso il capitale.

A differenza di coloro che pensano che la classe operaia saprebbe sempre condurre una fulgida lotta al capitalismo se solo non fosse irretita dai raggiri dei vertici sindacali e politici del riformismo, noi sappiamo di come, invece, essa possa dar credito a molte delle lusinghe propostele e persino accettare di "farsi carico" di sacrifici in vista di miglioramenti futuri.

Una accettazione non fatta con passività, anzi costellata di lotte di resistenza, portate avanti soprattutto dai suoi settori più avanzati, quelli dove la forza numerica e la precedente esperienza di lotta hanno sedimentato negli operai una maggiore consapevolezza della loro forza e una più profonda fiducia nei propri mezzi.

Questa diversa reattività ha caratterizzato la situazione della classe negli ultimi anni.

Nell'84 i settori d'avanguardia - gli "autoconvocati" - riuscirono a mobilitare l'intero proletariato contro il decreto di San Valentino. Quella lotta fu perdente grazie soprattutto all'azione di sabotaggio dei vertici sindacali, ma da allora le strade tra i due settori della classe non si sono più ricongiunte, anzi l'azione di certa avanguardia ha rischiato troppo spesso, e tuttora rischia, di svolgersi su un terreno, con obiettivi e argomentazioni lontane - a volte pericolosamente separate - dalla massa più "arretrata", che, da parte sua, ha continuato a dare il suo consenso sia pure sempre più condizionato alla linea sindacale, ha accettato sacrifici e diktat convinta di potere così risollevare le sorti del capitale e quindi di se stessa.

Una convinzione dettata dalla necessità: la oggettiva minor forza che gli operai hanno nella miriade di piccole e medie fabbriche e in molte zone del paese, e dettata dalla ugualmente oggettiva "convenienza" della logica del "minimo sforzo" per garantirsi obiettivi minimi (l'occupazione, un salario almeno di sopravvivenza) che in quella fase erano duramente messi in discussione.

Il capitale lavora, suo malgrado, a incrinare queste convinzioni anche nella massa "arretrata", e già oggi va salendo tra i lavoratori la consapevolezza che saranno ancora chiamati a pagare il conto delle difficoltà in cui esso si dibatte.

In parallelo inizia - se pur confusamente - anche un bilancio critico e negativo della politica sindacale degli ultimi anni in settori molto ampi, sia in quelli che fanno riferimento a "Essere sindacato" nel dibattito congressuale della CGIL o a Rifondazione Comunista, ma anche tra molti operai che si riconoscono tuttora nelle organizzazioni del "riformismo tradizionale" (del PDS o nelle tesi di maggioranza della CGIL) o, ancora, tra gli innumerevoli proletari "senza partito".

La risposta dei sindacati al montare di queste critiche è in una ulteriore blindatura verso le spinte di lotta che premono anche dal loro interno. Democrazia sindacale e partecipazione dei lavoratori sono ormai costantemente calpestate da CGIL-CISL-UIL. I congressi della CGIL hanno offerto momenti di pesante inasprimento dei rapporti verso la minoranza interna e chiunque metta in discussione l'attuale linea sindacale, fino a prefigurare - come al congresso della Camera del Lavoro di Torino una "maggioranza blindata" e uno scioglimento di quella opposizione interna, pur tanto magmatica e confusa.

E' necessario che la classe operaia non si faccia immobilizzare dalle difficoltà e dalle direzioni sindacali, ma che, al contrario, ritorni alla lotta, unica sua arma per la difesa, sfruttando tutte le occasioni che le si offrono, a partire dalla mobilitazione contro la finanziaria '92. Altre strade per non subire pesanti arretramenti non ce ne sono!

All'interno di questo percorso la massima attenzione va indirizzata a lavorare coerentemente ed efficacemente contro tutte quelle divisioni, oggettive o indotte ad arte dalla borghesia, che indeboliscono il fronte di classe.

E' compito di quei settori militanti che per primi si mobilitano farsi punto di riferimento per la massa operaia "attardata" ancora al seguito delle direzioni sindacali, senza perciò scambiare la sacrosanta critica a queste direzioni con la rinuncia a lavorare costantemente in e verso quel decisivo settore di classe, la cui scesa in campo, sola, può modificare i rapporti di forza a favore del proletariato.

Difesa del salario, scala mobile, occupazione, finanziaria '92, pensioni, sanità, rinnovo contratti del P.I., sono i punti su cui è possibile e quanto mai indispensabile riprendere la mobilitazione e la lotta a tutto campo, costruendo un fronte unico di tutti i settori operai e dei più ampi settori di lavoratori salariati, occupati e non, privati e pubblici, e con i fratelli di classe immigrati.