URSS

PERESTROJKA E GOLPE: 
ANTITESI O COMPLEMENTARITÀ?


Indice


Lungi dall'avere una qualsivoglia, pur lontanissima, parentela con il "comunismo", il "golpe" (che poi tale non era) di Janaev e soci non mirava ad altro che ad una ordinata e graduale realizzazione della perestrojka del capitalismo "sovietico". 

Dal suo fallimento hanno tratto un nuovo slancio sia la spinta "interna" alla più rapida instaurazione di un capitalismo selvaggio, che il processo di messa sotto controllo e balcanizzazione dell'URSS - o di quel che resta dell'URSS - da parte dell'imperialismo occidentale.

Rimasto giustamente estraneo all'uno come all'altro degli schieramenti borghesi in conflitto, il proletariato sovietico è sempre più chiamato a fare i conti, come già quello degli altri paesi ex-"socialisti", con la realtà di un'oppressione e di uno sfruttamento intensificati.


Nel n° 20 del nostro giornale (febbraio-marzo '91), rispondendo al quesito di moda se sull'URSS incombesse o meno il pericolo di un "colpo di stato", chiaramente dicevamo quanto segue:

1) "Cominciamo, innanzitutto, col prendere atto che, dopo la sbornia di "democrazia", si impone in URSS, così come in tutti i paesi dell'Est, una stretta dall'alto che valga a disciplinare ad un "piano" di ristrutturazione (espressione degli interessi generali del capitale nazionale) le infinite spinte e sottospinte "spontanee" che, in modo del tutto caotico e spesso autodistruttivo, promanano dal sottosuolo economico-sociale… In nessuno di questi paesi il potere borghese può affidarsi al ruolo di semplice "voce" o "rappresentanza" immediata della frastagliatissima ed incoerente massa dei singoli interessi borghesi "di base". Essi vanno, pertanto, disciplinati, così come (e più) va disciplinato… il proletariato".

2) "Un "golpe" militare potrebbe anche darsi ove il presidenzialismo civile si dimostrasse incapace. Il problema, però, non è se un "golpe" di questo genere può esserci, ma a quali funzioni esso assolverebbe. Noi diciamo: esso starebbe al servizio di un' "ordinata perestrojka", al servizio di un "ordinato corso borghese"

3) "Ammesso che non debba farsi luogo ad una "transizione" militare, resta il fatto che la scena politica dovrà essere gestita con "rigore" e senza troppo indulgere ai "formalismi democratici". Quale il soggetto di tale potere? Un pool di "responsabili" di grandi imprese, una media borghesia vitalmente legata allo Stato, i settori trainanti della nuova imprenditoria agraria, la ramificata rete dei "tagliatori di cedole", quadri dell'amministrazione civile e dell'esercito ben inseriti in una nuova, dinamica funzione di "servitori dello Stato"… Il tutto con epicentro regionale l'area grande-russa. Per i nomi dei "capi" si vedrà", salva la certezza che "chi ha inizialo la perestrojka non sarà quegli che la porterà a termine. "

Alla luce di quanto sopra, ognuno potrà misurare se le nostre analisi escano o no confermate dalle vicende del "golpe" agostano e del successivo "contro-golpe" el'tziniano.

Cominciamo col chiederci: è stato, quello agostano, un vero "golpe"?, e in che senso?

La mossa del "comitato di sicurezza" aveva, in maniera del tutto soft e per di più provvisoria, messo d'un canto Gorbacev per tentare, in modo tardivo ed inconsistente, la carta jaruzelskiana della normalizzazione nel solco di una "ordinata perestrojka". Di "ritorno allo stalinismo, al bieco bolscevismo" nemmeno l'ombra, per quanto strepito si sia fatto in materia da parte delle carogne e degli imbecilli che qui "fanno opinione"!

Jean-Marie Chauvier, su "Le Monde Diplomatique" (settembre '91), splendidamente ironizza su simili "chiavi interpretative":

"Il colpo di stato del 19 agosto era l'ultimo aspetto del vecchio scontro tra "riformatori" e "conservatori" rispetto all'attualità del socialismo? Questo scontro è cessato sin dal 1989… a tal punto che gli stessi partigiani confessi di una dittatura militare per salvare l'URSS dalla disgregazione e dalla colonizzazione straniera affermavano di voler costruire "un'economia di mercato" sotto alta sorveglianza militare "come in Giappone dopo il '45…", e "se il FMI incoraggia una politica di rigore e la fine delle sovvenzioni" non c'è dubbio che "questo avrebbe fatto il governo dei putschisti Janaev e Pavlov".

Proprio Pavlov aveva manifestato, ante-"golpe", il programma a venire del "comitato di sicurezza" in un suo limpido scritto disponibile - per chi voglia farsi delle idee chiare in materia - anche in italiano[1]: la via tracciata dalla perestrojka è irreversibile, lo stabilirsi di "sane relazioni di mercato" costituisce l'alfa e l'omega rispetto ai quali "indietro non si può tornare". Il problema, affermava Pavlov, sta esclusivamente nel come governare la transizione evitando che l'orgia del "capitalismo tutto e subito" si risolva nel suo contrario, cioè nel disordine e nella rovina generalizzati sull'esempio di quanto sta succedendo in Jugoslavia (un test al quale i nostri "golpisti" debbono aver guardato con particolari attenzione ed apprensione).

Non senza ragione Pavlov imputava agli el'tziniani di sbracciarsi demagogicamente da un lato per il "tutto e subito" e dall'altro di intralciare "paradossalmente" il passaggio a "sane relazioni di mercato" confondendo la realizzazione di un solido capitalismo sovietico col prosperare di fenomeni speculativi parassitari della produzione reale di merci, aprendo la via allo smembramento dell'Unione (con le conseguenze che ben si possono immaginare quanto all' "ordine economico" e politico-sociale complessivo) ed esponendo irresponsabilmente l'URSS ad una "colonizzazione" di fatto del paese da parte dell'Occidente invocato ad "aiutare" il paese (fondarsi sulla speranza di "elemosine "esterne, egli annotava, è da "irresponsabili"). In secondo luogo: il "piano-El'tzin" (se di piano si può mai parlare) prescinde completamente dalla immediata ricaduta di un ipotetico "capitalismo selvaggio" reso libero di fare "spontaneamente" il suo corso sul proletariato. Nessuna reviviscenza "bolscevica" nell'affrontare tale problema. Semplicemente: può fare a meno la borghesia di mettere nel conto l'antagonismo sociale? Nessuno di buon senso s'è mai fidato a dirlo…

Quindi: nessun "ritorno all'indietro", ma giustificate ragioni di preoccupazione per il caotico evolvere della situazione interna. A questa stregua, il "golpe" poteva astrattamente vantare delle chanches a proprio favore.

Perché, allora, è fallito in maniera così rapida ed ingloriosa?

Rispondiamo alla domanda ponendone un'altra: a chi si appoggiavano i "golpisti"?

Non alla classe operaia, da essi considerata esclusivamente (in perfetta linea perestrojkista) quale macchina di realizzazione del plusvalore da disciplinare, all'occorrenza, senza troppi complimenti, limitandosi a promettere ad essa i resti appena di un passaggio "meno traumatico" al regno della libera concorrenza, dell'intensificazione dei ritmi di lavoro, della riduzione dei diritti sindacali, politici e sociali, delle delizie dei licenziamenti ad libitum per "regolare il mercato del lavoro", etc. In nessuna riga dei proclami "golpisti" si legge altro. Ed è ovvio che di fronte a questa espropriazione reale delle proprie acquisizioni precedenti, il proletariato sovietico non abbia trovato ragione alcuna per solidarizzare col "golpe" in nome della promessa opposizione ad una peggior espropriazione "ipotetica" quale quella insita nei programmi el'tziniani.

Non al partito, per la semplice ragione che, ben prima di essere sciolto di autorità (con una bella dose di golpismo vero), questo si era già decomposto nei fatti, ricoprendo sotto il velo di un'unità fittizia "garantita" da milioni di iscritti la divaricazione a seconda di vari e contrapposti interessi di classe tuttora alla ricerca di un proprio partito in grado di sostenerle. Icasticamente lo Chauvier: "Persino i putschisti di agosto, membri del PC, non l' hanno fatto figurare, in quanto tale, come componente della giunta", perché "già alla vigilia del putsch il PC aveva perduto la battaglia della proprietà e del potere, e non era più questione se non della sua agonia"[2]. Questo spiega perché nei proclami di cui s'è detto il partito non figurasse in alcun modo quale referente essenziale, se non per quella sua parte di esso tuttora in grado di fungere da "articolazione dello stato nel "sociale".

Ma neppure ci si poteva appoggiare ad un qualsiasi blocco portante di interessi borghesi, visto e considerato che questi o si mostravano incapaci di assurgere ad un ruolo unitario e generale da poter contrattare e gestire col "comitato di salvezza" (nel caso della neo o pre-proprietà dei grandi complessi industriali statali), o apparivano frammentati in un coagulo di singoli appetiti individuali (le figure dei "nuovi borghesi", od aspiranti tali) insofferenti di ogni disciplina epperciò avidamente appesi alle promesse el'tziniane.

(Dicevamo all'inizio, retrocitandoci, della necessità di una disciplina volta ad affermare gli interessi generali del capitale nazionale. Ma anche per attuare "dall'alto" una tal disciplina, occorre che ne siano date prima le condizioni attraverso la costituzione di un "nucleo d'acciaio" recante sulle proprie spalle le sorti dello sviluppo capitalistico. Queste condizioni appaiono oggi insussistenti e lontane dal potersi realizzare. Ad esse è necessario un ulteriore passo in avanti della perestrojka ed il venire alla luce di ben più consistenti processi di concentrazione e centralizzazione. Quest'immaturità oggettiva ha giocato contro Janaev e soci, a parte le loro debolezze soggettive. E altrettanto indubbio che i "contro-golpisti" avranno le loro brutte gatte da pelare nell'affrontare il compito inevaso lasciatogli in eredità…).

Chi restava allora? Restavano le forze dell'ordine, delle varie polizie, dell'esercito, per non parlare delle fameliche schiere di piccoli e "grandi" burocrati - visti come il fumo negli occhi dalla popolazione - minacciati nelle loro sedie. Ma persino le forze armate non costituiscono una "variabile indipendente" sciolta dalla società che si possa muovere a piacere. Al pari del partito, esse erano attraversate da linee di divisione profonde al proprio interno (il paragone con Jaruzelski giocava qui a tutto sfavore di Janaev; più prossimo, semmai, è quello con l'attuale Jugoslavia). Non è perciò inspiegabile come queste forze, da ipotetico fattore risolutivo in mano ai "congiurati", si siano convertite nel suo contrario.

Incapaci di appoggiarsi realmente a chicchessia, i "golpisti" si sono mostrati altrettanto, e conseguentemente, incapaci di attaccare qualsivoglia postazione nemica. C'è da trasecolare! Che mai terribili "golpisti" erano costoro che, dopo aver fatto trasmettere i loro comunicati, hanno permesso la messa in onda dei proclami di El'tzin e non si sono mostrati capaci di alcun atto di forza dimostrativo?! Eppure lo dovevano sapere (possibile che non avessero letto il manuale di Luttwak su come si attua un vero colpo di stato?) che immediate misure radicali di intimidazione s'impongono quando si voglia far sul serio, non solo per terrorizzare gli avversari, ma per rafforzare o tacitare le proprie truppe!

Giochino pure ora gli El'tzin ed i suoi a fare gli eroi: essi hanno potuto ben facilmente assestare il classico calcio dell'asino senza correre soverchi rischi a quello che non era neppure un leone moribondo, ma un altro asino preventivamente karakirizzatosi. "Golpe" d'agosto o pesce d'aprile?

Da "golpe" a golpe

Da questo rovinoso… autogolpe di Janaev è così emerso, all'insegna del "trionfo della democrazia" (ovvero della "morte definitiva del comunismo" che tanto commuove gli occhetti), un movimento di segno l'opposto", per il quale - cioè - valgono gli stessi riferimenti perestrojkisti di principio (mercato, mercato ed ancora mercato…), solo che secondo diverse modalità e temporalità di attuazione.

Eliminati tutti i freni precedenti, si andrà dunque di qui in poi diritti per la strada tracciata? E lecito dubitarne. Eliminare l'ipoteca dei cosiddetti "conservatori" (cioè dei fautori del "passo dopo passo", con un pizzico precauzionale di autarchia, in vista di un moderno capitalismo "regolato") è stato un gioco da ragazzi. Eliminare quella dei "neo-stalinisti" ancor di più, visto che non ce n'era in giro l'ombra (persino Ligacev, la bestia nera dei "radicali", era tutt'altro che tale e persino la Andreevna quando parla di "ritorno al socialismo" evoca piuttosto una qualche forma di capitalismo "sociale", "partecipato" e balle del genere). Persino tenere a freno la classe operaia è risultato fin qui operazione di scarse difficoltà,, avendo potuto giocare sulla sua più che giustificata avversione verso il "vecchio sistema" e sulla sua scarsa percezione ancora di quello che sarà il paradiso prossimo venturo che le si prospetta.

Quello che è realmente difficile è mettere rapidamente in scena una classe borghese efficiente, "occidentale", capace di promuovere realmente lo sviluppo capitalistico dell'URSS o di ciò che resta di essa, ben altra cosa che l'attuale rete di traffichini ed intermediari che ingombrano la scena epperciò abbastanza libera da particolarismi individuali o di gruppo. E qui siamo solo agli inizi. Le "Moskovskie Novosti" (citate da Chauvier) così individuano la figura dei "nuovi ricchi" dell'URSS: "I "pescecani" hanno i loro uffici nei locali del partito o del Komsomol. La loro sfera d'azione preferita è l'intermediazione nell'import-export, la vendita di ordinativi, il turismo nazionale", mentre i "giovani lupi" sono costituiti dalla burocrazia del partito-stato "in riciclaggio nel business e dalla nouvelle vague del capitalismo privato" (che, però, occupa a tutt'oggi solo un 7% dell'intero comparto lavorativo), sempre con propensione all'intermediazione commerciale piuttosto che alla produzione. Chiaro che un salto qualitativo s'impone. Ma come?

Gorbacev in prima istanza e poi El'tzin, in più accentuata misura, hanno previsto un'accelerazione del processo di privatizzazione. In realtà, tale privatizzazione può riguardare direttamente le piccole e medie imprese (nel '92 dovrebbe esserne toccato il 60%), mentre per quelle grandi il problema si fa assai più arduo: parte di esse viene semplicemente "statizzata" dai vari governi regionali (sull'esempio di quanto si è già verificato in Croazia), sostituendo il vecchio management centrale o sottoponendolo agli interessi dei nuovi gruppi dirigenti, ma senza che ciò possa significare un rilancio adeguato della produzione; un'altra parte viene semplicemente "commercializzata", trasformandosi in società per azioni, con l'ingresso determinante del capitale straniero (la sola Avtovaz di Togliattigrad starebbe per cedere una quota del 40% delle sue azioni alla FIAT) a condizioni di sfruttamento assai ineguale (cioè, per il capitale estero, enormemente superiore agli investimenti apportativi; anche questo molto… croato).

Ne consegue che il cuore produttivo del paese rischia di rimanere in parte paralizzato, in parte sottoposto al controllo del capitale occidentale, il che non è precisamente l'optimum per un "sarto" sviluppo di capitalismo e borghesia interni[3]. E, in assenza di ciò, la stessa "libera iniziativa" nel settore medio-piccolo rischia di rimanere soffocata, trasformandosi dall'agognato volano dell'economia generale al ruolo, al massimo, di "indotto" al servizio del grande capitale, occidentale in primis, in veste di elemento sussidiario o di intermediazione.

Che tutto questo comporti il pericolo di esplosioni sociali è scontato, ed anche qui l'esperienza jugoslava ce ne offre un chiaro specchio. Una "razionalizzazione" dell'economia interna combinata al progressivo controllo su di essa da parte del capitale occidentale comporta, infatti, di necessità, un ridimensionamento senza pari del volume della forza-lavoro impiegata. Chi e come riuscirà a gestire i sacrifici da imporre alla classe operaia con una buona quota dei profitti in libera navigazione verso l'estero? Questa, o quale, borghesia "sovietica"? E basandosi su quali mezzi? Ben altro che un golpe agostano sarebbe per ciò necessario! Ma chi sarà in grado di progettarlo ed imporlo? Non è che dovremo dare "noi" una mano ad assicurare ordine ed interessi "comuni"?

(Ci sono anche degli "ingenui", chiamiamoli così, che ipotizzano un "fraterno aiuto" occidentale alla perestrojka in grado di fornire ad essa "disinteressatamente" l'assistenza tecnologica ed amministrativa necessaria alla sua realizzazione. Come dire: il capitalismo rinunzia alla concorrenza ed alla spoliazione, anzi accetta di mettere "disinteressatamente" in piedi un ulteriore concorrente! Sarà proprio un caso se Gorbacev se n'è dovuto venir via dalla riunione di Londra dei Sette Grandi a mani vuote? Se ogni briciola di "aiuto" dev'esser oggi ripagata da El'tzin con l'istituzione di "zone franche" ed il via libera ad investimenti di rapina? I capitalisti occidentali non hanno bisogno di leggere "L'Imperialismo" di Lenin per fare il loro mestiere di imperialisti. Fanno venire il voltastomaco piuttosto, tutte queste raccomandazioni delle "anime candide" all'imperialismo perché esso si trasformi da lupo in agnello!).

Balcanizzazione dell'URSS

Prima ancora di poter offrire al pubblico una qualsiasi borghesia sovietica degna di questo nome, l'attuale dirigenza dell'URSS ha dovuto sancire quest'estrema prova della sua incapacità di proporsi quale espressione-guida di un "sano" sviluppo capitalistico del paese: l'impossibilità di tenere unito il paese nell'ambito della (ormai tramontata) Federazione. Dapprima strada aperta alla secessione baltica, poi a quella di ogni altro stato con l'uzzo di fare altrettanto, infine un aborto di "trattato dell'unione" ridotto ad una sorta di "mercato comune" da stipulare tra chi ci sta (non molti in verità, al presente almeno; e non è detto che non accada di peggio in seguito).

Già prima della prevista firma di questo trattato, ed in misura sempre più accentuata, "le prerogative federali erano ridotte a tal punto da non assicurare neppure la permanenza di un'autorità comune a tutta l'Unione sovietica e l'unità dell'organizzazione difensiva per tutta la federazione" (P.M. De La Gorce, "Le Monde Dipl.", cit.). Era questo uno dei principali punti di preoccupazione della squadra di Janaev: come costruire un buon capitalismo se cominciamo sin d'ora a frammentarci e ad azzannarci? Preoccupazione borghese giusta, ma tardivi e inconsistenti i rimedi proposti. Dopo che l'economia sovietica si era già regionalizzata di fatto per l'evidente incapacità di promuovere un'effettiva integrazione tra i suoi vari comparti locali, dopo che gli stessi poteri politici e militari avevano seguito la stessa via, si poteva mai pretendere di reinvertire tale corso? E come, se non attraverso un inipotizzabile bagno di sangue?

Gorbacev, sin dove l' hanno sorretto le possibilità di farlo, aveva cercato di "regolare" tale realtà di fatto gettando acqua sul fuoco del secessionismo più spinto, nulla obiettando alle autonomie locali, ma invitandole a trovar la via di un accordo globale in seno alla Federazione con la giusta sottolineatura che o l'insieme dell'URSS avrebbe affrontato i compiti della perestrojka, o sarebbe stato il peggio per ogni sua parte separata . Anche in questo caso l'esempio jugoslavo era buon maestro.

El'tzin ha seguito un'altra strada. Assurto a capo della Russia, egli si è dato da fare per riconoscere da subito i separatisti baltici e, in seguito, ha fatto altrettanto, quando non li ha apertamente promossi, con gli altri separatismi. Ciò la dice lunga sull'uomo e la politica dei "radicali"… La linea di El'tzin era determinata da due fattori. Primo: spezzare la rete centralistica sovietica, considerata d'intralcio al pieno dispiegamento del suo programma di capitalismo selvaggio (in buon accordo con i disegni occidentali di indebolimento dell'URSS in misura tale da aprire la strada ad una "colonizzazione" senza intoppi del paese); secondo: fare della Russia un polo di attrazione e dominazione regionale, anche patteggiando con l'Occidente il "regalo", offerto su un piatto d'oro, della disintegrazione dell'URSS in cambio di consistenti aiuti al decollo della fidata Russia.

Non stupisce che mister Bush abbia salutato in El'tzin l' "uomo del destino" e sia attivamente intervenuto nelle questioni "interne" sovietiche aiutandolo a disfarsi senza colpo ferire dei "golpisti" (nonché a confinare Gorbacev in una posizione di secondo piano). Con scarsa spesa si è ottenuta l'esplosione dell'URSS in una miriade di stati autonomi, all'occorrenza conflittuali tra loro tanto economicamente che militarmente; la messa fuorilegge del "comunismo" (ed è chiaro che non si tratta della semplice esautorazione presente del PCUS, ma di una misura preventiva destinata a ben attivarsi in futuro); la disponibilità della Russia a subordinarsi al capitalismo occidentale in generale ed a quello dominante USA in particolare (conquistandosi così delle preziose postazioni nella lotta che verrà ad ingaggiarsi contro gli sforzi di penetrazione tedesca); più allettanti prospettive di sfruttamento delle altre repubbliche "sciolte", sia direttamente sia attraverso l'intermediazione russa, sulla base di un mantenimento di uno spazio economico-monetario "comune" (sempre che ciò si renda poi possibile: il gioco della balcanizzazione, una volta iniziato, non riesce sempre controllabile)[4].

Non diciamo che El'tzin persegua, state bene attenti!, la svendita della Russia come programma. La sua assunzione del "particolarismo russo" (domani: dello sciovinismo grande-russo) vorrebbe combinare quest'autoriduzione dell'ex- " impero" ai propri confini nazionali con un nuovo slancio da imprimere alla Grande Russia da cui, eventualmente, ripartire per una politica di grande potenza basata sui meccanismi di dominazione tipici dell'imperialismo. Le difficoltà nascono dal fatto che l'accresciuta manomissione occidentale sull'economia russa potrebbe, in astratta teoria, essere compensata solo da una sistematica rapina - e rovina delle economie dei vicini altri stati "indipendenti" onde poter accelerare la "ristrutturazione" in Russia e la sua successiva immissione sul mercato mondiale da concorrente[5].

Sempre in astratto, ciò non sarebbe impossibile, ma significherebbe in ogni caso attizzare conflitti senza fine e dalla portata incalcolabile tanto tra Russia e circonvicini, quanto tra gli USA e le altre potenze occidentali intente a spartirsi la torta ex-sovietica. Senza mettere nel conto l'incognita della reazione proletaria interna, ancor tutta da giocare. Diciamo pure così: l'emergere di una competitiva "Grande Russia" accelererebbe il corso catastrofico della crisi capitalista, così come una semplice sua "colonizzazione" non potrebbe farsi in modo indolore, poiché essa susciterebbe inevitabilmente un movimento di reazione anti-imperialista, tra virgolette o senza.

L"'etnocentrismo russo" di El'tzin ha già messo in allarme le borghesie nazionaliste delle altre repubbliche così come la concentrazione di poteri che egli ha condensato nelle proprie mani sta mettendo sul chi vive persino settori della "nascente democrazia" russa. E siamo solo ai prodromi di quel che sarà. Possiamo tranquillamente enunciare questa previsione: neppure chi ha prelevato da Gorbacev il secondo tempo della perestrojka sarà quegli che la porterà a termine. La situazione attuale è del tutto transitoria, sia dal punto di vista economico-sociale che da quello politico. Fallito ingloriosamente il "golpe" di Janaev, non basterà quello di El'tzin a chiudere la faccenda. Il "soggetto di potere" di cui al punto tre di quanto richiamavamo dal N. 20 del nostro giornale è ancora in incubazione. Il suo manifestarsi, in necessarie forme autoritarie ha ancora da venire.

Nostro chiodo fisso: e il proletariato?

Conflitti inter-imperialistici per il dominio sull'URSS, conflitti interstatali in seno a quella che era l'Unione Sovietica. Tutto questo è già scritto. Ma entrambi questi fattori ne richiamano un terzo: l'antagonismo proletariato-borghesia, ovvero del proletariato dei singoli stati ex-sovietici rispetto alle "proprie" borghesie "nazionali" e rispetto alla pressione imperialista. E trasmissione di questo antagonismo nel cuore stesso delle metropoli.

Questo è "il vero nodo "che sottostà alla superficie (come abbiamo inequivocabilmente chiarito parlando dello specchio jugoslavo).

Cominciamo allora a chiederci: quale è stata la posizione del proletariato sovietico rispetto al "golpe"?

Non quella di un protagonista in prima persona, questo è certo. Ma, al tempo stesso, esso non ha costituito in nessun caso una semplice massa di manovra per l'una o l'altra delle parti in causa. Si può dire, in un certo senso, che gli avvenimenti succedutisi da agosto in poi sono serviti ad esso per un primo assaggio della propria estraneità alle due soluzioni borghesi contendenti, il che può costituire un'utile premessa per il suo successivo riconoscersi quale forza autonoma ed antagonista.

Entriamo un po' più nel merito.

Il "comitato" janaeviano si era anche sbilanciato a promettere al proletariato (ricordiamo il ruolo svolto da Janaev alla direzione dei sindacati) una qualche tutela del salario e, più limitatamente, di "una certa" sicurezza quanto al posto di lavoro sotto forma di transizione morbida al sistema del "libero mercato del lavoro", nonché l'eliminazione dei fenomeni speculativi più vistosi e pesanti. Troppo poco, o quasi nulla, dal momento che a questo specchietto per le allodole faceva da contrappeso un rinnovato richiamo alla necessità di andare pienamente verso l'attuazione delle leggi di mercato, con tutto quel che ciò comporta. Particolarmente indigeribile dev'esser poi suonata agli orecchi dei lavoratori il ventilato blocco delle agitazioni sindacali con lo stop minacciato all'esercizio delle appena conquistate libertà sindacali. Del tutto naturale, quindi, che esso non abboccasse all'amo.

Ciò potrebbe indurre a credere che "pertanto" esso dovesse incondizionatamente porsi a fianco del blocco el'tziniano. Niente di più inesatto. C vero che questo proclamava la "difesa della democrazia" identificandola quale interesse "anche" operaio. t vero che della "via el'tziniana" non si è ancora fatta se non un'esperienza parzialissima per quanto riguarda la sua ricaduta sul proletariato. Ma è altrettanto vero che sono sin d'ora avvertibili gli "umori" ed i programmi di questo blocco: il "liberismo selvaggio" cui esso si richiama è giunto sino a manovrare la caduta della produzione per spingere ad un giro di vite nella "ristrutturazione" ed ha per posta in primis una riduzione drastica dell'occupazione e una "razionalizzazione" della rimanente, il che già costituisce una minaccia alla compattezza ed alla forza del proletariato, ma, come se questo non bastasse, la scure di un "nuovo ordine" grava sull'esercizio dei diritti sindacali e politici appena delibati in ragione della "situazione di emergenza" del paese (tutt'altro che una trovata di Janaev!).

Di certo è che l'appello di El'tzin allo sciopero generale non ha trovato eco nelle direzioni sindacali, tradizionali o meno, preoccupate sì di far sentire al "comitato" la propria voce dissonante, ma restie a farsi usare da El'tzin; ma ancor meno l' ha trovata nella base. Salvo che in località e settori specifici, il proletariato non ha fatto da sponda ai "radicali" e in nessun caso una sollevazione proletaria può essere computata tra i fattori decisivi del fallimento del "golpe".

Disilludiamo certi "sinistri" che, per giustificatissimo odio di classe verso El'tzin, avevano sperato nell'estrema ancora di salvezza-Janaev: il "comitato" si era auto-escluso dal proletariato, e viceversa, per reciproca incomunicabilità di fondo. Si può salutare come fattore positivo il distacco tra proletariato ed El'tzin solo se si è disposti a puntare tutto sul primo, senza nulla concedere ai presunti "baffoncini" salvasocialismo di turno. La questione del socialismo non ha nulla a che fare con gli schieramenti pro o contro-El'tzin e pro o contro-Janaev. Un proletariato "maturo" sarebbe prontamente sceso in piazza contro Janaev impedendo che a coabitarla arrivassero i "radicali". (Proprio mentre scriviamo vediamo scorrere le immagini dei minatori rumeni a Bucarest e constatiamo questo semplice fatto: dove i "musi neri" si fanno valere per sé stessi non c'è spazio per la trippaglia piccolo-borghese. Se a Mosca e Leningrado fosse successo la stessa cosa, avremmo assistito allo squagliamento tanto degli Janaev che degli El'tzin, antiproletari entrambi. Così non è stato, ma così sarà, e smettiamola intanto - vero, Cossuta? - di rimpiangere che il proletariato non si sia mosso dietro la "parte sana"… della borghesia).

La nostra partita ha ancora da aprirsi. Non è male che, intanto, i proletari sovietici abbiano marcato un punto di distinzione rispetto ai loro futuri oppressori di classe. Questo è l'unico, prezioso, elemento da capitalizzare. E potrà esserlo a condizione che anche e principalmente qui da noi si cominci a fare i conti con le ragioni del (logico e meritato) "crollo del socialismo" sovietico, da Stalin a Gorbacev, per affermare le ragioni del ritorno in forze del comunismo autentico. Chi non sa porsi a quest'altezza non avrà neppure più lacrime da piangere per le trincee perse. Le trincee dello stalinismo storico sono andate tutte e definitivamente in frantumi; quelle del comunismo di sempre si stanno già scavando. Non pretendiamo a brandelli del passato, esigiamo tutto il futuro nostro!


Note

[1] V. Pavlov, Obbligati alla svolta, Supplemento a "Mondo Economico", 29/6/91.

[2] Lo Chauvier aggiunge: "Questo partito, né bolscevico (come tale fu distrutto negli anni trenta da Stalin) né staliniano, né, d'altra parte, "partito" in senso proprio, ma semplice macchina di governo, apparecchio di potere, era ancora popolato nell'85 - malgrado la stagnazione e una profonda corruzione - da militanti convinti di ogni tendenza". Tra queste una tendenza proletaria, cui Janaev non poteva di certo rivolgersi quale proprio referente (pena il pericolo di evocare il pericolo di un vero partito di classe) e che El'tzin, assumendo ed estremizzando l'opera già svolta da Gorbacev, mira a neutralizzare, e peggio. La messa fuori legge del PCUS deve leggersi appunto c0me tentativo di togliere a questa tendenza la possibilità di usufruire di un terreno entro il quale fare i conti con le "altre tendenze" in vista della sua costituzione in un proprio partito indipendente. A tal fine, naturalmente, il richiamo al partito-stato quale "anche" proprio referente da parte del proletariato risultava dei tutto controproducente, ma è anche vero che la rottura di continuità organizzativa pone ad esso non pochi problemi aggiuntivi, sia pure su un piano prospettico più "limpido" e decisivo.

[3] Un solo esempio istruttivo di ciò che significhi l'ingresso "partenario" del capitalismo occidentale in URSS desunto da "Newsweek" (luglio '91). Lo sfruttamento dei pozzi petroliferi del Kazakistan da parte della Chevron comporterà un esborso di capitali da parte (ex)-sovietica del tutto squilibrato rispetto agli spiccioli in vestiti dal "partner" in cambio dell'apporto di una dubbia "alta tecnologia", ma i profitti andranno per il 50% ed oltre alla Chevron. La giustificazione addotta da quest'ultima per parare le critiche di "sfruttamento coloniale" (bene che comincino a circolare!) è assai semplice: l'investimento in URSS è "rischioso" e, in secondo luogo, noi provvediamo ottimamente alla "commercializzazione" del prodotto, che i sovietici non saprebbero garantire. Perfetto! Come dice De Michelis, la decisione occidentale di "venire in soccorso" all'URSS è "oltreché necessaria e possibile anche utile. Non siamo mossi solo (!!) da generosità verso l'Unione Sovietica…" (URSS oggi, aprile-maggio '91).

[4] Sulla questione "Le Monde Dipl." fa un po' di confusione allorché parla di un occidente che si augurerebbe "il mantenimento di uno spazio unico" sovietico o di sue "due linee" conflittuali in proposito: la prima "unitarista", la seconda "frammentarista". In realtà, le due cose vanno assieme: l' "unità" dell'URSS che va preservata è quella atta a garantire un rapina occidentale "a tutto campo"; ma essa comporta, al tempo stesso, la demolizione di un effettivo fronte pansovietico in grado di alzar troppo la testa contro questa stessa rapina (aiuti anche qui l'esempio jugoslavo!). Con la decentralizzazione dei poteri economici e politici, si configurano meglio i soggetti (od oggetti?) con cui "l'Occidente sa finalmente avere a che fare" (Business Week, 2/9/91). La garanzia del "mantenimento di uno spazio unico" viene dopo, e in rispondenza a ciò. Ammesso che possa tranquillamente venire…

[5] Notiziola istruttiva: La principale minaccia agitata da Javlinskij - e dietro di lui da El'tzin e Gorbacev - è che in caso di mancato accordo (tra le repubbliche n.) la Russia possa procedere per conto suo mandando alla rovina le altre repubbliche che hanno bisogno del suo mercato, delle sue materie prime e della sua produzione, industriale e agricola" (Il Manifesto, 17/9/91). Se il buon giorno si vede dal mattino…