Il dopo-elezioní in fabbrica

LA FABBRICA RISTRUTTURATA ANNI '90

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Cos'è realmente la fabbrica degli anni '90? Cosa si prepara a diventare? Rapido viaggio sui fronti di una guerra di classe, che i risultati elettorali promettono sempre più aspra, che la borghesia combatte per indebolire, dividere, fregare il proletariato. Al proletariato il compito di risolvere il problema: l'unica soluzione è e resta quella di una sua scesa in campo in difesa delle proprie condizioni e dei propri interessi di classe unificando le proprie forze. La partita è aperta, il terreno di gioco - come sempre per il proletariato - è quello dei concreti rapporti di forza. La condizione operaia in fabbrica ne è un aspetto fondamentale.


Cosa è diventata oggi la fabbrica e quali le condizioni di chi vi lavora? Il quadro che emerge dalla nostra breve sintesi delinea una realtà assai diversa dalle mistificatrici descrizioni di regime (quando di essa pur si parla), così come dagli abbellimenti sindacali di quello che è e resta per gli operai, un inferno.

Andiamo allora a vedere cosa offre all'operaio la fabbrica degli anni'90.

*Anzitutto: il peggioramento generale delle condizioni di lavoro sotto tutti gli aspetti (ritmi e carichi di lavoro, fatica fisica e psichica, frequenza e gravità degli infortuni, orari, ecc..) che, altra faccia della diminuita occupazione, è diretta causa dell'aumento, a volte eccezionale, della produttività del lavoro nelle grandi come nelle medie e piccole aziende. Solo nell'industria metalmeccanica tra il 1985eil 1988 la produttività (prodotto per addetto) è cresciuta del 16,8%, la produzione del 24,9% laddove l'occupazione è calata del 5,6% (il calo sarebbe molto più rilevante se rapportato al 1980). Se consideriamola sola Fiat, l'occupazione complessiva è diminuita dall'80 in poi di oltre il 40%, nel mentre la produzione di auto per addetto sale da 19 nel '79 a 28 nell'85 e fino a 31,2 nell'89.

Come si perviene a questo risultato? Semplice: per chi è rimasto in fabbricaci sono stati aumento dei carichi, maggiore saturazione del tempo di lavoro (riduzione dei "tempi morti"), aumento delle ore lavorate pro-capite, razionalizzazione delle attività di controllo con riduzione delle operazioni di recupero, innovazioni tecnologiche e, non da ultimo, il drastico abbassamento della conflittualità nei posti di lavoro unitamente ad una gestione di tipo più "collaborativo" delle relazioni sindacali.

Un riscontro immediato di ciò lo abbiamo dall'abbassamento ulteriore dei livelli di tutela della salute e dell'integrità fisica dei lavoratori, messo in risalto dai dati (pur scarsi e sottostimati) sugli infortuni di lavoro. Se nell'88 erano stati denunziati 1. 135 mila infortuni, di cui 3.026 mortali (1000 in più rispetto all'87), negli anni successivi il trend al rialzo è continuato e nel'90 sì è passati a 3.542 incidenti mortali e 71.360 casi di invalidità permanente: otto ogni ora, cui si aggiungono 12 infortuni ogni 5 minuti. Straordinari, aumento della fatica, nuove tecnologie, manutenzioni risicate, un numero sempre maggiore di attività appaltate e sub-appaltate rappresentano le cause immediate di questa "strage bianca", che è l'altra faccia, la più tragica e infame, di un insieme di condizioni lavorative in continuo peggioramento. Né è in vista un'inversione di tendenza (a meno di una ripresa dell'iniziativa operaia), se è vero che recentemente il governo ha dato un'ulteriore spinta a questa situazione con il famigerato decreto dell'agosto 1991.

Questo decreto, oltre ad abbassare i già bassi e poco rispettati standard di tutela della "sicurezza del lavoro", "vincola" (si fa per dire) gli imprenditori unicamente alle misure "concretamente attuabili di prevenzione e protezione dai danni. E nella stessa direzione di abbattimento dei "diritti" conquistati dalle lotte operaie va la direttiva Cee sulla "tutela" delle lavoratrici madri, che il governo italiano si appresterebbe ad adottare, con peggioramento drastico e complessivo delle disposizioni in materia (a cominciare dalla liberalizzazione del lavoro notturno).

Un capitolo a parte, in questo quadro, meriterebbe la situazione della piccola impresa (il ed. "sommerso" o indotto) in cui, approfittando della condizione di materiale isolamento ed estrema ricattabilità di questo settore di classe operaia, i capitalisti possono abitualmente vanificare le limitazioni legali e contrattuali allo sfruttamento del lavoro.

*La fabbrica ristrutturata degli anni '90 è caratterizzata anche dall'allungamento dell'orario di lavoro effettivo individuale e dalla sua massima flessibilizzazione in funzione del "tempo delle macchine". In questo campo l'Italia è tra i paesi occidentali che sono più a ridosso del primatista Giappone, riuscendo il "nostro" capitale a unire modernità degli impianti, flessibilità della forza lavoro e orari lunghi (in grandi stabilimenti come quelli Fiat di Mirafiori o Alfa-Lancia di Pomigliano l'orario settimanale è stato, nel 1989, rispettivamente di 42/44 e 47/48 ore!). A questo hanno portato le strategie padronali per l'abbattimento dell'"assenteismo" e della conflittualità in fabbrica, l'intensificazione dei ritmi produttivi e la sistematica decurtazione delle pause, la crescita incessante dello straordinario (aumentato di più del 50% nella grande industria metalmeccanica dall'85 in poi, con un più 10,7% di ore lavorate pro-capite nel periodo'85-88), l'estensione della produzione nella piccola azienda e nel "sommerso" (dove vigono orari di regola superiori alle40 ore, con punte oltre le 50, valori che salgono ulteriormente al Sud).

La reazione capitalistica alla crisi investe altresì la subordinazione dell'orario alle esigenze di massima saturazione dell'uso degli impianti. Di qui deriva quella flessibilizzazione degli orari di lavoro che connota in modo specifico, su questo terreno, l'offensiva padronale degli anni '80 e '90: estensione del lavoro a turni; estensione del lavoro al sabato (oggi il sistema del 6x6 è ben diffuso in tutti i settori) e alla domenica; introduzione di "contratti week end; introduzione strutturale di turni che eccedono le otto ore; estensione del lavoro notturno con sempre più frequenti deroghe al divieto del turno di notte per le donne; estensione del part-time e, infine, elasticità giornaliera (in entrata o in uscita) e annuale (ferie) del tempo di lavoro che permette di rapportare gli addetti alle variazioni congiunturali del mercato.

Se l'impresa coniuga in tal modo risparmio di lavoro e risparmio di capitale, realizzando l'obiettivo della riduzione dei costi di produzione, l'effetto per la classe operaia è doppiamente negativo: perché si accresce e per il proletariato industriale il peso del tempo di lavoro all'interno del tempo complessivo di vita; e perché, aprendo le porte alla flessibilità e alla sua contrattazione aziendale e individuale risulta divisione indebolito l'intero fronte di classe e infrante le basi della solidarietà fra i lavoratori. Senza contare che tali misure di Il razionalizzazione, servono anche a rendere "superflua" (per i bisogni di valorizzazione del capitale) una parte crescente di forza lavoro, che, in quanto disoccupata, viene poi giocata contro gli occupati come arma di ricatto economica e politica.

*Ancora: "flessibilizzazione" del salario attraverso quote sempre maggiori di retribuzione legate alla produttività e all'andamento aziendale ("salario variabile", eliminazione degli automatismi), e sua diversificazione in un ampio sventagliamento di settori, aziende e lavoratoti all'interno della medesima azienda. I due aspetti sono strettamente connessi: entrambi rappresentano un attacco all'unità della classe operai a per di vide m e i i potenziale uni tari o ed intaccare 1a massa salaria1e globale, oltreché peggiorarne le condizioni di lavoro.

La liquidazione della scala mobile e, più in generale, l'intera trattativa sul costo del lavoro mirando all'eliminazione dei residui automatismi salariali, rappresentano un ulteriore, grave passaggio dell'attacco all'unità dei lavoratori e alla massa globale del salario.

*Infine: attacco alla compattezza, numerica e materiale, della forza lavoro occupata. Dopo le massicce espulsioni dei primi anni '80 nelle grandi imprese, la nuova immissione di manodopera giovanile a partire dall'86 e fino all'89-'90 è avvenuta in condizioni di maggiore precarietà e ricattabilità (oltreché di divisione salariale) attraverso l'utilizzo dei contratti di formazione lavoro a chiamata nominativa. Se questi hanno rappresentato per il padronato un ottimo strumento di flessibilizzazione della forza lavoro in entrata nel ciclo produttivo (insieme alle assunzioni nelle "boite" e nelle imprese di appalto), oggi la mutata situazione impone alla borghesia la gestione meno costosa e conflittuale possibile della manodopera da espellere dalle fabbriche. L'uso dei prepensionamenti e soprattutto la nuova legge sulla Cig (che ne fa un'anticamera del licenziamento) si adattano benissimo, uniti ai "classici" licenziamenti nelle piccole e medie imprese, alle "nuove" esigenze del capitale, permettendo un ulteriore, deciso attacco all'occupazione operaia, che è anche un attacco contro la sua organizzazione in fabbrica e comporta l'aumento dello sfruttamento per chi vi rimane, predisponendo il terreno per futuri e più duri colpi.

La "nuova" fabbrica…

La realtà, come si vede, è mille miglia distante dalle rappresentazioni idilliache (e forcaiole che se ne danno. Ma non potrebbe trattarsi, invece che dell'inferno, di un purgatorio, duro sì per gli operai, ma necessario per l'accesso al paradiso della nuova "fabbrica integrata " e della "qualità totale", forma finalmente rinvenuta della pacificazione tra capitale e lavoro salariato? Così almeno suona, in fabbrica e fuori, la martellante propaganda padronale, sostenuta attivamente dai sindacati "gialli" (dalla Cisl, alla Uil, al Sida) e avallata dal nuovo corso" della Cgil.

Proviamo dunque a confrontare tali declamazioni con quelle realtà di fabbrica ove più avanzata è la realizzazione di questa ristrutturazione, e risulterà che ci troviamo di fronte ad un ulteriore attacco alla classe operaia, che è in stretto rapporto con l'acuirsi della eri si, e che non a caso è portato avanti in maniera particolarmente decisa proprio dalla Fiat, che è da sempre centro dell'offensiva capitalista contro il proletariato italiano. "In questo contesto (di "aspra concorrenza", n.) -afferma Magnabosco, responsabile del Personale della Fiat Auto- la parola d'ordine è: aumentare il valore aggiunto e spingere al massimo la produttività degli impianti". Per questo la "fabbrica tradizionale, che fino a ieri, in modo più stabile, andava benissimo, non basta più": la classica combinazione di sfruttamento e dispotismo - traduciamo nel nostro linguaggio - va, cioè, approfondita e perfezionata. È a questa esigenza che risponde il "modello giapponese (toyotismo) la cui applicazione è appunto la fabbrica integrata.

In cosa consiste questo modello? Il "toyotismo" è la realizzazione dei "principi organizzativi del fordismo in una condizione di prerogative manageriali illimitate" (Jürgens in "Quaderni di sociologia", n. 34, 1988, p. 121). Non è affatto il superamento della parcellizzazione e della meccanizzazione della produzione; è bensì la combinazione di questi principi, la cui classica configurazione li troviamo nella linea taylorista-fordista (niente affatto abbandonata), con una rinnovata attenzione per il "fattore umano" da sottomettere (anche tramite il suo coinvolgimento) e sfruttare ancora più intensamente grazie al perfezionamento dell'organizzazione tayloristica della produzione. Ciò è possibile solo con un ulteriore e più pesante subordinazione del lavoro vivo: quello che deve essere superato è la rigidità operaia in ogni suo aspetto, e a questo fine l'impresa affina i mezzi per lo smantellamento dell'organizzazione dei lavoratori in fabbrica. Vediamo più da vicino in che modo il toyotismo riesce ad aprire queste "nuove" strade allo sfruttamento.

Il vantaggio sui costi grazie alla maggiore efficienza dell'organizzazione produttiva delle imprese giapponesi non è dovuto ad un più alto grado di automazione, bensì alla loro capacità di controllo globale della forza lavoro nel processo produttivo e alla estrema flessibilità nel suo uso. Principio supremo del sistema toyotista è il cosiddetto just-in-time o "zero-scorte", che minimizza le scorte di lavoro e di materiale. Molteplici ne sono le conseguenze: massima saturazione dei tempi; carichi aperti verso l'alto con tendenza sistematica a prestazioni speciali ed extra; impiego di manodopera al di sotto dello strettamente indispensabile in modo da assicurare sia l'intensificazione del lavoro sia lo straordinario "strutturale"; recupero sistematico della produzione perduta ed eliminazione collettiva dell'errore; ulteriore aggravio delle prestazioni a causa dell'attribuzione dei compiti di manutenzione e controllo qualità agli addetti alla produzione diretta (altro che ricomposizione delle mansioni e superamento della divisione del lavoro!); estrema mobilità dei lavoratori. Tutto ciò va nella direzione di intensificare prolungare le prestazioni, combinando così efficacemente elevata Produttività e orario di lavoro abnormemente lungo. Il segreto del successo del toyotismo è tutto qui: esso riesce ad assicurare al capitale una quantità di lavoro operaio non pagato superiore a quella "garantita" dal taylorismo classico.

Il "modello giapponese " ha come prerequisito (e al contempo effetto) fondamentale, dentro e fuori la fabbrica, la sistematica opera di frantumazione dell'unità e solidarietà dei lavoratori. Esso punta a rafforzare al massimo nei lavoratori il "senso di appartenenza all'azienda", ad indurre in loro sottomissione e accettazione degli obiettivi capitalistici. Sono incentivati a tale scopo la partecipazione ai circoli di qualità o gli impegni di formazione professionale (solitamente al di fuori dell'orario di lavoro) e viene usato nello stesso senso l'enorme potere di disposizione che l'impresa ha sul tempo dei lavoratori (non fruizione delle ferie e dei giorni di malattia, ecc.). All'opera di coinvolgimento e sfruttamento dei lavoratori dà, infine, un contributo essenziale la presenza di un sindacato aziendale che opera come appendice del la direzione in funzione di inquadramento, controllo e divisione della massa operaia. Quello che è assolutamente escluso è un'organizzazione operaia autonoma.

È un'esagerazione, allora, dire che la qualità totale significa nient'altro che sfruttamento totale del lavoro e competitività totale tra i lavoratori?

realtà nostrana.

È lontana la realtà italiana di fabbrica dall' "ideale" toyotista? Niente affatto, almeno per quel che riguarda le tendenze reali. Se lo è quanto al grado di realizzazione di esse, lo è solo grazie a una minore debolezza della classe operaia che, seppur frastornata e con più di una batosta alle spalle, ha potuto finora conservare alcune conquiste delle lotte passate ed un residuo, seppur sfilacciato, tessuto organizzativo unitario. Ma è proprio questo che padroni e governo stanno attaccando a fondo, anche con il progetto "fabbrica integrata e qualità totale".

Tanto per iniziare, e riferendoci alla Fiat, a pochi mesi dal varo "ufficiale" del progetto, l'azienda ha siglato con i sindacati un accordo sugli investimenti al Sud per i due stabilimenti di Melfi ed Avellino, le cui ragioni (capitalistiche) stanno tutte nelle condizioni di massima flessibilità e produttività cui sottoporre i lavoratori: tre turni per sei giorni (con deroga al divieto di lavoro notturno per le donne), una forza lavoro priva di organizzazione e tradizione di lotta, un sindacato ampiamente collaborativo, e per buon peso rilevanti finanziamenti pubblici. Insomma, un passo verso il ristabilimento delle vecchie "gabbie" tra lavoratori del Nord e del Sud d'Italia, non solo salariali, bensì anche rispetto alle condizioni di lavoro -come del resto richiede la Lega.

Proseguiamo con gli stabilimenti di Rivalta e Cassino, all'avanguardia nella realizzazione della fabbrica integrata. Qui il progetto aziendale è stato introdotto previo smantellamento delle rigidità operaie sancite dagli accordi del'69 e del '71 sulla fissazione di un tetto insuperabile per le saturazioni: a Rivalta con l'elevamento al 118% (ben oltre i limiti precedenti) della saturazione massima individuale; a Cassino con l'accordo sul recupero delle fermate produttive sulle linee (la cui velocità risulta così notevolmente incrementata). Il risultato è l'aumento secco della Produttività. Nella stessa direzione va l'introduzione della fabbrica integrata alle Meccaniche di Mirafiori (fine 1991), dove i programmi per la mobilità della forza lavoro, da mensili, diventano settimanali (e quindi, in pratica, giornalieri). Comunque la si metta, fabbrica integrata significa nient'altro che assoluto potere di disposizione dell'azienda sui lavoratori, e quindi aumento netto della produttività sfruttamento).

Né il fenomeno è limitato agli impianti Fiat-Auto: recentemente alla Borletti e nelle aziende del gruppo Gilardini (e già prima alla Marelli di Pavia e alla Siem-Carello) il passaggio a un nuovo metodo di rilevazione dei tempi e metodi di lavoro (il TMC2, che va a sostituire il TMC 1) ha fatto aumentare la produttività del 18% a parità di retribuzione, oltre a facilitare l'estensione delle rilevazioni ad aree non ancora toccate. Un attacco, come si vede, incentrato, sul solo aspetto della razionalizzazione (pro aumento) di ritmi e carichi di lavoro. È quanto sta avvenendo anche negli stabilimenti Alfa-Lancia di Arese e Pomigliano, dove aumento dei ritmi e peggioramento delle condizioni lavorative fanno il paio con l'uso della Cig

In sintesi, sia negli impianti tecnologicamente di "avanguardia" che nei cicli produttivi più tradizionali l'obiettivo aziendale è di aumentare la produttività, riducendo le scorte e incrementando velocità e uso degli impianti. Il ciclo produttivo, lungi dall'essere più "snello", è diventato per gli operai ancora più rigido, le condizioni sono peggiorate, la situazione di vincolo si è allargata oltre la stessa catena.

Se poi andiamo con lo sguardo oltre la Fiat, il quadro risulta ulteriormente confermato. Alla Zanussi, altro esempio di fabbrica integrata, l'accordo dell'ottobre 1991 (firmato, dopo il congresso Cgil, anche dalla Fiom) ha esautorato il consiglio di fabbrica a favore di commissioni paritetiche azienda-sindacati, e l'esito della ristrutturazione ha dato luogo alla seguente situazione: assoluta prevalenza del lavoro manuale e serializzato, oltre tutto eseguito in posizioni individuali (chiamate dagli operai "gabbie") che determinano il più completo isolamento fisico; forte presenza di giovani di cui un terzo donne, assunti con contratti di formazione-lavoro e inquadrati ai livelli più bassi; di contro, un'accentuata articolazione delle "professionalità" (18 figure: nel più puro spirito fordista); orario di lavoro 6x6 su tre turni per la maggioranza; bassi salari, ecc.

Quanto poi alla situazione degli operai del l'indotto, sotto la doppia stretta della "ristrutturazione" e della recessione, essa è, se possibile, ancora peggiore. Un dato su tutti: in seguito al progetto di qualità totale, i fornitori della Fiat-Auto dovranno diminuire da circa 1000 a meno di 500 con razionalizzazione della produzione e riduzione dei costi. Come immediata conseguenza di ciò le aziende fornitrici già stanno imponendo alle proprie maestranze aumento della produttività, riduzione degli organici, agganciamento del salario a obiettivi produttivi o, come alla Borgo Nova di Alpignano, la decurtazione netta degli stipendi.

Che tutto ciò marci insieme al tentativo di coinvolgere materialmente i lavoratori nelle sorti della propria azienda (salari, idee-qualità, ecc.), va da sé ed è un aspetto importante, per quanto qui appena accennato. L'obiettivo è - proprio allorché l'offensiva antioperaia si approfondisse - di legare anima e corpo una parte della classe operaia alla difesa dei "comuni interessi" aziendali. L'atteggiamento dei lavoratori verso questo progetto è niente affatto di entusiasmo, bensì di scetticismo e attesa - laddove non di opposizione, come nelle realtà più avanzate - nel giusto sentore che esso va insieme al più generale attacco alle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia. Il problema è allora: quale risposta dare, come porre un alt al continuo peggioramento della situazione in fabbrica?

La guerra permanente che la borghesia porta avanti contro la classe operaia nelle fabbriche è parte integrante della più generale offensiva antioperaia sul piano economico e politico. L'attacco, generalizzato e concentrato, è la conseguenza necessaria del riacutizzarsi della crisi capitalistica a scala internazionale. Di qui l'esigenza per la borghesia di una radicale ristrutturazione, che significa intensificazione dello sfruttamento e dell'oppressione del proletariato: la ricetta capitalistica è una fabbrica alla "giapponese" e uno Stato democratico ultra autoritario. Fa parte (ed è condizione) di questa ricetta la sistematica opera di divisione del fronte operaio, dentro le fabbriche come fra occupati e disoccupati, tra proletari italiani e proletari immigrati, tra Nord e Sud Italia.

Quale che sia il governo che si va a formare, questi sono i problemi che, come proletariato, ci troviamo ad affrontare. La nostra risposta, allora, non può che essere la ripresa della mobilitazione. Dobbiamo abbandonare e rifiutare l'idea secondo cui è possibile difendere gli interessi proletari e al tempo stesso subordinarsi ai vincoli dell'economia nazionale ed aziendale: non esistono interessi comuni fra proletariato e borghesia! E dobbiamo, contemporaneamente, lavorare a far convergere in un fronte unitario di classe le spinte e le risposte operaie potenziali o già presenti, per superarne lo stato di frammentazione ed evitare che la rabbia operaia accumulata in questi anni si disperda o, peggio ancora, si faccia sviare dalle sirene leghiste.

La battaglia e la mobilitazione per la difesa e il potenziamento della scala mobile è, in questo quadro, centrale, perché l'attacco borghese su questo punto è un attacco all'unità materiale ed organizzativa del proletariato. Altrettanta importanza al fine dell'unificazione della classe operaia ha i1 rilancio di una lotta generale contro i licenziamenti, la cassa integrazione e il peggioramento delle condizioni di lavoro, contro la riorganizzazione ancor più reazionaria dello Stato (sotto qualunque veste avvenga) e contro le politiche antioperaie del governo.

Dobbiamo difendere con le unghie e con i denti i nostri spazi di lotta e organizzazione e lavorare alla ricostituzione di un tessuto organizzativo unitario della classe capace, non da ultimo, di solidarietà con le masse sfruttate dall'imperialismo e coni lavoratori degli altri paesi capitalistici in lotta contro lo sfruttamento.