MILANO: IL GRANDE RISVEGLIO DI AUTUNNO

L'attacco dei padroni e del governo dell'estate-autunno '92 non è giunto improvviso: già a partire dallo scorso anno e, con ritmo incalzante, dalla primavera, l'ondata di licenziamenti, l'attacco alla scala mobile, l'abolizione delle mense aziendali, i preparativi per la ristrutturazione in senso ancor più antiproletario dello Stato, tutto ciò annunciava che la borghesia, stretta nei morsi della crisi, si preparava a scatenare una micidiale offensiva contro il proletariato.

Anche il proletariato, da parte sua, non ha aspettato il 18 settembre per azionare i suoi muscoli: sin dai primi colpi ha reagito e, pur in presenza di una debolezza politica complessiva, ha dato prova di essere pronto ad accettare la sfida. Nel n. 23 del "Che Fare" riportavamo la lunga serie di scioperi e di lotte con cui i lavoratori avevano tentato di resistere all'attacco occupazionale.

Da allora la mobilitazione, pur non linearmente, è andata crescendo, fino ad arrivare al movimento di lotta di questo autunno.

Agli inizi della primavera, di fronte ad un orizzonte sempre più minaccioso per il proletariato nel suo complesso, ci si è resi conto che è necessario unire le forze e superare la frammentazione delle prime lotte di resistenza: dagli scioperi azienda per azienda si passa agli scioperi di zona, quindi allo sciopero delle fabbriche metalmeccaniche in crisi del 20 febbraio, a quello dell'intero settore metalmeccanico del 12 maggio, fino ad arrivare allo sciopero generale del 28 maggio. Queste giornate di lotta, ancorché limitate alla realtà milanese, vedono in campo con crescente determinazione una crescente massa di operai.

Ma la risposta operaia non cresce solo quantitativamente: si scende in campo non solo contro i licenziamenti, ma anche contro gli altri aspetti dell'attacco capitalistico; istintivamente gli operai cominciano a percepire che con una lotta puramente sindacale, anche se dura, si possono al più smussare gli effetti dei colpi del nemico ma che per resistere alla sua offensiva è necessario produrre dei mutamenti nei rapporti di forza tra le classi, cioè occorre investire il piano politico. Lo scoppio dello scandalo delle tangenti porta ad emersione ed alimenta questa sensazione sotterranea che cominciava ad essere avvertita dalla classe operaia. Come potersi difendere sul piano immediato senza buttare via un apparato di potere vitalmente legato a-gli e geloso custode degli interessi di quelle imprese che licenziano e taglieggiano i salari? Questa la spinta materiale che in varie assemblee tenutesi in maggio e in giugno ha pressato le avanguardie operaie a cercare nel PDS e nel PRC una sponda politica ed un impulso per un'azione unificante di tutti i lavoratori; la stessa spinta che, in modo deviato, si esprime nello slogan "Viva Di Pietro", gridato nel corteo metalmeccanico di Milano del 12 maggio. Cieco chi (magari dall'alto della propria Coscienza) abbagliato solo da questo dato non coglie questa spinta di classe e non vede in ciò un episodio del tortuoso processo attraverso cui il proletariato cerca la strada per ritrovare se stesso. Purtroppo, ancora dietro bandiere illusorie e suicide.

E non può essere altrimenti, vista la fragilità politica complessiva del proletariato. Questa non è dovuta semplicemente al peso delle batoste degli anni passati; determinante è il fatto che si fanno sempre più strette le possibilità di difesa entro un quadro operaista, senza investire la totalità dell'offensiva borghese e i piani del suo svolgimento.

Il proletariato è chiamato ad elevarsi a questa altezza.

Da un lato tuttavia la pressione della sua mobilitazione è ancora insufficiente, limitata ad alcuni settori e ancorata all'illusione della possibilità di una difesa delle proprie condizioni di vita legata al risanamento dell'economia nazionale.

Dall'altro le sue direzioni, sindacali e politiche, non fanno niente (anzi) per incoraggiarla e per prepararla. Che cosa "feconda" ad esempio l'idea che con una gestione pulita ed efficiente della macchina statale si risolveranno le difficoltà dei lavoratori, quando invece essa servirà a tagliare ancor più le gambe ad essi e alle loro stesse organizzazioni?

I militanti proletari più coscienti avvertono la somma di potenzialità e di difficoltà connessa a questo stato di cose ed in numerose assemblee si chiedono come incanalare la spinta che ha cominciato a mettere in movimento il proletariato in una prospettiva di classe, come evitare che l'inizio di attivizzazione si traduca in passivizzazione o (peggio) in consenso (magari attivo) a Leghe e forze ancor più fetenti. I loro occhi sono puntati all'autunno ma la primavera operaia dovrà passare attraverso una momentanea "gelata" prima di maturare nella "sbocciatura" autunnale.

L'accordo del 31 luglio arriva, infatti, come una doccia fredda: di fronte ai ricatti dei padroni e del governo, la firma produce nella massa operaia la sensazione di non avere uno stato maggiore che può guidarla nella resistenza contro l'attacco. Anche nell'unica fabbrica, l'Alfa Romeo di Arese, dove il 4 settembre si sciopera contro l'accordo, non c'è il "solito" clima, di chi scende in lotta con la coscienza e l'orgoglio di fungere da motore e da traino della mobilitazione di tutto il proletariato milanese: l'incazzatura verso i vertici sindacali è mescolata alla preoccupazione per il futuro sempre più tempestoso e ad una certa sfiducia nella capacità di ribaltare la situazione con le proprie forze. E' vero che una parte, quella più combattiva, spinge nelle proprie organizzazioni (sindacali e politiche) affinché si ponga un alt al disarmo della classe, ma nel complesso essa indietreggia e resta per il momento in attesa.

Nessuna attesa è però concessa dopo il varo della manovra.

La mattina del 18 settembre gli operai sentono che è scoccata l'ora di una battaglia cruciale; sentono che solo gettando sul piatto tutto il proprio peso possono imporre il loro rifiuto (fatto materiale prima che di coscienza!) di essere gli unici a fare i sacrifici e di farli gestire ad una classe dirigente odiata e percepita come nemica. Sarà sciopero e una ventata "purificatrice" percorrerà la classe operaia: "la liberazione da un gas paralizzante che s'era insinuato tra i lavoratori", così un delegato saluta la mattina del 18 settembre il blocco totale delle maggiori fabbriche milanesi.

Lo sciopero è impulsato dall'alto, dai quadri delle Camere del Lavoro che nella notte telefonano ai delegati di fabbrica, ma non appena la massa operaia scende nelle strade preme sulla stessa organizzazione sindacale per chiedere una direzione della propria mobilitazione adatta alla bisogna: la stessa mattina del 18 settembre i cortei operai si dirigono sotto le Camere del Lavoro per chiedere lo sciopero generale; i 100mila lavoratori che il 23 settembre invadono Milano in occasione dello sciopero generale regionale oltre a dare un monito al governo vogliono anche e soprattutto inviare un segnale alle proprie direzioni per ricevere da esse una prospettiva di lotta e ordini di battaglia chiari ed efficaci. "Sacrifici equi? E sia, ma organizziamo una lotta vera che imponga questa rivendicazione sul serio", questo il ragionamento della massa operaia.

Per quanto sotto la spinta della mobilitazione operaia le direzioni sindacali sono costrette a spingersi oltre le loro iniziali intenzioni, fino a proclamare lo sciopero generale nazionale (anche se "dimezzato"), da esse non viene un chiaro ed efficace piano di difesa. Tutt'altro. Di fronte ai centomila lavoratori che il 23 sfilano per Milano alla richiesta unanime di sciopero generale, la preoccupazione dei vertici sindacali non è quella di far sentire loro tutta la forza messa in campo, di unificarne i moti, di dar loro inquadramento ed una prospettiva di lotta, bensì di non far riempire la piazza, di smorzare e tenere sotto controllo la pressione proletaria. A tal punto che dopo la fuga dell'oratore ufficiale e l'invito a chiudere la manifestazione, davanti ad una "piazza" che non vuole saperne di sciogliere le fila perchè aspetta indicazioni, i vertici confederali lasceranno il palco vuoto per una ventina di minuti.

Già in primavera la classe operaia aveva posto la necessità di una direzione della propria mobilitazione capace di difendere i suoi interessi. Ora quest'esigenza è diventata materialisticamente ancor più pressante. Ora a differenza di allora il proletariato è riuscito a mettere in campo tutta la propria energia e con ciò a realizzare la condizione fondamentale per lo scioglimento di questo nodo essenziale. Ad essa deve accompagnarsi, pena una batosta pesante, un lavoro capace di estendere, unificare e rafforzare la mobilitazione stessa; capace di contrastare nel seno della stessa classe operaia l'illusione di poter trovare margini di difesa facendosi carico delle esigenze dell'economia nazionale; capace di ricomporre, su questo terreno unitario, le divisioni che percorrono lo stesso proletariato e che la politica sindacale cristallizza e approfondisce, come è avvenuto il 23 settembre quando, dopo la fuga di Veronese, la "piazza operaia" si è fratturata lungo tre dislocazioni: una parte, dietro lo striscione del Cobas Alfa, è uscita dalla piazza (ma non si diceva di voler e dover fare la battaglia nella massa?); nei lavoratori rimasti in piazza la contrapposizione fra chi invoca uno sciopero generale ad oltranza e chi, preoccupato dei ricatti borghesi, inclina ad una maggiore "ragionevolezza".

Al contrario, il potenziale unitario di lotta espresso, di fronte all'incalzare dell'offensiva borghese, servirà tutto. E se il rischio di uno sfilacciamento esiste nei fatti, non sarà certo con scorciatoie giuridiche o organizzativistiche che lo si potrà evitare. E' necessario che la mobilitazione non refluisca neanche momentaneamente, occorre che si estenda e diventi più stabile e nello stesso tempo è necessario che si incardini sul binario vincente di una difesa intransigente dei nostri interessi di classe.