In un mondo islamico in cui nessun fuoco è spento

SI RIACCENDONO LA QUESTIONE
PALESTINESE E LA QUESTIONE IRACHENA

Indice


Dicembre '92 e gennaio '93: due mesi neri per l'imperialismo in Medio Oriente. I concomitanti affondi di Israele contro il movimento islamico Hamas e degli Usa contro l'Iraq, si sono ritorti entrambi contro gli aggressori, accrescendo le loro difficoltà nel "pacificare" l'area ed attizzando contro di essi l'odio di classe degli sfruttati arabi e islamici.


Israele colpisce duro le masse palestinesi

Tanto in Occidente quanto negli ambienti diplomatici arabi, si è presentata la decisione del governo Rabin di espellere da Gaza e dalla Cisgiordania i 415 appartenenti ad Hamas come un atto avventato. Ci si lasci spiegare perché si è trattato, invece, di un provvedimento che, sebbene risultato controproducente, rientra in una escalation della violenza che è per lo stato di Israele necessaria.

Conclusa la guerra all'Iraq (o almeno il primo tempo di essa), la coalizione imperialista vincitrice varò la Conferenza per la pace in Medio Oriente. L'obiettivo era ambizioso: recuperare una qualche credibilità agli occhi delle popolazioni islamiche avviando a soluzione la questione palestinese. E fare ciò attraverso un compromesso diseguale: definitivo riconoscimento di Israele da parte del mondo borghese arabo in cambio di una limitata autonomia amministrativa per i palestinesi di Gaza e di alcune strisce della Cisgiordania.

Nonostante il Likud fosse restio ad incamminarsi su questa strada. nel suo complesso la borghesia israeliana ha prestato ascolto alle valutazioni di Washington. La realizzazione di un simile "compromesso". infatti, potrebbe garantire ad Israele. con una seconda Camp David, una maggiore sicurezza. permettendogli di ridurre l'onerosissimo bilancio militare (la spesa bellica diretta ed indiretta è circa il 70% della spesa statale) e di dislocare capitali per il rilancio di un'economia da anni nelle peste. E potrebbe consentirgli di scaricare un po' alla volta sulla dipendente microborghesia palestinese l'ingrato compito di mantenere l'ordine nei territori, stringendola al contempo a sé con una fitta rete di rapporti sia economici che politico-amministrativi.

La direzione dell'OLP accettò di buon grado il negoziato, in quanto interessata ad una transazione anche magra purché in grado di bloccare la Intifadah delle masse sfruttate divenuta, per le sue enormi conseguenze sociali, una minaccia per l'occidentalizzata élite palestinese degli affari e della cultura e per tutti i regimi arabi.

La trattativa non si presentava agevole. La colonizzazione a largo raggio attuata dallo stato di Israele ha ridotto materialmente al minimo i margini per una sua ritirata, dai territori occupati come dal Golan e dal sud del Libano. Tuttavia, l'arrendevolezza di Al Fatah e della parte sociale borghese e semifeudale che si riconosce in essa lasciava sperare l'Occidente di poter finalmente imporre la sua 'pace" in Palestina e nella regione. Un'occasione storica da non perdere, la definì Bush.

La condizione essenziale per la riuscita del programma di "pacificazione" era però la totale liquidazione dell'Intifadah, perché la sua continuazione oggettivamente lega le mani anche ai più zelanti tra i negoziatori palestinesi (non ci si può presentare a mani vuote a masse in rivolta, per giunta armate!). Ma esattamente questo non è riuscito di fare ad Israele.

Dopo il massacro iracheno, l'Intifadah si è indebolita e sfilacciata. e per un momento c'è stata un'attenzione di massa verso la Conferenza, ma, via via che lo stallo del negoziato s'è fatto evidente, hanno preso piede indifferenza e scetticismo fino a rendere largamente prevalente, negli ultimi tempi la richiesta di abbandonare il tavolo del "dialogo".

In campo politico le simpatie dei diseredati di Gaza e della Cisgiordania si sono andate spostando dall'OLP verso le formazioni (Hamas e Jihad islamica) che fin dall'inizio hanno denunziato la natura imperialista della Conferenza di pace e criticato i "rappresentanti" palestinesi per "avere dato tutto senza ottenere nulla". E questo spostamento politico ha ridato fiato alla ribellione di masse le cui condizioni di vita, dopo il licenziamento di decine di migliaia di proletari pendolari in Israele rimpiazzati dagli emigrati russi, sono inenarrabili ("A Gaza si vive peggio che i cani a Tel Aviv", ha scritto "Haaretz", giornale israeliano, del 12.6.92).

Davanti ad un certo risveglio dell'Intifadah ed alle prime efficaci azioni di gruppi di giovani armati, il governo laburista s'è visto costretto costretto dagli interessi di sfrutta mento di cui è esecutore- a far fare un salto di qualità alla repressione anti-palestinese. nel tentativo di decapitare il movimento e frenarne la radicalizzazione.

Non si deve credere. però. che Israele abbia deciso di chiudere per sempre la porta al "compromesso". Al contrario, negli ultimi tempi, si è rafforzata in Israele la tendenza ad arrivare ad una qualche forma di composizione del conflitto. "Noi e loro -ha detto Peres- abbiamo bisogno, disperatamente bisogno, dei colloqui di pace". Perché anche "noi", la fortezza atomica Israele super-protetta dall'imperialismo?

Perché la crisi produttiva si fa sentire. Gli aiuti occidentali sono sempre meno a fondo perduto. I costi economici dell'occupazione e della soppressione dell'Intifadah stanno diventando troppo pesanti. E quelli umani, in morti e feriti, non sono più irrilevanti. I colpi ricevuti dall'esercito ne hanno intaccato l'invulnerabilità e forse il proverbiale livello di "efficienza". Guerra permanente e recessione stanno spaccando in profondità la società israeliana. Minacce di guerra civile salgono da destra, soprattutto dal movimento dei coloni. Ma cresce pure, in modo più lento e tortuoso, lo scontento dei salariati per la disoccupazione, per il peggioramento degli standard di vita, per uno scontro di cui non si vede la fine. La sollevazione palestinese ha eroso benessere e pace sociale dell'oppressore israeliano.

Di qui la politica di doppio binario del governo Rabin, in sostanziale consonanza con gli Usa.

Da un lato, aperture senza precedenti sia all'OLP (incluso l'ex-nemico pubblico n. 1), perchè cooperi a disinnescare l'Intifadah dall'interno, sia alla imprenditoria palestinese (nel '92 c'è stata una improvvisa liberalizzazione delle licenze e dei permessi per la creazione di nuove imprese a proprietà palestinese ed è stata autorizzata la nascita della prima banca privata palestinese nei territori, dal 1967, che per le sue transazioni userà le monete israeliana e giordana -una prefigurazione del futuro status?).

Dall'altro, -due politiche per due differenti schieramenti di classe in un "popolo" sempre più divaricato dalla lotta di liberazione- il rafforzamento dei controlli e dei ricatti sui proletari arabi che lavorano in Israele e l'intensificazione dello stato d'assedio contro le dimostrazioni di piazza e l'"estremismo islamico".

La borghesia sionista vuole (deve) stroncare a tutti i costi la resistenza di massa affinché anche le minimissime "concessioni" che avesse a fare non sembrino strappate dalla lotta rivoluzionaria dei palestinesi. Ne andrebbe del dogma, intangibile tanto per la destra quanto per la sinistra (in Israele ed ormai anche in Europa): Israele e l'Occidente possono soltanto vincere e dominare; gli sfruttati ed i popoli arabi soltanto perdere ed essere dominati.

Ma la reazione di sdegno e di collera degli sfruttati di Palestina e di tutto il Medio Oriente alla deportazione dei 415 militanti islamici è stata talmente compatta da imporre al fronte imperialista e a Rabin una mezza marcia indietro, da "consigliare" una presa di posizione polemica a molti governi arabi e da sospingere la spompata OLP di Arafat-Husseini ad alzare -una tantum- la voce e cercar di ricucire l'unità nella lotta con le organizzazioni islamiche. Gli stessi massimi beneficiari della situazione. i capi di Hamas. ne devono essere preoccupati, e sono stati molto attenti a non gettare altra benzina sul fuoco, appellandosi perfino ad una I. autorità" dal prestigio così largamente compromesso nel mondo islamico quale l'ONU.

Gli Usa colpiscono ancora l'Iraq

Che questo stato d'animo di crescente sfiducia e di vero e proprio odio del proletariato e dei lavoratori poveri dell'Islam verso le potenze imperialiste sia diventato un fattore politico di prima grandezza. lo si è visto con l'ultima aggressione all'Iraq.

Per una 'scomoda coincidenza proprio mentre Israele si faceva beffe della platonica risoluzione ONU sulle espulsioni, Bush e C., in nome di altre risoluzioni ONU immediatamente esecutive (addirittura retroattive!). bombardavano a freddo l'Iraq, da nord a sud, passando per il centro di Baghdad.

Difficile immaginare una delegittimazione più efficace del diritto internazionale e delle istituzioni internazionali, dei cui sacri principi di eguaglianza tra le nazioni e rispetto dei diritti umani s'ammantano le belve imperialiste. "Due pesi e due misure", s'è detto all'unisono nel mondo arabo-islamico, tornando a manifestare contro la "civiltà selvaggia" (così un bellissimo striscione di Baghdad) dell'imperialismo e del neocolonialismo.

Con pretesti spudorati s'è messo di nuovo sotto tiro un'Iraq affamato , smembrato, segregato e disarmato per ribadire, urbi et orbi, quale sorte aspetti i ribelli al "nuovo ordine mondiale". E l'"assurdo" è che la denunzia dell'Iraq abbia suscitato qui maggiore apprensione adesso che nel '91. Ha scritto inquieto il "Corriere della sera" del 18. 1: "La sfida di Saddam all'Occidente è ben più pericolosa di quella di due anni fa perchè oggi al rais mancano le anni, ma non manca più il consenso" (non le armi in mano a Saddam terrorizzano la borghesia, ma... ). Ed il "Financial Times" ha perfino preconizzato che, "senza una strategia politica coerente all'altezza della loro potenza militare", per Usa e soci una "escalation militare senza fine" potrebbe essere "foriera di una clamorosa débacle in politica estera".

Il fatto è che in una situazione di grave crisi strutturale del capitalismo mondiale. per l'imperialismo non c'è che una sola strategia politica coerente (coerente con la stabilizzazione del sistema capitalistico a partire dal suo centro) in Medio Oriente e nel Terzo Mondo, e prevede il feroce sfruttamento, la schiavizzazione delle masse lavoratrici dei paesi dominati ed il saccheggio delle loro ricchezze. Perché senza il petrolio e le altre materie prime a costo zero, senza il lavoro a costo zero dei minatori, degli operai, dei portuali, del semiproletariato agricolo del Sud del mondo, esploderebbe a Nord una crisi sociale devastante.

Una corsa contro il tempo

Ora, questa politica del tallone di ferro dispone sì di consolidate complicità nelle classi proprietarie arabo-islamiche, e terzomondiali in genere, ma non lascia alla sterminata schiera degli sfruttati di colore altra alternativa all'asservimento che unirsi e combattere contro il capitalismo imperialista (e talvolta anche le stesse borghesie "nazionali'' devono tenerne conto). Di qui l'incessante accumularsi nelle regioni più povere del pianeta di sostanze infiammabili e la ricerca. da parte delle masse islamiche in lotta, di 'bandiere" che appaiano in grado di organizzare e guidare la grande battaglia epocale contro quello che sempre più viene percepito come il nemico di classe.

Di qui, a spirale, il crescente, obbligato ricorso alla potenza militare ed alla violenza bruta da parte degli Usa, dell'imperialismo tutto, di Israele e della quasi totalità dei regimi borghesi terzomondiali. Se gli spazi per gli aggiustamenti riformistici si stanno drasticamente contraendo perfino nella metropoli imperialista, se essi sono in pratica inesistenti nell'Est, quale base materiale può mai esserci per un compromesso sociale tra capitale e sfruttati nel mondo arabo-islamico?

La vittoria sull'Iraq non fu certo risolutiva, ed il seguito del dramma medio-orientale ha messo in chiaro come la bestiale aggressione capitalista-imperialista fosse l'altra faccia della crescente difficoltà del capitalismo a padroneggiare le contraddizioni del proprio sistema.

Quella che ha portato lo stato di Israele all'espulsione degli esponenti di Hamas e gli Usa a bombardare di nuovo l'Iraq (o le "nostre" brave truppe "umanitarie" a scaldare l'artiglieria in Somalia contro i ribelli) non è perciò, come biascica il Pds, una politica miope. E' bensì la sola che rimanga alle potenze imperialiste ad uno svolto storico in cui il mondo islamico è chiamato a pagare un prezzo terribile per il naufragio del ciclo di sviluppo post-bellico.

Questi stati sono impegnati in una corsa contro il tempo, per spegnere i fuochi che bruciano in Palestina, in Libano ed in Iraq prima che si riaccendano quelli in Algeria, in Iran, in Egitto, ... in Occidente!

Qui, sempre, il punto decisivo: Baghdad, Gaza, Algeri. Teheran chiamano il proletariato di Berlino, Parigi. Milano. In attesa che il Grande Interpellato risponda con una "strategia politica coerente" all'altezza dei suoi compiti storici e con tutta la potenza dei mezzi a sua disposizione. dalla nostra piccola stazione radio di fortuna continuiamo a lanciare il seguente messaggio:

AL FIANCO DELLE MASSE OPPRESSE DEL MONDO ISLAMICO!
INTIFADAH IN TUTTO IL MEDIO ORIENTE!
UNITA' TRA GLI SFRUTTATI ISLAMICI ED IL PROLETARIATO DELLE METROPOLI!
LOTTA DI CLASSE INTERNAZIONALE ED INTERNAZIONALISTA CONTRO IL CAPITALISMO, PER IL SOCIALISMO MONDIALE!