Dopo il referendum del 18 aprile

Ragioniamo sulla situazione politica
da un punto di vista di classe

Indice


brindare né piangere

E' cambiato qualcosa col successo plebiscitario del "sì" al referendum per le riforme istituzionali o tutto è rimasto semplicemente come prima? E se, com'è evidente a tutti, salvo un pugno di immarcescibili "indifferentisti", vale la prima ipotesi, in che senso va questo cambiamento e quali ne saranno le ricadute successive?

Dovremmo brindare assieme ad Occhetto (ed i suoi poco commendevoli compagni di strada sulla via delle "riforme": praticamente tutto l'"arco costituzionale" borghese) o piuttosto cospargerci di lagrime in compagnia dei vari Libertini (tenendoci distanti, per l'amor di dio!, dagli altri figuri della cordata del "no", da Fini ad Orlando e Rutelli)?

Chi ci segue conosce perfettamente la nostra risposta: c'è davvero assai poco di che stare allegri della "grande prova di maturità democratica" consegnataci dal referendum e delle prospettive future che esso apre. Il voto ha semplicemente sancito un dato di fatto, e cioè l'emergere di un "blocco d'ordine", sociale e politico, che avanza a passo di carica. Nel movimento operaio ufficiale una parte (PDS, CGIL) ha chiamato al "sì" referendario, confortata da un consenso proletario di massa (parte indotto, parte spontaneo) dando ad intendere -o credendoci, il che è ancor peggio- che la questione delle "nuove regole" sia indipendente da tale soggetto: "Di per sé", si osa affermare, le nuove regole che si andranno a varare sono neutre, ovvero sono aperte tanto ad una soluzione "conservatrice" quanto ad una "progressista". Si vedrà poi, ma intanto bisogna stabilirle "nell'interesse di tutti" perché tanto impone la ("neutra"!) esigenza di "riformare lo Stato". Un'altra parte, il PRC, ha correttamente indicato il soggetto cui tornerà utile la "riforma", ma per poi contrapporre al blocco sociale e politico "reazionario" un... blocco elettorale sbracatamente aperto alle più disparate alleanze elettoralesche, d'"opinione", chiamando ad esprimere un "no" fatto di pura protesta nostalgica del "buon passato" democratico, costituzionalnatodallaresistenza.

Chi ci segue è ben avvertito che noi non abbiamo alcunché da spartire coi nostalgici di un vecchio sistema di contrattazione politica di cui l'esito elettorale non ha fatto che registrare l' indecorosa morte. Indietro non si torna, e per fortuna nostra, per fortuna del proletariato! Con le "nuove regole" che il post-referendum ci prospetta (non solo e tutt'altro che sul mero terreno elettorale) il livello dello scontro di classe si sposta decisamente più in alto o, piuttosto, viene restituito al suo terreno naturale dal quale ci si era illusi di strapparlo nei decenni di "pacifico" e "progressivo" ciclo di sviluppo "consociativo" che ci sta ora definitivamente alle spalle.

La vera questione

Le lamentazioni funebri di certa sinistra malissimo fondata e peggio ancora "rifondata" non ci commuovono né tanto meno c'invogliano ad entrare a far parte del coro: l'attuale "svolta anticostituzionale" per noi altro non è, in realtà, che la normale e doverosa conclusione da parte borghese di un tragitto nutritosi proprio, nel ciclo precedente, della "democrazia progressiva" togliattiana e delle sue successive riedizioni -corrotte e peggiorate- giù giù sino agli ultimi fuochi berlingueriani "di lotta e di governo". A questa conclusione i fautori in extremis di una "rifondazione comunista" hanno concorso coerentemente a portar disarmato il proletariato, il quale non solo non ha potuto far argine contro l'attuale marea reazionaria schierandosi dietro la bandiera di questo "no", ma non è stato neppure da esse messo in grado di cogliere la sostanza della posta in gioco.

La nostra opposizione al "fronte del sì", e precipuamente all'infezione di essa all'interno della compagine di classe, non ha perciò imboccato la via della "mobilitazione elettorale". La questione vera non riguardava e non poteva essere risolta sulla base di una "giusta scelta elettorale". La questione vera sta tutta al di fuori del gioco elettorale (che, in quanto utile, lo era solo per sancire tanto la vittoria, scontata ed... obbligatoria, del "sì" quanto per inchiodare una volta di più quelli del "no" al rispetto delle sue regole). La questione vera, che già comincia a chiarirsi all'immediato, ma tanto più apparirà chiara in futuro anche ai ciechi, veri o di comodo, riguarda i rapporti di forza tra le classi che si dovranno decidere nello scontro diretto tra borghesia e proletariato nella stretta tra una corsa sempre più spasmodica del capitale alla concentrazione e centralizzazione dei propri poteri (ivi ben compresi, com'è logico, i poteri politici nelle forme corrispondenti alla nuova bisogna) e la contrapposta concentrazione e centralizzazione delle proprie energie antagoniste da parte del proletariato. La prospettiva e la conclusione di questo scontro non può essere che una: o dittatura della borghesia o dittatura del proletariato. Tertium non datur, si dice in latino. Correttamente tradotto: chi sogna e propaganda altre strade è un merlo, o un traditore.
Perciò, ognuno al suo posto.

Crisi convulsive

Ritorniamo brevemente sul tema delle "riforme istituzionali".
Da tempo, potremmo anche dire: da sempre, andiamo ribadendo che il capitalismo -e non il capitalismo "italiano" per chissà quali sue "anomalie" o "particolarità specifiche", ma il capitalismo mondiale, il capitalismo in quanto sistema- è entrato in un nuovo periodo di crisi convulsive che segnano la fine del ciclo di espansione precedente (propiziato dalle immani distruzioni belliche della seconda guerra mondiale e dalla libera, "pacifica", rapina attuata dalle metropoli alle spese di tre quarti e più del mondo. Stretto nella morsa delle proprie insanabili contraddizioni, il sistema capitalista vede oggi queste contraddizioni, precedentemente scaricate sulle aree extrametropolitane, approssimarsi al proprio "cuore". Lo sviluppo delle forze produttive (il cui carattere sempre più si fa sociale) è andato avanti impetuoso come non mai nei decenni successivi alla ricostruzione post-bellica. Troppo sviluppo per essere contenuto all'interno di un sistema che alla crescente socializzazione dei processi produttivi risponde con l'appropriazione privata dei mezzi di produzione e del risultato di essi. Copiamo da Marx: "La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Questo si spezza. L'ultima ora della proprietà capitalistica è suonata. Gli espropriatori vengono espropriati."

Conti che non tornano

Stiamo pure sul semplice.
Qualsiasi operaio, anche se totalmente ignaro di marxismo, farà da sé queste semplicissime considerazioni: la produttività del mio lavoro è in costante aumento, quindi produco di più ed a costi sempre minori, ma nonostante ciò il mio salario reale diminuisce, il mio orario di lavoro... manco per il cavolo. C'è qualcosa che non quadra: mentre si potrebbe produrre volumi crescenti di beni a costi sociali via via inferiori , magari ridistribuendo il lavoro socialmente necessario tra tutti, ecco che la produzione si blocca, l'occupazione diminuisce e si vede tra l'altro aumentati i carichi produttivi perché, dice il padrone e mi ripetono sindacalisti e politici di mia fiducia, i costi risultano troppo elevati rispetto ai ricavi, perché c'è bassa competitività. Dove sta l'inghippo? Proprio nella contraddizione di cui sopra. E appunto per questo il semplice operaio, che contro di essa quotidianamente sbatte la testa e... le tasche e che contro le conseguenze immediate di essa è comunque costretto a lottare, ha bisogno come il pane di un orientamento teorico-programmatico e politico e di un'organizzazione marxisti mentre tutti, ma proprio tutti, nella "sinistra che conta" e persino in quella che conticchia fanno a gara per spiegargli che non si tratta di mettere in causa il sistema capitalista, ma al massimo determinate sue forme di amministrazione. (Massimo dell'audacia il bla-bla-bla su una "regolamentazione sociale" del capitalismo stesso; come dire mettere un leone a dieta vegetariana...)

Di qui occorre partire per capire qualcosa della questione delle "riforme istituzionali" oggi all'ordine del giorno. Ogni questione politica va infatti rapportata alla sua base economico-sociale, cui è chiamata a rispondere, e se un cambiamento politico s'impone ciò significa che tra "sistema politico" e la sua base di riferimento, di cui è funzione, è venuta a crearsi una discrepanza, vuoi perché il primo è degenerato rispetto alla sua originaria collocazione vuoi perché sono intervenuti nella seconda dei mutamenti tali da richiedere nuovi strumenti d'amministrazione politica.

Dopoguerra borghese

Di che si tratta, nel caso italiano?
Nel secondo dopoguerra la forma politica adatta al dominio borghese si è rivelata quella della più ampia democrazia parlamentare sulla base del più rigoroso sistema proporzionale col corollario di una forte rappresentanza sindacale priva di limitazioni (formali) di sorta. Ciò si deve al concorrere di più fattori: in primo luogo, le risorse di un rilanciato sviluppo capitalistico proteso verso sempre nuovi "boom", con la possibilità conseguente di elargire delle briciole consistenti anche al proletariato nazionale (ivi comprese le briciole politiche di una propria rappresentanza istituzionale all'interno del sistema sino alla partecipazione per una certa fase al governo nazionale ed a quella diretta ad un bel pò di non irrilevanti realtà amministrative locali); in secondo luogo, la combinazione tra una forte tradizione di lotta da parte del proletariato italiano, "rappresentata" comunque dai partiti e sindacati "operai", ed il suo limite riformista, mai disposto ad uscire dai confini della "forza di lotta e di governo" per andare ad aggredire le basi stesse del potere borghese.

Non che questo sistema politico fosse l'ideale per le forze borghesi. Esso è stato semplicemente il meglio che si potesse proporre date le condizioni summenzionate. Di fatto, dopo aver dovuto accettare per breve tempo la partecipazione di PCI-PSI al governo centrale, ed essersene ben servita ai propri fini di ristabilizzazione capitalistica profittando della buona disponibilità controrivoluzionaria di essi, la borghesia italiana era ripartita alla grande nell'attacco alle postazioni, pur riformistissime, del proletariato organizzato: repressione diretta delle lotte operaie e bracciantili mettendo in campo le neo-efficientissime forze dell'ordine del cristianissimo ed antifascistissimo Scelba, opera di divisione sindacale via CISL e UIL, estromissione dal governo dei partiti di sinistra e tentativo, infine, di ridisegnare la configurazione parlamentare attraverso la cosiddetta "legge truffa" (allora battuta dal voto e dalla piazza proletari).

Da Togliatti a Berlinguer

Gli ulteriori exploit economici ebbero per effetto di ridurre da un lato l'aggressività padronale, dall'altro di spingere ulteriormente le forze della sinistra nazionale ad accomodarsi sul soffice materasso offertogli dallo sviluppo "indefinito" del proprio capitale per annacquare via via i residui spunti di conflittualità classista tinteggiata di vaghe aspirazioni "socialiste". L'incontro tra "democrazia progressiva" togliattiana e "capitalismo popolare" democrista non poteva compiersi sotto migliori auspici. Con l'avvio del centro-sinistra si faceva addirittura entrare "una parte" del movimento politico operaio nella "stanza dei bottoni". Discriminandone un'altra? Lavorando ad isolarla? Sta di fatto che tutto il senso dell'azione del PCI di allora si compendiava nella richiesta che si allargasse anche ad esso l'ingresso in quella tal stanza per "completare" l'opera di riconoscimento del proletariato quale "classe di governo": "Il partito comunista ha dichiarato che esso non è contrario a un avvicinamento tra DC e PSI se tale incontro può rappresentare l'inizio di abbattimento delle barriere che sono state elevate in questi anni" (Togliatti al X° Congresso del PCI, 1962).

Con l'"era Berlinguer" ci si avvicinò all'obiettivo. Ma, ahinoi!, l'ingresso del PCI nell'area di governo avveniva quando non si trattava più di redistribuire "equamente" i profitti, ma di stringere la cinghia (cioè: di farla stringere al proletariato). "Sacrifici giusti e per tutti"; questa la summa berlingueriana, alla quale, disgraziatamente, la massa del proletariato -appesantita dai benefici ottenuti in precedenza, e considerati come stabili ed intangibili- attribuiva tuttora un valore "progressista": col nostro partito al governo, anche i padroni dovranno pagare, le risorse disponibili per l'apparato produttivo aumenteranno e, smaltiti i provvisori sacrifici, ci sarà di nuovo di che riempirci la bocca.

Comincia la normalizzazione

Tragica illusione, grazie alla quale passarono intanto le prime devastanti misure di "normalizzazione" (economica e politica) del proletariato.

E' certo che Berlinguer non disegnava di svendere puramente e semplicemente la classe operaia; semplicemente, da buon riformista, faceva il calcolo diligente di quanto essa dovesse pagare all'immediato quale investimento per il futuro. Sempre da buon riformista, semplicemente dimenticava che, fin tanto che si è costretti a stare entro questo sistema, l'unico investimento produttivo per i proletari è la lotta. (Fin qui ci arrivavano anche i vecchi -e veri, in certo qual senso- riformisti).

Il fatto è che mentre il PCI perseguiva questa linea (suicida anche per esso, alla distanza), la borghesia italiana affrontava con ben altro realismo e determinazione le questioni sul tappeto: alla crisi incalzante va risposto con un duro ridimensionamento del peso della classe operaia; l'ingresso a metà del PCI nell'area di governo (tra tentennamenti e manovre da parte di certi settori per evitare financo questo "pericolo") poteva servire a far inghiottire al proletariato i primi grossi rospi, ma soprattutto a scompaginarne ed indebolirne le fila in vista dei necessari e decisivi attacchi ulteriori, da condurre senza più bisogno della "mediazione" e della "forza di ricatto" del movimento operaio organizzato (pur dentro il quadro riformista). Ed è ovvio che non poteva trattarsi allora soltanto del ridimensionamento delle organizzazioni "operaie", ma di una completa ristrutturazione del proprio apparato politico complessivo, sviluppatosi sul terreno del "consociativismo" e dei "compromessi" più o meno storici.

Preparano la guerra alla classe operaia

Agli inizi del presente decennio questo imperativo di modernizzazione dello Stato si è fatto straripante. Nel pieno della crisi, la caduta dei muri interni (con l'abiura oramai anche verbale del socialismo da parte del riformismo nazionale, ormai legatosi mani e piedi alle sorti del "proprio" capitale) e di quelli esterni (che non erano di classe, e tuttavia pesavano sull'evoluzione dei rapporti di forza tra le classi anche all'interno) ha accelerato enormemente la nella borghesia la coscienza che, vinta senza colpo ferire, al momento, la battaglia con il nemico di classe, occorreva attrezzarsi per la vera guerra di classe a venire, soppiantando un "sistema di partiti" fatto di mille fazioni corporative paralizzantisi a vicenda con nuovi strumenti di direzione politica corrispondenti in pieno alle nuove, impellenti necessità di centralizzazione dei poteri al servizio totalitario dello Stato, e cioè del capitale.

Improvvisamente si scopriva che questo "sistema dei partiti" costava troppo, non era né affidabile né forte a sufficienza, che dissipava incoscientemente le risorse di cui "il Paese" aveva bisogno in elargizioni improduttive a destra e a manca, che di per sé stesso rappresentava un costo insostenibile. Si scopriva, improvvisamente, che, soprattutto, esso era condito d'"immoralità". (Richiamiamo l'attenzione su un fatterello indicativo: non c'è praticamente paese capitalista metropolitano in cui non si ponga la questione di una "riforma dello Stato" in senso efficientista ed in cui non si faccia ricorso a tal fine alla "questione morale" -vedi Francia e Spagna in particolare-. Sospetta sincronia...)

Morale, questione di stato

Poco vale ricordare, come ha tentato di fare Craxi, che la spesa investita in quest'arsenale politico è andata a tutto profitto del grande capitale, che essa è servita a finanziare, prima e assai più che gli appetiti (robusti, per altro) dei singoli apparati e personaggi, gli interessi del grande capitale e che senza le "costose" mediazioni da esso operate sul terreno economico-sociale non sarebbe stata assicurata la pace sociale di cui esso gran capitale ha potuto sin qui godere. I partiti costano, è vero, ma essi hanno offerto un servizio insostituibile, ed i servizi, specie in quest'età di "terziario avanzato", vanno adeguatamente pagati. Di che ci si lamenta? Non spendeva forse la FIAT fior di quattrini, anche senza passare attraverso "il sistema dei partiti", allorché negli anni '50 si creava un sindacato-crumiro d'azienda anti-CGIL e i vari gruppi alla "Pace e Libertà" anti-PCI? E allora?

In un "vecchio" testo del '53, venendo in soccorso preventivo all'autodifesa del buon servitore di Sua Maestà il Capitale Craxi (e di tutte le altre consimili bande), Bordiga ironizzava con l'"ipotesi che l'apparato del potere di classe -altro in lingua marxista la burocrazia non è, lo Stato non è- tenga il potere non per la difesa di uno dei modi di produzione di classe ma lo tenga per sé, per il comodo suo, per cavarne i soldi per il cinema o per il bordello" (si fa per dire, naturalmente...) e prevedeva infallibilmente dove questo discorso avrebbe portato: "E ogni filisteo saprà dirvi: contro questo la sola ricetta è una ricetta morale, che governati e governanti siano onesti, è una ricetta liberale (il controllo, ohibò!...) per cui l'eletto a dirigere sia il servitore degli elettori come ad esempio nella vecchia Inghilterra, nella giovane America!" (La Batracomiomachia)

Furti premiati, furti puniti

Lo "scandalo" di Tangentopoli è ben servito alla bisogna. "Giudici onesti" hanno improvvisamente (quando ve n'è la necessità, i soggetti adatti improvvisamente si trovano) scoperto che "il sistema dei partiti", dopo aver accuratamente rapinato i proletari (vedi questione della scala mobile: ma questa non costituisce un capo d'accusa, anzi...), rapinava... gli industriali, impoverendo così il tessuto produttivo "nazionale, di tutti", e ciò esclusivamente per i propri bordelli (bancari e in senso proprio).

Un partito comunista effettivo avrebbe potuto ben cogliere ed indirizzare la giusta rabbia dei proletari nei confronti di questi Robin Hood alla rovescia. Avrebbe detto ai lavoratori quello che noi, con le poche forze a nostra disposizione, diciamo: licenziare questa "classe politica" è interesse nostro, ma farlo si può soltanto licenziando la classe borghese di cui essa è stata la "naturale" servitrice; ogni "campagna moralizzatrice" di parte borghese ad altro non mira che a precostituirsi una nuova, più efficiente, più spietatamente (quanto più "onesta") rapinatrice "classe politica".

E, invece, si è chiamato ad applaudire e sostenere l'azione giudiziaria quale unica o primaria garanzia della pulizia delle stalle e premessa delle "riforme democratiche" a venire. Torniamo a ripeterlo, a scanso di equivoci: noi non c'immaginiamo affatto che l'azione dei vari Di Pietro sia il frutto di una qualche losca manovra concentrata per aprire la strada ad un nuovo ordine autoritario e non nutriamo dubbi di sorta (non ci poniamo affatto questa questione) sull'onestà ed il coraggio dei giudici di "mani pulite". Diciamo semplicemente, ma non è poco, che, in assenza di un'autonoma iniziativa proletaria, l'iniziativa giudiziaria in corso, qui ed ora, viene ad essere direttamente funzionale alla ristrutturazione democratico-totalitaria dello stato.

Cadono i burattini, restano i burattinai

Non a torto, su questo punto, Craxi, spalleggiato col solito acume dall'ex-sessantottino stipendiato Liguori, ha protestato che l'inchiesta giudiziaria viene usata per ridurre gli spazi democratici garantiti "comunque" dal "sistema dei partiti" e che l'espunzione di quest'ultimo non può andare che a favore di un sistema politico meno "democratico" e più direttamente subordinato agli interessi delle grandi concentrazioni borghesi, con l'eliminazione degli spazi di mediazione sociale precedentemente garantiti. Il ragionamento non fa di per sé una grinza. Peccato che a sostenerlo siano proprio quelli che più di tutti hanno contribuito a garantire gli interessi del grande capitale limitandosi a lucrare in proprio sugli "spazi di mediazione" al costante ribasso tra essi e gli interessi delle classi sfruttate. Essi, pertanto, meritano di essere tanto licenziati dai propri padroni quanto schifati dai lavoratori. Ma è penoso che chi dichiara di riferirsi al proletariato rinunzi poi a mettere in campo un'azione autonoma ed antagonista di classe che miri a licenziare in proprio burattini e burattinai, accodandosi così all'uso che di Tangentopoli possono fare i ladri veri, i padroni del vapore. Come si può leggere su "Liberazione" l'apologia di "mani pulite" quale "rivoluzionaria" e l'appello ai lavoratori a mettersi al servizio di quell'inchiesta senza provare un senso di nausea?)

Contro che le riforme?

La nostra tesi è dunque chiara: transitando attraverso le inchieste giudiziarie (che, guarda caso, si stanno apprestando a convertire una FIAT da corresponsabile a vittima del "sistema della corruzione" che l'avrebbe in fin dei conti penalizzata!), la borghesia italiana sta accelerando i processi di ristrutturazione del proprio sistema politico per renderlo più efficiente, più concentrato, più centralizzato, e cioè meno "democratico", meno impacciato dagli oneri di costose mediazioni non rispetto al "sistema dei partiti", ma al proletariato.

Le ventilate "riforme istituzionali" vanno precisamente nel senso di indebolire dall'interno e dall'esterno la stessa compagine riformista, di cui va drasticamente limitata la capacità di "rappresentare" in qualche modo le esigenze conflittuali del proletariato.

Dall'interno, lavorando a trasformare PDS e CGIL in responsabili appendici dello stato; dall'esterno, interdicendo ad essi gli spazi istituzionali di "ricatto" di cui essi hanno potuto sin qui godere.

Se questo è vero, com'è vero, c'è da chiedersi come mai il PDS, anziché opporvisi, stia addirittura proponendosi come il corifeo principale di questa "riforma".
Errore prospettico?

Il "realismo" di Occhetto

Sarebbe una spiegazione estremamente semplicistica. In realtà, il PDS, da perfetto partito "riformista" dell'epoca imperialista, ha colto realisticamente la nuova situazione venutasi a creare. Il ragionamento social-imperialista è chiaro e coerente dal proprio punto di vista: se gli interessi della classe operaia possono essere tutelati solo all'interno del presente sistema, non ci può sottrarre agli imperativi oggettivi che ad esso si pongono, che sono, "tanto per il proletariato che per il capitale", quelli di una maggior concentrazione e centralizzazione, di una maggior efficienza competitiva, di una maggior capacità aggressiva sul terreno del mercato internazionale.

A questa stregua, l'unica possibile traduzione in termini attuali della "democrazia progressiva" togliattiana consiste nella prefigurazione di un "blocco progressista" interclassista capace di promuovere gli interessi complessivi del capitale nazionale più e non meno di quello conservatore per poter poi procedere ad una politica "equa" di "redistribuzione sociale" degli utili conseguiti. Unica alternativa: una prospettiva di rovesciamento rivoluzionario dell'attuale sistema, questione che, ovviamente, non è all'ordine del giorno non solo di alcun Occhetto, ma neppure di alcun Ingrao, Bertinotti o Garavini, i quali, poverini, si limitano al massimo a ritrarsi dai doveri capitalistici che la situazione impone al riformismo per ritrarsi ancor di più da quelli proletari, di classe. (Si veda, in proposito, in altra parte del giornale, l'esame delle posizioni pateticamente retro del PRC)

Siamo, per l'appunto, alla ricetta liberale già dal marxismo antivista nel '53, e prima, dell'"onesto" (ah, Berlinguer, come hai ben aperto questa strada!) "blocco progressista di governo", tutto ancora da costruire (ma i muratori sono ben all'opera!) soffocando ulteriormente le istanze di classe nell'abbraccio mortifero con le classi medie, i ceti produttivi, i commercianti "che non evadono il fisco", gli artigiani etc. etc., tutti insieme al diligente, ma "progressista" per l'appunto, servizio del grande capitale, di cui va inibita solo la deregulation "selvaggia", tutti insieme al servizio di uno Stato forte capace, per questa via, di amministrare "equamente" gli interessi "di tutti".

Quanto valga questa prospettiva nell'attuale fase di crisi profonda del capitale stanno a dimostrarlo gli esempi cui proprio essa vorrebbe riferirsi.

Esempi parlanti

Il laburismo inglese, dopo aver sabotato la splendida dimostrazione di combattività dei minatori per "non compromettere l'economia nazionale" e non turbare la massa piccolo e medio borghese chiamata a far da supporto elettorale al partito, versa nelle più gravi difficoltà: la battuta d'arresto imposta al proletariato non ha attirato al partito la simpatia dei collitorti, ma li ha vieppiù ringalluzziti nella loro inarrestabile tendenza a coagularsi a destra per fare "definitivamente" i conti col proletariato, non di sbieco, ma frontalmente. In Francia, il mitterandismo è giunto al capolinea, licenziato dalle forze di destra, dopo che queste, attraverso di esso, avevano realizzato un decisivo indebolimento del fronte di classe (buon complice il "vetero" Marchais, oggi ripescato quale compagno di strada dal PRC). In Spagna accade lo stesso, con una borghesia "voltagabbana" (come si legge sul "Mondo") cui non sono bastati i benefici riscossi a piene mani da Gonzales nel momento in cui si appresta ad aggredire direttamente il movimento sindacale e sente che a tale scopo non può più utilmente servirsi del vecchio blocco costituitosi attorno al PSOE. Non parliamo poi degli USA, e lasciamo stare che in proposito le anime candide del "Manifesto" abbiano sponsorizzato Clinton quale "alternativa di progresso" (mentre, magari, fanno gli schizzinosi con Ciampi).

Ma il caso più istruttivo è oggi proprio quello tedesco: a misura che qui la SPD ha potuto nel passato costruire le sue fortune riformiste sulla massiccia adesione operaia e su un solido rapporto con un possente sindacato, essa si trova attualmente sempre più drammaticamente stretta tra la necessità di rispondere positivamente in qualche modo a questa sua base d'acciaio che si sta rimettendo in moto e le istanze "normalizzatrici" che il capitale reclama, con la conseguenza che il blocco elettorale e sociale interclassista della SPD sta andando letteralmente in frantumi.

Addio polo progressista!

Nella crisi non c'è "polo progressista" che tenga. Le forze di classe tornano irresistibilmente a polarizzarsi. Se il grande capitale ha bisogno di disciplina politica ne ha bisogno per rilanciare l'accumulazione a spese dei settori non capitalisticamente redditizi: proletariato in primo luogo, ma anche, finalmente, le mille corporazioni e conventicole che sin qui hanno goduto di una non più sostenibile "redistribuzione". Ciò significa mettere un freno a gli strati parassitari della società (ne sono un preannunzio le misure "anti-commercianti" o, per altro verso, i colpi improvvisamente portati a mafia e camorra fino all'altr'ieri intrecciata con lo Stato). Ora, in assenza di una presenza determinante del proletariato quale forza rivoluzionaria di classe, la rabbia dei ceti medi colpiti dalla crisi andrà ad indirizzarsi proprio principalmente contro le forze di "sinistra" colpevoli, a loro sentire, di farsi troppo interpreti del proletariato, e cioè della inesauribile fonte di spremitura alla quale essi sognano di attingere. Due piccioni con una fava per il capitale!

Tutto questo mina in anticipo la possibilità di un successo duraturo del "blocco di sinistra", fondato su un connubio impossibile, e nel contempo rende ancor più attuale il problema della ricomposizione antagonista di classe, della ricostituzione del partito di classe e di un sindacato ad esso organicamente legato nella lotta rivoluzionaria

Inevitabili bilanci

Le vicende future non saranno, così, solo quelle della vana corsa riformista a mettere insieme l'impossibile puzzle del "blocco progressista" o, nelle sue ali più "estreme", di un'"opposizione" parlamentaristica a governi "reazionari" la cui forza effettiva sta tutta in rapporti di forza extraparlamentari; saranno anche quelle di una prima decantazione politica ed organizzativa tra le fila del proletariato. Perché un proletariato, come quello italiano, che in questi ultimi mesi ha dimostrato quanto le sue capacità di organizzazione e di lotta rimangano intatte non potrà fare a meno di tirare dei rigorosi bilanci politici quanto alla via senza sbocco in cui lo sta conducendo il riformismo, non potrà rinunziare alle proprie rivendicazioni sacrosante e di conseguenza sarà costretto a misurare concretamente la distanza che separa queste sue esigenze da quelle che verranno a coagularsi attorno al "blocco progressista".

Nessun automatismo meccanicistico, certo. La sbornia è destinata a continuare per un certo tempo, soprattutto dal momento che PDS e PRC sono stati effettivamente gli artefici primi della mobilitazione operaia d'autunno e su ciò hanno costruito la "legittimazione" della propria complessiva politica. Come potrebbe, infatti, il militante operaio del PDS non credere -ipso facto- allo sbandierato "blocco progressista" che Occhetto gli promette dal momento che questi è stato al suo fianco nella lotta salariale? Certamente, egli pensa, il PDS getterà sul piatto delle future costituenti di sinistra la forza di cui abbiamo e siamo sempre pronti a dar prova. E se Occhetto agita la "questione morale", non è questo proprio un attacco contro "i partiti del padrone" (a cominciare da quel PSI che ci ha tagliato la scala mobile)? E così, come potrebbe il militante operaio del PRC dubitare che i suoi capi possano ridurre il potenziale di lotta da essi stessi impulsato ad un semplice grimaldello per operazioni di informe ed infausta aggregazione elettoralesca e parlamentaristica (con arnesi, intanto, del tipo Orlando e Rutelli; ma si spera sempre che vi si aggiungano gli Ingrao e i Bertinotti, "il Manifesto" e... "Cuore" se non un'altra buona fetta di riconvertito PDS)? Anche per questo tipo di militante il "blocco progressista" resta provvisoriamente d'obbligo, purché legato e condizionato ai bisogni operai.

Si tratta di illusioni dure a morire. La ragione materiale di esse sta in tutto il corso precedente della lotta di classe. In un arco di decenni si sono combinati miglioramenti effettivi nella condizione operaia (si vedrà presto quanto stabili!) parallelamente all'abbandono progressivo di ogni pur platonica prospettiva comunista. "Il riformismo ha dunque pagato" e non si vede ancora la ragione di ritirargli la fiducia. Ma è altrettanto certo che gli scontri che vanno maturando all'interno della società s'incaricheranno di mettere a nudo l'impossibilità di affrontare un capitalismo in crisi che riparte deciso all'attacco frontale del proletariato con i ramoscelli d'ulivo con cui lo si è affrontato quand'esso era affluente.

Difficoltà del nemico di classe

In attesa della prova della verità, constatiamo che la borghesia italiana sta dosando sapientemente l'attacco.

Se l'obiettivo finale è quello di metter fuori causa il movimento operaio organizzato, anche nelle sue più slavate versioni riformiste, e Pannella non fa che esplicitarne i disegni quando parla della necessità di "distruggere i sindacati", si vede bene come non è proprio il caso di passare subito alle vie di fatto, sia perché il movimento di classe è ben lungi dall'esser stato preventivamente scompaginato, sia perché è tuttora lontana da una adeguata soluzione la questione della direzione politica del fronte antiproletario che si va costituendo: siamo ancora alla fase preliminare dello "sperimentalismo" e l'orizzonte si presenta tuttora torbido. Bossi, Cossiga, Segni, Pannella..., tutti vanno benissimo per transitare oltre, ma è certo che nessuno di questi personaggi può dire di poter già oggi incarnare il ruolo del comandante in capo dell'impresa, e non è detto, anzi, che le cose non abbiano ulteriormente a complicarsi sotto questo profilo. Neanche per la borghesia la costituzione di un blocco sociale unitario, sotto un'unitaria leadership unitariamente centralizzata è compito facile e, senza poter qui spenderci sul tema, a noi sembra di vedere che il permanere delle vecchie "tradizioni" corporative e camarillistiche su base settoriale, locale etc., poco disposte ad autolimitarsi ed autodisciplinarsi per i "superiori interessi della nazione", portano in sé germi di disgregazione di cui non si possono a tutt'oggi prefigurare gli esiti.

Questo spiega, tra le altre cose, perché col governo Ciampi si è inteso aprire al PDS per coinvolgerlo non direttamente in una politica di "lacrime e sangue" a senso unico, antiproletario, ma per un'amministrazione ammorbidita verso questo traguardo (così come presumibilmente avrebbe fatto un Amato-bis). Si tratta, prioritariamente, di riassorbire la protesta operaia allentando un pò, per quanto possibile, la stretta. Il resto dovrà venire dopo. E, parimenti, le forze politiche borghesi non mirano al momento ad isolare il PDS, ma piuttosto a corteggiarlo e coinvolgerlo nei giochi delle "riforme" (con le quali si preparano successivamente a strozzarlo). Vecchia storia, vista e rivista mille volte nel corso della storia: siamo ai "patti di pacificazione"; quelli di guerra seguiranno poi, con grande ed amara sorpresa dei riformisti...

E' questa, per altro, la dimostrazione di come il proletariato possa influire sulle questioni di governo. Se il "rigorismo" più spietatamente proletario è provvisoriamente bloccato ciò si deve anche al fatto, perfettamente extraparlamentare, che la lotta operaia, l'organizzazione operaia non demorde. Una conclusione ne va tratta: o questo dato di forza riuscirà a darsi una coerenza programmatica e politica, oppure esso sarà destinato a liquefarsi a pro' dei giochi parlamentari propiziati dalle direzioni riformiste e, in questo caso, ci sarà poco di che stare allegri in futuro.

Lotta immediata e lotta politica

Perciò noi diciamo che l'importante, in questa fase, allorché ancora non si dà la possibilità di una riorganizzazione diretta del proletariato sulle basi sue proprie (stiamo sempre bene attenti a non confondere il terreno delle avanguardie con quello delle masse), è che in nessun caso il proletariato dismetta la sua lotta e che questa, anzi, si estenda, si centralizzi. E' questa, infatti, l'unica garanzia (relativa sempre) acché cominci a prodursi tra le fila della classe un processo di decantazione politica, al quale i fattori di organizzazione e di lotta sono necessari come l'ossigeno.

Da marxisti quali pretendiamo di essere, misuriamo con esattezza la distanza che intercorre tra il movimento di lotta che si è manifestato in questi mesi e che, potenzialmente, rimane intatto in piedi e la prospettiva di un suo riaggancio al programma comunista. Questo movimento ha realizzato efficacemente la distanza che lo separa dalle esigenze "nazionali" proclamate dai padroni e si è anche dato gli strumenti idonei per realizzare al meglio la propria unità di lotta, superando le barriere formali delle dirigenze sindacali. Ma di qui ad una coscienza ed organizzazione di classe il cammino è ancora lungo. L'impegolamento nella disputa tra il sì ed il no alle riforme istituzionali, tra gli "opposti" (e concorrenti ad uno stesso esito disastroso) poli del PDS e del PRC ne è una riprova. Una plubea atmosfera riformistica e parlamentaristica tuttora lo ammorba.

Il cruciale quadro internazionale

Stretto tra l'"alternativa" di proporsi quale forza di opposizione e forza di governo, l'attuale movimento si dimostra enormemente in arretrato rispetto ai nodi centrali dello scontro in atto. In particolare, risultano ad esso estranee le cruciali questioni dell'azione internazionale del capitale nazionale. Il confronto lavoratori-padronato è tuttora vissuto quale un "affare interno", risolvibile attraverso un confronto delimitato entro questo ambito.

Questa è una grave distorsione ottica. Il capitalismo italiano, come si conviene ad ogni formazione capitalistica dell'epoca imperialista, si sta proiettando aggressivamente sullo scenario internazionale. Le recenti "puntate" in Jugoslavia, in Albania, in Somalia etc., stanno a provare che si riapre drammaticamente la corsa agli "spazi vitali" (altro che invenzione mussoliniana!) e che questa corsa, in passato condotta coi mezzi "indiretti" della penetrazione finanziaria propri del "neo-colonialismo" non-interventista, abbisogna di mezzi d'intervento anche diretti d'intervento nelle aree "storicamente di nostro interesse".

Siamo entrati (o piuttosto rientrati) in una fase in cui il "New York Times" può senza alcuna vergogna riabilitare il vecchio colonialismo e rirproporlo come ricetta estremamente valida per l'oggi; in cui una rivista come "Limes", ufficialmente varata dalla madrina-Napolitano (ed a cui collabora, o ci sbagliamo?, un certo Luciano Canfora, "stalinista critico" accampato nel PRC) si propone di evidenziare i "nostri" interessi geo-strategici e di fornire ad esso le giuste opportunità anche militari; in cui sul "Sole-24 Ore" si invoca la riconquista dell'Istria Nostra (sollecitata anche dalle firme... referendarie del "Giornale" di Montanelli) senza far troppo caso alle proteste di quei quattro bischeri di croati, che il loro servizio di battistrada l'han già fatto con la disintegrazione dell'"accidente" Jugoslavia.

E' del massimo significato che un partito come il PDS, che si è fatto promotore in prima persona delle esigenze operaie immediate, non abbia alcuna vergogna a sponsorizzare questo tipo d'intervento, mascherandolo col velo dell'"umanitarismo", così come il fatto che il PRC non abbia trovato di fronte ad esso che la scappatoia di una finta opposizione per il suo carattere "non realmente umanitario" (una pecca da correggere, correggendo... il capitalismo).

Sin dai tempi dell'operazione-macello in Iraq doveva essere evidente che cosa il capitalismo imperialistico è e non potrebbe essere altrimenti e, pertanto, l'esigenza proletaria di contrapporsi "in patria" al "proprio" capitalismo stringendo dei collegamenti con le masse da esso oppresse in ogni altra parte del mondo.

Quest'esigenza non è stata colta (se non superficialmente, ed in ristretti settori) allora, così come oggi non si coglie il nesso tra l'accresciuta aggressività all'esterno del capitale italiano e quella all'interno.

Interventismo rivoluzionario

"L'Unità" ci offre esemplarmente lo spettacolo di quel che è il riformismo dell'epoca imperialista (il social-sciovinismo, per dirla con Lenin): faccia feroce verso Amato e "posizione d'attesa" in armi (si fa per dire...) verso Ciampi, ma piena condivisione del "ruolo protagonistico" che "il nostro paese" deve assumere sullo scenario internazionale: Somalia, Albania, Jugoslavia e chissà dove, pur sempre alla condizione che si vada a colonizzare non per rubare, ma per "esportare civiltà"... "Liberazione" sarà pure più sospettosa verso i reali intendimenti di questo "nostro" paese, ma non è che si discosti di molto dallo stesso cliché.

Che l'interventismo nazionale sia la prosecuzione dell'aggressione anti-proletaria interna e che ad esso si debba rispondere con il riannodo di un interventismo rivoluzionario del proletariato e delle masse oppresse dei paesi "terzi" (e secondi, oramai...) nessuno lo dice, noi felicemente esclusi.

Piegare Agnelli? Piegare il governo? (O metter su in piedi uno "buono" apposta?). Ma come potrebbe questo esser possibile rimanendo entro i "propri" confini nazionali?

Limitiamoci all'aspetto "pacifico" della questione. Se industrie italiane, pressate dalle necessità della concorrenza internazionale, esportano l'occupazione all'estero (dalla Slovenia a Togliattigrad gli esempi sono oramai numerosi!) approfittando dei bassi costi della manodopera resi possibili dal mercato combinato e diseguale, quale può e dev'essere la risposta del proletariato italiano, ricattato in termini di posti occupazionali, salario e diritti sindacali?

Il social-sciovinismo si sforzerà inutilmente di conciliare i due termini: difesa della propria classe operaia nazionale in una con la necessaria ("progressiva"?) penetrazione all'estero. Ma questa è la classica quadratura del cerchio. Il mercato capitalistico non può venir spalancato quando si tratta di esportare ed importare merci e socchiudersi allorché si tratta di far circolare la merce-lavoro.

La via d'uscita è un'altra: all'internazionalizzazione crescente del mercato e delle sue leggi, il proletariato può solo rispondere internazionalizzando la propria organizzazione, la propria lotta.

Lo sciovinismo "di sinistra" in politica estera mal si concilia con l'"operaismo" in quella interna. Non si può contemporaneamente chiamare alla guerra per l'imperialismo e all'azione immediata contro di esso. Ovvero: una politica imperialista ed "operaia" si può dare nel solo senso per cui Mussolini parlava di "guerra antiplutocratica" e di "Nazione Proletaria" ed alle condizioni a ciò relative. Un terreno al quale il social-imperialismo può aprire la strada, ma che, di regola, non è poi gestito o gestibile sino in fondo da esso. Ma se la sveglia non è data a tempo, è poi facile svegliarsi un bel mattino col foglio di mobilitazione alle armi. Un movimento di classe che non abbia saputo scongiurare a tempo quest'esito ben difficilmente potrà fermare la macchina bellica in corsa. Il salto tra azione immediata ed azione antimilitaristica non si colma con la "decisione" d'un giorno. L'agosto del '14 insegni

Ritardi da colmare

Potrà sembrare a qualcuno che questo nostro insistere sull'aspetto internazionale rappresenti qualcosa di estraneo od eccessivo soprattutto al presente, allorché il nostro esercito di classe trova difficoltà a mantenersi unito e compatto anche "solo" sul piano delle lotte immediate e rischia piuttosto di consumare le proprie forze nell'"alternativa" o del lealismo verso i vertici confederali (un unico vertice domani?) e la scissione "a sinistra" della CGIL oppure nella ridicola raccolta di firme per chiedere allo Stato ed ai suoi ultraforcaioli parlamenti a venire di sancire con una propria legge quel che la lotta non riesce a conseguire; allorché la divisione politica tra PDS e PRC, alla quale verranno ad aggiungersi tra breve altre linee di fuga intermedie, non sta producendo alcun risultato chiarificatore ed aggregante sul terreno della teoria, dei programmi, dell'organizzazione.

L'elemento soggettivo è estremamente in ritardo, lo sappiamo. Ma sappiamo altresì che esso è chiamato di nuovo prepotentemente a muoversi dall'oggettività stessa dei fatti materiali. Ed ogni suo sforzo in tal senso non potrà, per la natura stessa dello scontro in atto, farsi "a bocconi", ma dovrà cogliere e toccare l'insieme dei rapporti sociali, economici e politici su cui esso si definisce. Il "nuovo Stato" che si sta apprestando con la attuazione delle "riforme istituzionali" sarà lo Stato centralizzato ed efficiente dell'attacco capitalistico contro la classe lavoratrice "propria" ed "altrui", contro il proletariato internazionale. Ma con ciò si pongono anche le basi dell'unificazione del fronte aggredito.

Da Milano a Mosca, da Berlino a Belgrado, dovunque i proletari sono chiamati a risollevare la propria unitaria bandiera di lotta, per la rivoluzione socialista. Questa è l'unica "riforma istituzionale" che ad esso compete.

Dietro il fumo delle "nuove regole istituzionali" e della contesa elettorale per questo o quel tipo di "nuovo" governo (forte e "pulito") questa è la strada che si apre.