Dossier Operaio

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Maxi-trattativa sul "costo del lavoro", 25 settembre e oltre

ALCUNI NODI DELLA POLITICA SINDACALE CENTRALI
PER LA TENUTA E LA RISCOSSA DEL PROLETARIATO

Indice


Da anni l'acuirsi di una crisi che non mostra spiragli di uscita ha indotto la borghesia a condurre attacchi sempre più decisi alle condizioni di vita, di lavoro e di potere della classe operaia. E' proprio sotto l'incalzare di questo attacco che si è conclusa il 3 luglio la maxi-trattativa sul "costo del lavoro" iniziata nel '91.

La classe operaia ha risposto e sta rispondendo all'aggressione del capitale con un movimento di resistenza massiccio, che è prova della grande capacità di tenuta della sua forza e del suo grado di organizzazione. Si deve a questo, e soltanto a questo, se si è riusciti finora a contenere gli effetti negativi per i lavoratori della linea di "cedimento" e di subordinazione alle "supreme esigenze dell'economia nazionale" propria dei vertici sindacali e riformisti.

Ma nuove e più dure battaglie ci aspettano, a cominciare da quelle già in corso, dalla Calabria al più profondo Nord, per la difesa del posto di lavoro. Per vincerle, e può vincerle, il proletariato è chiamato a rispondere ai nuovi assalti del capitale producendo uno sforzo unitario ancora superiore, e stringendosi intorno ad un programma rivendicativo, ad una linea e ad un'organizzazione politica che siano pienamente coerenti con gli interessi di classe.


La piattaforma di Confindustria e i suoi alleati

La Confindustria si è presentata al tavolo della maxi-trattativa con una vera e propria piattaforma basata su alcuni corposi obiettivi: definitiva sanzione dell'abolizione della scala mobile, riduzione dei livelli di contrattazione a uno con preferenza esplicita di quello aziendale, scomparsa (o significativa riduzione) degli oneri contributivi su buona parte del salario, liberalizzazione del mercato del lavoro con l'introduzione del "lavoro interinale" e del "salario d'ingresso". Questi obiettivi puntavano non solo alla riduzione immediata del costo del lavoro, ma a ottenere le condizioni permanenti di una sua completa subordinazione al mercato e alle necessità delle imprese. Una subordinazione che il capitale può ottenere solo intaccando profondamente le condizioni di unità di lotta e di organizzazione della classe operaia. Via, allora, la unificante scala mobile!, riduzione della contrattazione al solo livello aziendale -dove i padroni sanno di essere più forti-, frammentazione di mercato del lavoro e livelli salariali. E non diversa logica sottende la richiesta di abolizione (o scomparsa) degli oneri sul salario.

Nella sua battaglia Confindustria, oltre a tutti gli imprenditori privati e pubblici, individuali, societari e cooperativi, si è trovata al fianco i ceti medi, produttivi e parassitari. A partire da quelli che, superando ogni esitazione, hanno abbandonato vecchi referenti politici e la sostanziale tendenza al compromesso con la classe operaia, per transitare in contenitori -solo d'opinione, elettorali, o di vera e propria militanza politica- più aderenti alle loro necessità nella nuova fase economico-politica che si esprimono nella richiesta di un più o meno completo liberismo economico. Le forze che si raccolgono dietro questa bandiera sono varie e, per ora, piuttosto composite: vanno da Segni & co. a Pannella, alla Lega Nord, alla Rete.

La Lega vuole liberare gli operai

E' stata soprattutto la Lega ad inserirsi nello scontro tra Confindustria e sindacati. "Che gli imprenditori investano in fiducia su di noi" dice Bossi ("l'Unità", 27.6); "devono scommetere sul cambiamento, sui sistemi di lavoro più duttili che possano favorire l'occupazione giovanile, si deve rendere elastico quel che non è elastico". Chiaro, no?

L'autorità per questo inserimento Bossi la deriva dal raccogliere, ormai, il consenso elettorale -anche se, per ora, solo in grandi aree del Nord- della quasi totalità di piccoli e medi imprenditori, artigiani, professionisti, commercianti, managers, quadri, operatori di borsa, rentiers piccoli e non tanto piccoli. Questo insieme di strati sociali va maturando un odio profondo per gli operai non come ceto produttivo -anzi, tanto più plusvalore producono, tanto più li ama- quanto invece per la capacità di resistenza che la classe operaia oppone a un maggiore sfruttamento, e, naturalmente, per ogni organizzazione che aiuti, sia pure larvatamente, questa resistenza.

La lotta della Lega contro lo "statalismo" e per il liberismo ha, in ultima istanza, come obiettivo quello di distruggere ogni forma di organizzazione operaia, ogni possibilità di resistenza collettiva, ogni capacità di incidere, in quanto classe, sulla politica economica.

Il filantropico traguardo che la Lega si pone nella sua crociata per la completa liberalizzazione del mercato del lavoro -con la buona compagnia dei vari Segni, Pannella, ecc.- è, dunque, quello di liberare gli operai dalla abitudine di volersi difendere in modo organizzato, di liberarli, innanzitutto, della "tutela centralistica" esercitata su di essi dai sindacati confederali, quelli che, con linguaggio sempre caro ai missini, anche la Lega indica ormai come "Triplice". Di farli agire liberamente sul mercato del lavoro e della contrattazione salariale e produttiva, liberamente schiavi del capitale.

L'obiettivo di totale destrutturazione dell'organizzazione operaia galvanizza, al momento attuale, soprattutto i piccoli imprenditori. Ciò è dovuto al fatto che questi non hanno, per lo più, da scontrarsi nelle loro aziende con una grande forza operaia , ma sono (più o meno) costretti al rispetto di leggi e normative generali che la classe operaia tradizionalmente "forte" -quella delle grandi aziende- ha imposto allo Stato tramite le sue lotte e la sua organizzazione sindacale. E' questa la centralizzazione che costoro aborriscono, questo il mostro burocratico da cui vorrebbero una volta per sempre liberare la damigella-libera impresa.

Il grande capitale, invece, si muove su questa questione con più cautela non soltanto perchè è ben difficile impedire che in una grande azienda gli operai si coalizzino per meglio difendersi su tutti i piani, o perchè ritiene tatticamente prematuro un attacco frontale all'organizzazione operaia. Ma anche per una ragione non meramente "tattica": un capitale imperialista quale è quello "nazionale", pur non lesinando ogni sforzo per indebolire anche l'attuale sotto-riformistica organizzazione della classe (e tanto più per impedire il sorgere di quella rivoluzionaria), non può rinunciare ad avere una propria politica complessiva "per" il lavoro, che miri ad inquadrare totalitariamente, anche con specifiche forme di organizzazione, i proletari dentro lo stato. Come classe del capitale, s'intende, e per usarli come massa d'urto del capitale "nazionale" nello scontro sul mercato mondiale. Il padroncino leghista, invece, per le solite ragioni oggettive, fa una fatica della madonna a "pensare" in termini di nazione o di paese.

Il bilancio di Confindustria

L'appoggio della Lega -e, più in generale, dei "ceti medi"- è stato di grande utilità per Confindustria, che si è ritrovata con una base di massa ben più estesa del semplice padronato, ma ha anche provocato qualche problema. La spinta liberista dei "ceti medi", infatti, vorrebbe andare da subito ben più a fondo nello scontro con l'organizzazione della classe operaia (il Pds è, ormai, per Bossi il "nemico principale", e un grande schieramento politico e d'opinione non vede l'ora -e preme con tutte le sue, non scarse, forze- di trascinare completamente il Pds nelle inchieste di tangentopoli, meglio ancora se anche pezzi di sindacati). Ma lasciando agire senza freni questa spinta, lo scontro sociale diverrebbe incontrollabile, determinando una situazione di profonda instabilità sul piano economico e politico. Una eventualità che, in questo momento, rischierebbe di vanificare gli sforzi per conservare e migliorare il ruolo imperialistico raggiunto nei 50 anni di sviluppo post-bellico. Per questo Ciampi voleva assolutamente essere al "vertice dei sette" di Tokio con l'accordo in tasca: per dimostrare ai partners-concorrenti che non potevano considerare l'Italia un paese auto-esclusosi per debolezze interne dalla mischia sempre più esplicita sulla spartizione del mondo.

La presenza di queste due spinte, convergenti nell'attacco alla classe operaia ma non perfettamente coincidenti, si è manifestata anche nel bilancio che il padronato ha tratto dall'accordo del 3 luglio. Se la soddisfazione è stata generale per la definitiva scomparsa della "cultura dell'indicizzazione", su ognuno degli altri temi regolati dall'accordo la quasi totalità delle voci padronali ha espresso una aperta insoddisfazione. Ognuno di loro era convinto che si dovesse ottenere di più, e che, questa volta, si sarebbe anche potuto ottenere di più. Ancora troppi condizionamenti sindacali, ancora troppa contrattazione collettiva per i loro gusti!

Abete ha giustificato la firma di un accordo che non soddisfaceva del tutto lui e i suoi associati invocando il "senso dei responsabilità nei confronti del paese" ("l'Unità", 4.7). Alcuni altri industriali hanno, invece, espresso fuori dai denti tutto il loro malumore per il peso svolto nella trattativa dai problemi di carattere "generale", parlando delll'intesa come di "un'occasione mancata, con una possibilità (però) di recupero". La promessa esplicita è quella di persistere, con assoluta dedizione, nella strategia di attacco alle posizioni salariali, normative, sindacali della classe operaia.

La soddisfazione di Ciampi

Sul n. 27 del "Che fare" scrivevamo che il governo Ciampi era teso "non a una politica di "lacrime e sangue" a senso unico antiproletario, ma a una amministrazione ammorbidita verso questo stesso traguardo", trattandosi ,"prioritariamente di riassorbire la protesta operaia allentando per un po', per quanto possibile, la stretta. Il resto dovrà venire dopo".

A Ciampi spettava, dunque, il compito di ricreare nel paese una nuova pace sociale dopo la martellante attività anti-operaia di Amato e la vigorosa reazione di massa a essa. A chiedere fermamente la chiusura di un ciclo di aperto scontro sociale era, da un lato, la necessità borghese di risolvere previamente i problemi di assetto politico istituzionale e di rappresentanza politica, prima di dedicarsi a nuovi e più violenti attacchi al proletariato, e, dall'altro, quello di non aumentare troppo, causa l'instabilità interna, i problemi di presenza internazionale in un periodo denso di opportunità e di doveri per gli appetiti imperialistici della borghesia italiana.

L'ex-governatore di Bankitalia si è dedicato con cura e con coerenza a questo compito, cercando di guadagnarsi sul campo la benevola astensione tributatagli dal Pds e da gran parte degli operai. Tanto con la cosidetta manovrina di giugno, quanto con la finanziaria per il '94, egli ha "limitato" l'attacco al proletariato, a cui ha comunque imposto nuovi prelievi e nuove decurtazioni dei servizi sociali, andando con la mano più pesante nei confronti delle spese e della scarsa produttività del pubblico impiego.

Anche nella maxi-trattativa sul "costo del lavoro" l'azione che il governo ha svolto è stata improntata allo scopo di tendere a una regolazione del conflitto che sanasse, almeno temporaneamente, alcuni degli "eccessi" provocati dal suo predecessore, puntando, innanzi tutto, a realizzare un "accordo" - che già di per sè costituisce un cambiamento rispetto al registro precedente di quasi solo conflitto-, e, secondariamente, a realizzare un accordo che consentisse a ciascuna delle "parti" di apparire sufficientemente "vincente", o, almeno, non totalmente sconfitta. E dopo la firma ha immediatamente cominciato a fare la sua parte operando per la riduzione dei tassi d'interesse, come richiesto da sindacati e Confindustria, e predisponendosi a restituire il fiscal drag per il 1993, come richiesto dai sindacati.

Per ottenere questo risultato Ciampi e Giugni non hanno esitato a svolgere una attività "calmieratrice" nei confronti del padronato, confermando che il ruolo di "comitato d'affari della borghesia" prevede anche la possibilità che, nel perseguire l'interesse generale del capitalismo (cosa che questo governo sta facendo ottimamente), sia provvisoriamente scontentata una parte dei suoi agenti. Un'azione "calmieratrice" delle pretese di Confindustria che ha dovuto tener conto della forza espressa dalla classe operaia. Ma la politica di attacco alla classe operaia, che è dettata da necessità permanenti e sempre più stringenti, non è stata certo abbandonata. Quel che è mutato è soltanto il ritmo. Buona parte del percorso è stata compiuta sotto la guida di Amato a forte velocità, un'altra parte si sta compiendo, a velocità ridotta, con la guida di Ciampi, e sono già in vista altre violente accellerazioni.

E' per questo che il governo Ciampi, e con esso la borghesia nel suo insieme, può trarre dall'accordo del 3 luglio un bilancio più che positivo. Sul piano economico è riuscito a "consolidare" alcuni degli obiettivi raggiunti dal predecessore con una riforma del salario e della contrattazione che consente (come dice il giornale della Confindustria del 4.7) di "proteggere e preservare il vantaggio competitivo conquistato con il deprezzamento non voluto della lira". Sul piano politico interno è riuscito a creare i presupposti di una, almeno temporanea, tregua politico-istituzionale. Sul piano internazionale ha iniziato a lucrare, a pro di tutto il capitale nazionale, sui vantaggi che derivano dalla "pacificata" situazione interna, sia presentandosi in modo autorevole a Tokio, che consentendosi uno scatto di autonomia imperialista con lo "strappo" anti-americano in Somalia, da molti paragonato a quello di Sigonella di craxiana memoria.

Il bilancio dei sindacati e del riformismo

In una lunga e puntigliosa intervista a "L'Unità" del 10.7, Trentin ha spiegato perchè secondo lui nell'accordo ci sono più luci che ombre. Riconosce che in quello del 31 luglio '92 c'erano cedimenti alle pretese di Confindustria, ma giustifica la sua firma di allora con il "rischio di un drammatico aggravamento della situazione economica del Paese". E' convinto che nel frattempo, ed anche con l'accordo ultimo, si sia "risalita la china, rovesciando i termini più iniqui e pericolosi" dell'accordo precedente. Dà atto che questo è stato possibile grazie "al grande movimento di massa che si è sviluppato nell'autunno e inverno del '92". Movimento -aggiunge- "stimolato, certo, dalle critiche sacrosante all'accordo del 31 luglio, ma gestito dalle tre Confederazioni".

Il segretario della CGIL si impegna a smontare le "caricature" -così egli le chiama- fatte dai critici dell'accordo. Mette in luce che un certo recupero dell'inflazione è garantito come pure un certo spazio alla contrattazione decentrata. Ammette che sul lavoro in affitto "l'intesa è carente" (!), ma ritiene aperta la possibilità di strappare delle garanzie in materia. Difende l'istituzione delle RSU come un passo in avanti rispetto alla normativa esistente. E, come giudizio politico complessivo, afferma che non è passata la linea di normalizzazione della Confindustria mirante a "sostituire la funzione primaria del sindacato con la pratica ottocentesca delle gratifiche di bilancio e con i fuori busta".

Per quanto Trentin abbia qualche buon argomento per criticare le "caricature" fatte da alcuni oppositori dell'accordo, non può convincere nessuno, probabilmente neanche sé stesso, che la situazione sia per la classe operaia migliore oggi di quanto fosse stata fino al 30 luglio '92. Ma siamo sicuri che egli non voglia convincere nessuno di ciò e che, da buon riformista, creda che per la classe operaia sia inevitabile accettare sacrifici e cedimenti per fare la sua parte per il rilancio dell'economia nazionale (conservando un certo grado di difesa collettiva e rimanendo per questo organizzata. Due condizioni che fanno la differenza tra capitalismo e riformismo).

E' l'idea fissa di ogni riformismo "operaio", quella di essere capace di promuovere gli interessi complessivi del capitale nazionale più e non meno dello schieramento conservatore, per poter poi procedere a una politica "equa" di "redistribuzione sociale" degli utili conseguiti. Non a caso Mussi (su "L'Unità" del 19.8) fa una dura filippica contro lo spirito antinazionale del liberismo e del privatismo a tutti i costi della Lega, che non vede come, per consentire all'Italia di difendere le sue posizioni, sia inevitabile una politica economica basata sulla sinergia tra pubblico e privato. Dello stesso argomento aveva scritto diffusamente Reichlin ("l'Unità", 5.8) per sostenere che ai fini della ricapitalizzazione del sistema industriale italiano è necessario costruire una vera "democrazia economica" e che per uscire dalla crisi "non si può far leva sui soldi di Agnelli (che non ci sono) ma sulla grande risorsa del lavoro, insieme a quella del risparmio, delle professionalità e delle capacità imprenditoriali di questo paese".

E' la vecchia logica del riformismo, sempre disastrosa sul piano storico per la classe operaia, e tuttavia dura a morire -anche nella testa della massa operaia-, che però è costretta sempre più a scontrarsi -grazie all'inesorabile procedere della crisi- con l'antagonismo esistente tra necessità capitalistiche e necessità proletarie.

Altra caratteristica della politica riformista (sia alla Occhetto-Trentin che alla Garavini-Cossutta) è quella di confidare nell'alleanza "progressista" con le classi medie. Ma Pds e Prc avranno davvero ben poco di cui consolarsi in materia, dal momento che il processo di approfondimento delle tendenze anti-operaie sta facendo, nel "ceto medio", passi avanti da gigante. Ne è prova il successo elettorale e d'opinione della Lega. Ma ne è prova lo stesso "L'indipendente", la cui diffusione è stata rilanciata fortemente dalla svolta editoriale a favore del leghismo, e che tende a divenire un vero e proprio organizzatore collettivo di una "nuova destra" fondata su un'alleanza Lega-MSI-settori più genuinamente di destra del vecchio e del nuovo "centro", che accoglie e dà spazio a tutti i contributi degli "italiani onesti" quand'anche si dichiarino tuttora "di sinistra" (come Dario Fo e Franca Rame) purché aiutino il progetto leghista della raccolta dei "cittadini" contro la partitocrazia ladrona e il suo sistema di potere. (A proposito, sia detto solo di passaggio, ché bisognerà tornare sul fondo della questione: come definire, e spiegare, il comportamento politico di un Bertinotti che dà a questo fogliaccio che è tra i più virulenti nell'attacco alla classe operaia, interviste nientemeno che sulla corruzione del sindacato?)

Contrariamente a tutte le attese ed i desiderata dei dirigenti riformisti, lo scontro di classe, anche se momentaneamente un pò "raffreddato", va riemergendo prepotentemente dal sottosuolo sociale. E' indispensabile che la classe operaia arrivi ai momenti più acuti del suo esplodere senza essere ancora in balìa delle illusioni e dei limiti nazional-capitalistici del riformismo.

Il "fronte del no"

Contro l'approvazione dell'intesa del 3 luglio è sceso in campo a "sinistra" un "fronte del no" in cui erano schierati Essere Sindacato, "il manifesto", Rifondazione Comunista, il movimento dei Consigli unitari, tutta la galassia del sindacalismo "alternativo".

Le critiche più importanti fatte all'accordo erano basate sull'assunto che CGIL-CISL-UIL avevano ormai definitivamente svenduto i diritti acquisiti dai lavoratori in decenni di lotte, subordinando il salario alla politica economica del governo e all'inflazione, vincolando la possibilità di contrattazione aziendale alla redditività delle imprese, precarizzando il lavoro, trasformando la natura del sindacato da conflittuale a cogestivo.

Nessuna di queste cose è falsa. E' verissimo, in particolare, per noi, che per il conseguimento di questi obiettivi Confindustria lavora da tempo e continuerà a lavorare con sempre più impegno. E se ancora non è riuscita a realizzarli totalmente, nonostante la arrendevolezza e la complicità delle direzioni sindacali (CISL, UIL e CGIL ciascuna per la sua parte e nel giusto ordine, se no si finisce come la CUB che attacca la CGIL di oggi per rispolverare i "valori" della CISL biancofiore di ieri!), ciò è grazie, unicamente, alla capacità di resistenza e di lotta della classe operaia. Ma...quali e quante distorsioni ottiche in certe critiche "da sinistra" alla politica "riformista"...

Anzitutto: è come se alla gran parte di questi "oppositori" non riuscisse di vedere la realtà delle forze in campo, né dalla parte borghese, né dalla parte proletaria. Nelle loro interviste, volantini, prese di posizione non compare quasi mai un'analisi seria delle posizioni, della strategia, e tantomeno della forza, dell'avversario di classe. Sembra sempre che tutto abbia inizio e fine nei sindacati, cosicché basterebbe sostituire questi (non sempre si comprende bene se solo il vertice o anche la...base) per risolvere d'incanto tutto. Del pari non compare quasi mai neanche un riferimento all'insieme della classe operaia e alle sue lotte. Persino il movimento d'autunno è paradossalmente ridotto, per loro, alla pur importante manifestazione del 27 febbraio! E sì che in molti casi non si tratta di boicottatori abituali degli scioperi come certe belle lane di burocrati e burocratini in erba "alternativi", ma di compagni, di militanti sindacali che gli scioperi dell'autunno li hanno fatti ed organizzati!

Il fatto è che la loro analisi ignora, o usa soltanto di passaggio, categorie quali: crisi, classe, interessi di classe, rapporti di forza tra le classi, stato, etc., e si riduce ad una lettura tutta "soggettiva" dei processi reali, materiali, oggettivi (e quindi anche di quelli soggettivi relativi ai movimenti ed all'organizzazione del proletariato). E' il "pregiudizio democraticista" a costituire l'asse intorno a cui ruota tutta la posizione della quasi totalità degli esponenti del "fronte del no". Non a caso la loro battaglia contro l'intesa si è concentrata su due punti: 1)i sindacati non erano "legittimati" a firmare, non avendo ottenuto alcun mandato dai lavoratori; 2)il frutto peggiore dell'accordo è il riconoscimento delle R.S.U., avente come unico scopo quello di "scippare" il referendum sull'art. 19 ai 700mila firmatari!

La consultazione

Su questa strada paradosso chiama paradosso, e così succede che da parte di questi critici dell'intesa si cerchi di svalutare in tutti i modi possibili quella stessa consultazione che pure buona parte di essi aveva sempre richiesto con forza. Che si siano svolte 26mila assemblee in circa 10 giorni, coinvolgendo oltre 1.300.000 lavoratori è giudicato un dato del tutto trascurabile, mentre si preferisce porre l'accento sull'importanza di quelli che non sono stati coinvolti o si sono astenuti. E su questo fondamento si afferma: il distacco tra sindacati e "base" è ormai completo. E' proprio così?

Proviamo un istante a ragionarci su. Lo svolgimento di assemblee in un tempo così limitato è stato, giocoforza, più facile nelle fabbriche dove esiste una struttura sindacale, fosse pure con un unico delegato che, proprio in quanto è attivo, mantiene contatti più stretti con il sindacato. A queste si sono aggiunte quelle fabbriche che, pur senza delegati interni molto attivi, sono più seguite dall'intervento delle strutture esterne. La partecipazione a queste assemblee non è stata, di media, inferiore a quella di tutte le altre assemblee sindacali. Dove la partecipazione è stata nulla (o quasi) è soprattutto nel pubblico impiego (ma anche questo rientra nella normalità...). Dunque, la consultazione ha raggiunto tutta la parte più attiva della classe operaia, quella che, per intendersi, non solo fa gli scioperi, ma partecipa anche alle mobilitazioni di piazza, e che ha con il sindacato un rapporto di partecipazione attiva. Forse non è troppo azzardato fare un raffronto tra i partecipanti alle assemblee e i partecipanti alle manifestazioni del settembre/ottobre '92, che, a stare ai calcoli de "il manifesto", furono 1.300.000 circa. Un numero che ai redattori del quotidiano allora apparve enorme, ora è sembrato ridicolo. Perché? Ci si immagina forse che se fosse andata a votare la massa dei non aderenti agli scioperi il risultato elettorale sarebbe stato più brillante per la critica "da sinistra" ai Trentin e ai D'Antoni?

Non meno fuorviante è la lettura che viene fornita dei risultati del voto, che vengono visti come dovuti in buona misura al fatto che i rappresentanti sindacali che introducevano le assemblee erano tenuti a presentare solo la posizione ufficiale (il sì). Che ci sia stata questa "blindatura" è certo, ma detto ciò, si è detto ancora ben poco. C'è anzitutto un dato da considerare e da capire: la maggioranza dei consensi all'intesa sono venuti dagli operai delle piccole imprese e del Mezzogiorno, la grande maggioranza dei no dalle grandi aziende e dalle aree dove più forte è l'organizzazione sindacale. Perché questa "contraddizione"? E fino a che punto esiste veramente una contraddizione tra i sì e i no? E nella misura in cui esiste, come evitare di approfondirla, anzi: come sanarla?

I sì sono stati, innanzitutto, dei consensi dati al sindacato (prima ancora che alla politica di questi sindacati), e cioè a quell'elemento unificante senza del quale la prospettiva di questa grande massa di operai sarebbe di pressoché totale debolezza. Sono consensi, insomma, dati nella convinzione, più o meno consapevole non importa, che la loro forza può avere un peso solo se unita a quella della classe operaia delle zone geografiche o delle aziende "più forti". E che il trait d'union tra le due sezioni operaie, al momento rappresentato da CGIL-CISL-UIL per meriti acquisiti sul campo nei decenni trascorsi, va difeso e non indebolito se non si vuole restare alla mercé del mercato e dello sfruttamento padronale più infame, inclusa la mafia (stiamo parlando di piccole fabbriche e Mezzogiorno, non scordiamolo).

D'altro canto, il significato di massa dei no (prescindendo, cioè, da molti dei suoi sostenitori militanti) è un segnale di insoddisfazione nei confronti della strategia sindacale dato nelle sezioni "più forti" della classe. Ed è, nel contempo, un segnale di disponibilità alla lotta. Come a dire: avevamo, e abbiamo, la forza per ottenere di più, per stabilire un argine di difesa più solido. Dobbiamo farla valere. E' un segnale dato a questo sindacato, come momento di battaglia politica, per quel che riguarda la massa, del tutto interno alla sua struttura e alla sua organizzazione.

Non contrapporre ma collegare le spinte di lotta dei si e dei no

Insomma, a nostro avviso tanto nel sì quanto nel no -e senza con ciò voler fare astratte equazioni tra situazioni oggettive e soggettive diverse-, è contenuto un rilevante grado di tenuta organizzativa e di mobilitazione, soprattutto nella parte più attiva della classe operaia. Anche la consultazione sull'accordo del 3 luglio, perciò, si inserisce nel filone che parte dalle lotte di settembre '92, fino allo sciopero del 2 aprile, a Crotone ed alle tante dure lotte in difesa dell'occupazione in corso..., a dimostrare che la classe operaia, nonostante i guasti prodotti dal riformismo politico e sindacale, non è affatto sconfitta.

Non pensiamo affatto -non staremmo dove stiamo, altrimenti- ad una classe operaia eternamente riformista, né ad un riformismo eternamente capace di dominare la classe operaia. All'incontrario: per noi è inevitabile, indipendentemente dalla volontà di classi o individui, che la crisi generale del capitalismo conduca e le organizzazioni "riformiste" (che non potranno cambiare la loro natura), e le masse lavoratrici oggi riformiste, al "dunque" storico, che le vedrà divaricate. Già ora del resto si manifesta, e si manifesterà in modo crescente, la intrinseca incapacità di quelle organizzazioni di garantire anche solo una coerente difesa delle posizioni conquistate dal proletariato. Ed è proprio l'aprirsi della contraddizione riformismo/classe operaia che spiana il terreno acché un'avanguardia di classe si attesti su posizioni di lotta rivoluzionaria al sistema capitalista.

Cosa fare, allora, davanti alla "contraddizione" tra il no e il sì, ed a quella tra chi ha lottato (e poi votato) e la massa dei lavoratori restata fuori dalla lotta? Noi che siamo stati per il no, -per il no alla politica di subordinazione del proletariato alle compatibilità capitalistiche, prima ancora che per il no a questa intesa- diciamo: spingere per la prosecuzione, l'estensione e l'approfondimento della lotta perché è lì -e non in fantomatici statuti iperdemocratici o consultazioni senza blindature- la condizione prima per battere capitale e riformismo. Non chiuderci nel "ghetto" del no, o delle grandi fabbriche e delle aree più forti, e neppure nel "ghetto" più vasto di quanti hanno partecipato alla lotta. Promuovere dappertutto, e specialmente nelle aree più forti alle quali il mercato può dare "di più" (o togliere di meno) e che sono oggi tentate -tentazione suicida- di "far da sole" (è questa la base materiale dell'autonomismo), il senso profondo della politica di unità della classe.

La lotta al riformismo e al disarmo che esso produce nelle fila della classe deve essere senza quartiere, ma va condotta avendo sempre l'attenzione di contribuire a mantenere e rinforzare la capacità di lotta del proletariato, la sua organizzazione unitaria e la sua centralizzazione.

Contro il riformismo brandendo... riformismo?

Una autentica lotta al riformismo (che è poi un aspetto di una autentica lotta al sistema capitalistico) non può fare a meno, evidentemente, di coordinate e programmi anti-riformisti (e cioè coerentemente anti-capitalisti).

Ora, Rifondazione Comunista ad es. ha fatto una durissima critica ai sindacati per aver accettato di "subordinare sempre di più il salario alle compatibilità delle imprese". E così facendo si è posta certamente un passo oltre, ad es., il Pds. Ma poi leggiamo F.Giordano, responsabile "lavoro" nazionale del Prc ("Liberazione", 3.9), che dice: "l'obiettivo principale degli accordi era quello di ridurre il costo del lavoro, puntando solo sulla competitività di prezzo e sulla svalutazione per ridare ossigeno alle imprese italiane. Ma su questo terreno non è possibile fare concorrenza a Taiwan o a Singapore. E rischiamo (noi "nazione"-Italia, cioè -n.n.) di andare incontro a una fortissima subalternità tecnologica all'estero". E non possiamo fare a meno di notare che la lunghezza d'onda è la stessa di un Trentin, che accetta di firmare il 31 luglio per evitare crisi drammatiche al "paese". Tutto il ragionamento porta a concludere che evidentemente anche per Rifondazione esistono delle "compatibilità", quand'anche non siano delle singole imprese, di cui la classe operaia non potrebbe fare a meno di tenere conto, e che anche Rifondazione si sente impegnata, con qualche contorcimento in più del Pds magari, a difendere la posizione -imperialista, no?- raggiunta dall'Italia.

Anche per quanto riguarda il programma alternativo del Prc, le assonanze di fondo con quello del Pds sono palesi. Le uniche diversità apparenti sono sul tema della riduzione generalizzata dell'orario di lavoro -di cui, peraltro, anche nel Pds e nei sindacati si comincia a parlare-, e nell'accento che Rifondazione da un po' di tempo va ponendo sull'importanza da dare ai lavori "extra-mercantili", "quelli che non obbediscono immediatamente alla logica del profitto e del mercato" (è sempre F. Giordano), che, in regime capitalista, sono né più né meno che fumisticherie, e che peraltro il capitale americano ha già parzialmente utilizzato dopo la crisi del '29 per ridurre l' "impatto sociale" della disoccupazione. Nel contempo, però, si andava preparando a rimettere violentemente il profitto al centro di tutta la produzione con il conflitto mondiale, cui adeguava l'intera sua produzione.

Ed ancora: è davvero stupefacente la semplicità con cui un membro del movimento dei consigli dichiara ("Liberazione", 3.9): "noi crediamo che non vadano solo promossi investimenti per la modernizzazione dell'industria italiana (e qui siamo nel quadro Pds-CGIL di cui prima: aiuti alle imprese nazionali), ma sia necessario, ad esempio, bloccare certe importazioni come quelle agroalimentari ed energetiche che penalizzano il nostro paese". Ma ci si rende conto o no che con una rivendicazione programmatica del genere, con cui ci si lega al carro del "nostro" capitale, si spezza a priori l'unità della classe operaia europea, per non dire altro?

E se poi andiamo tra quanti si ritengono ancora "più a sinistra" dei consigli, il Cobas Alfa per es., troviamo che nella mozione presentata all'assemblea del 3 giugno si annovera tra le proprie rivendicazioni il "porre con forza la necessità di nuovi investimenti e nuovi modelli da produrre nello stabilimento di Arese". Nuovi prodotti Alfa contro la concorrenza di altre ditte e...di altri operai?

Siamo programmaticamente oltre il capitalismo "riformato" e democraticamente "partecipato" di Trentin e del Pds oppure del tutto all'interno di esso? E' possibile combattere il riformismo brandendo il riformismo?

Le menate contro il centralismo sono un contributo alla dis-organizzazione della classe

Tutto ciò non ci impedisce affatto di riconoscere che la manifestazione promossa il 12 settembre dell'anno scorso da Rifondazione, quella dei consigli del 27 febbraio, così come buona parte dell'attività di questo movimento nelle lotte d'autunno, e la manifestazione indetta per il 25 settembre di quest'anno, sono oggettivamente dei contributi che vanno nel senso di tenere viva la mobilitazione operaia, e di consentire a buona parte degli operai e dei militanti sindacali più combattivi di manifestare la loro decisione nel sostenere uno scontro più duro con le pretese padronali. Anzi, è esattamente perché riconosciamo questo contributo, ed in quanto -a modo nostro- compartecipi di questo impegno di lotta ed interni ad esso, che riteniamo di non dover tacere le nostre critiche ad impostazioni che tarpano le ali in partenza alla possibilità che una parte dell'avanguardia militante della classe si sbarazzi realmente dei contenuti riformisti per assumere posizioni coerentemente classiste.

Un solo altro tema ci preme qui sollevare, rinviandone altri, a cominciare dalla discussione intorno al "quarto sindacato", ai prossimi numeri del giornale: quello della critica al centralismo, e della affermazione del principio di "decentramento delle decisioni". Su questo tema si è incentrata anche l'assemblea dei delegati autoconvocati dei metalmeccanici, svoltasi a Brescia il 12.7, che ha indicato addirittura come compito "pregiudiziale" un radicale mutamento del sindacato, con la demolizione della sua struttura piramidale e il decentramento alle strutture di base di decisioni e risorse finanziarie.

Questo orientamento, se si affermasse, sarebbe completamente ed esclusivamente distruttivo per l'organizzazione della classe, su tutti i piani. Comporterebbe un ritorno all'indietro di secoli, agli albori del capitalismo, quando gli operai cominciavano a unirsi contro i padroni nei singoli opifici. Un ritorno che non tiene conto di quanta strada, nel frattempo, il capitale abbia fatto nel senso di una totale centralizzazione, economica, finanziaria e politica. E dunque sarebbe un salto all'indietro di qualche secolo ma solo per la classe operaia, che nel frattempo, a sua volta, si è data un'organizzazione "ugualmente" centralizzata, per quanto per ora solo su un piano interno all'attuale sistema di produzione, e quindi pressoché esclusivamente nazionale.

E' sensato attribuire l'origine di tutti i nostri guai al centralismo nell'organizzazione sindacale? Se siamo più deboli come lavoratori, se i rapporti di forza con il capitale si sono modificati a nostro svantaggio, questo è avvenuto per una serie di ragioni: l'inasprirsi della crisi economica, che ha prodotto tra gli operai disorientamento; il crescere della disoccupazione, causa della moderazione salariale più d'ogni senso di responsabilità dei vertici sindacali; l'aggressività del capitale resa tanto più forte dalla crescente attivizzazione in senso anti-operaio dei "ceti medi"; e -certo- anche la linea sindacale e politica del riformismo disposta a rinunciare a parti delle conquiste operaie pur di offrire un'ancora alla ripresa del "proprio" capitalismo nazionale. Con tutto questo, dunque, indicare la "centralizzazione" come motivo principale degli arretramenti operai, e poi battersi per la de-centralizzazione è, da un lato, cadere in una paurosa svista, e dall'altro come insaponare la corda all'impiccato che si vorrebbe salvare.

Quel che necessita per opporre una resistenza vincente all'aggressività capitalistica non è una maggiore "autonomia delle strutture sindacali di base" che, anzi, indebolirebbe in sommo grado la possibilità di resistenza di tutta la classe e di ogni frazione di essa. Ma, al contrario, un'unificazione e generalizzazione del fronte di lotta, che solo una adeguata centralizzazione può garantire. Una centralizzazione -si intende- ad una politica sindacale coerentemente di classe.

Comprendiamo bene l'avversione di settori di lavoratori per un "verticismo" espressione di una politica di collaborazione di classe, che si fa beffe della vera "democrazia sindacale", e che prima ancora pone dei precisi confini allo sviluppo delle lotte. Ma, anche in questo caso, il vero problema da affrontare è di linea sindacale e di rafforzamento della mobilitazione, ed è solo in questo ambito che ha senso porre un problema di "democrazia operaia", nel senso di dire: "il sindacato siamo noi". Per capirci: invece di dedicare tutta la fase precedente il 3 luglio a dichiarare a destra e a manca che CGIL-CISL-UIL non erano "legittimate" a firmare, andava fatto il massimo sforzo per far entrare con più forza gli operai nella maxi-trattativa. Non con evanescenti simulacri democraticisti, del tipo "richieste di verifica del mandato", bensì con scioperi, manifestazioni, lotte che "ricordassero" a tutti che "il sindacato siamo noi lavoratori organizzati", e "dimostrassero la nostra assoluta contrarietà alle richieste padronali, costringendo, allo stesso tempo, i vertici sindacali a tener conto della volontà espressa dagli operai.

Il 25 settembre: una manifestazione per continuare la lotta

Insomma: l'evolvere della situazione mondiale del capitalismo, con la estrema acutizzazione dello scontro di classe che portà con sé, pone tutte le forze in campo, quelle del "fronte del no" incluse, dinanzi a precisi aut-aut. Tanto la "sinistra sindacale" che il movimento dei consigli sono arrivati ad un bivio: o accettare di condurre fino in fondo la lotta contro il nemico di classe -e per farlo sarà necessario sbarazzarsi realmente di tutto il ciarpame riformista, anarco-sindacalista, democraticista, etc. che tutt'oggi domina nelle loro fila- o ripiegare disordinatamente, e perfino assai più in profondità del "riformismo moderato", davanti ai violenti assalti capitalistici alle porte. Spazio per tranquille e democratiche "opposizioni di sinistra" nel sistema ce ne sarà sempre meno.

Lo prova la stessa vicenda della manifestazione del 25 settembre. Questa era stata indetta prima delle ferie con la parola d'ordine "cambiare il fisco, cambiare le condizioni dei lavoratori". Altra speranza degli organizzatori era poi di indirizzarla contro lo "scippo" del referendum sull'art.19. Nei fatti, però, essa è diventata un'altra cosa.

Perché ci si era proposti originariamente la questione del fisco? Molto probabilmente perché ci si immaginava un autunno abbastanza tranquillo, per es., sul versante occupazione, ed anche abbastanza tranquillo sul versante della mobilitazione anti-operaia delle classi medie. Ed invece l'aggravarsi della crisi, che per tutti -noi soli marxisti esclusi- è arrivato, come sempre, non previsto e non desiderato, ha cambiato le carte in tavola.

Ed ecco allora che le vacue querelles costituzional-avvocatesche sugli articoli e i contro-articoli 19, i diritti di voto e di rappresentanza, etc., sono state -volenti o nolenti- inghiottite da ben altre e violente urgenze di classe: lotte in difesa del posto di lavoro, necessità di unificare queste lotte (compito non facile), lotta contro il dilagare della disoccupazione, i primi compiti -anche- di autodifesa della lotta operaia, etc. E' su questo "nuovo" e più aspro terreno di scontro che è stata costretta a porsi la manifestazione del 25. E' di qui che passa la ripresa dell'unità di mobilitazione di tutta la classe e il rafforzamento politico ed organizzativo di quel filo che si dipana dall'autunno scorso.

Per realizzarla sono utili obiettivi unificanti come la riduzione generalizzata dell'orario di lavoro a parità di salario, il salario ai disoccupati, l'utilizzo senza limiti di tutti gli "ammortizzatori sociali", ma è necessario predisporsi a sostenere questi obiettivi non come una richiesta caritatevole da rivolgere al resto della società, o come soluzioni che potrebbero essere ben accette "a tutti", oppure come una buona piattaforma per acchiappare voti "progressisti". Non è così, né mai lo sarà. Non solo il capitale e il governo, ma tutta la pletora dei "ceti medi", non hanno alcuna intenzione di accettare oltre quello che per loro è puro assistenzialismo. Non sono disposti a cacciare altri soldi (se mai ne abbiano cacciati) per finanziare queste "spese improduttive" e vedono, quindi, come fumo negli occhi qualunque proposta di "imposta sui patrimoni" o di nominatività dei titoli del debito pubblico, che, pure, la CGIL ha, talvolta, avanzato per rilanciare "progetti industriali" o migliorare l'assistenza sociale.

Non solo sul terreno del sostegno all'occupazione ma anche su quello del fisco, è aperto un duro scontro di classe, teso a determinare "chi paga", se il proletariato, unica classe produttiva di ogni valore, o le altre classi che sul valore prodotto parassitano. In un modo o nell'altro tutte queste forze chiedono che la pressione fiscale continui a gravare solo sui lavoratori dipendenti o, in alternativa, che questi rinuncino a ogni assistenza e previdenza tramite i "tagli" alle spese dello Stato, o accettando lo scambio effimero con un salario formalmente maggiore.

Per la classe operaia, il modo peggiore per affrontare lo scontro di classe in corso anche sul terreno del fisco sarebbe quello di ...non vederlo, di pensare, cioè, che sarebbe possibile, per esempio, lottare per una general-generica "riduzione della pressione fiscale" in alleanza con altre classi contro indefiniti cattivi gestori della spesa pubblica. E' quanto, invece, mostra di credere Rifondazione Comunista che mette tra gli obiettivi della manifestazione al quinto punto quello dell'abolizione della minimum tax ("Liberazione" 6.8). Non è singolare che un partito che critica il Pds per le sue rincorse al "centro", lo scavalchi così repentinamente a destra mettendosi alla rincorsa delle rivendicazioni dei "ceti medi", mettendo addirittura al servizio di quelli una manifestazione che, lo stesso partito, si augura che sia operaia e grande? E non c'è a fondamento di ciò la patetica speranza di poter evitare quella acutizzazione dello scontro di classe che è già ampiamente in moto?

La prospettiva

La classe operaia ha dimostrato nel corso di quest'ultimo anno di possedere ancora una grande capacità di tenuta della sua forza e del suo grado di organizzazione. Al capitale e alle sue coorti il proletariato ha inviato, in questo modo, un messaggio inequivocabile di determinazione alla lotta di resistenza contro i loro progetti di destrutturazione e scompaginamento economico, sindacale e politico. E, potenzialmente, la sua forza rimane intatta anche per la nuova fase di scontro che si apre, come confermano i primi "fuochi" dell'autunno.

Per bloccare e sconfiggere un'aggressione capitalistica che per forza di cose si farà sempre più feroce, è necessario non solo che la classe operaia non abbandoni mai il fronte di lotta, che anzi lo estenda sempre più e lo centralizzi sempre più, ma che essa si stringa intorno ad un programma rivendicativo, ad una linea e ad una organizzazione politica che siano davvero capaci di contrapporsi coerentemente alla borghesia. Questo passo in avanti politico del movimento di lotta del proletariato comporta un inizio, almeno, di rimessa in discussione della impostazione di fondo, delle coordinate del riformismo (e non soltanto una reazione agli effetti ultimi di essa). Questa esigenza emerge dall'interno stesso delle lotte "sindacali", a misura che nella continuazione di esse ci troviamo sempre più di fronte non solo i singoli padroni o le associazioni di categoria dei padroni ma direttamente l'apparato politico borghese con tutte le sue articolazioni, a cominciare dal governo.

Del pari, l'internazionalizzazione del fronte di lotta non è soltanto un obiettivo dei marxisti. E' una ineludibile necessità dell'intera classe. Anche solo per ottenere una più decisa resistenza nella lotta contro il nemico "interno" bisogna allearsi con le masse che, fuori del "paese", vengono dal capitale imperialista usate (come accade, tanto per stare vicini, nella ex-Jugoslavia) per metterle in concorrenza con la "propria" classe operaia. E tanto più lo è se la classe proletaria vorrà, come dovrà, andare ad affrontare e risolvere "il problema" della sua lotta al capitale alla radice.