Dossier Internazionale

 

Indice

"PACE IN BOSNIA":
IL QUADRO DELLA GUERRA SI ESTENDE

Nuove dalla Croazia


La guerra in Jugoslavia, i cui fili sono tirati dall'Occidente, è partita dal nord per raggiungere l'estremo sud del paese. Oggi, mentre si ciancia di pace in Bosnia (previa colonizzazione degli staterelli in cui la si è divisa), si allarga in effetti lo scacchiere del conflitto. A tutto il resto dei Balcani. Ma anche con un ritorno al nord. Dal coinvolgimento "indiretto" (in nome dei "diritti all'autodeterminazione" slovena e croata) si passa a quello diretto di aggressione per la conquista dei propri "spazi vitali" ed al conflitto tra i contendenti imperialistici alla torta balcanica. Anche la nostra Italietta si appresta a fare la sua parte. "Mir sada" in Jugoslavia o guerra di classe qui, in Occidente, e dovunque? Questa l'alternativa reale, oggi come e più di ieri.


Tutto quel che c'è da dire sui continui e sempre più sanguinosi sviluppi della guerra nella ex-Jugoslavia si potrebbe ragionevolmente riassumere in poche considerazioni sulla natura del conflitto e sulle sue proiezioni ulteriori ed in altrettanto scarne prospettive di soluzione del problema (dal nostro punto di vista, questo è ovvio). Considerazioni e prospettive sufficienti a dominare l'attualità di ieri, di oggi e di domani.

Le considerazioni in oggetto possono ridursi a tanto: gli attuali conflitti che dilaniano la ex-Jugoslavia, ed ai quali siamo ben lungi dal veder posta la parola fine, in nessun modo si spiegano con pretesi -esclusivi o preminenti- "fattori endogeni"; sono, al contrario, la conseguenza diretta di un attizzamento dei contrasti "nazionali" (leggi: tra le micro-borghesie "nazionali" interne) ad opera del sistema imperialista occidentale e a suo uso e consumo, in una lotta spietata tra le varie frazioni di esso. Anche ammessa, e non concessa, l'assurda ipotesi -cui credono o fingono di credere mascalzoni ed "ingenui" gli stessi portavoce della "sinistra"- per cui il conflitto nella ex-Jugoslavia va imputato a soli o comunque decisivi fattori interni, non si potrebbe non vedere come questo si sarebbe da lunga pezza concluso qualora non fosse intervenuto e non continuasse a spadroneggiare in loco l'Occidente a garanzia del "diritto internazionale", della "democrazia" e balle varie. Corollario: il gioco bellico che si sta facendo nei Balcani ad opera dell'imperialismo è, per sua natura, diretto contro il locale proletariato ed il proletariato delle metropoli stesse, in breve contro il proletariato internazionale.

Prospettive? Una sola: la "pace" nei Balcani non potrà darsi al di fuori di un'azione congiunta delle varie frazioni del proletariato locale contro le "proprie" borghesie e quelle imperialiste che tengono le prime a guinzaglio, nella più stretta, necessaria, unità col proletariato delle metropoli dell'Occidente. Questa lotta ha per posta né più né meno che l'abbattimento per via rivoluzionaria del presente regime capitalista, il socialismo.

Tutto il resto è vuota e criminale chiacchiera.

Bosnia-Erzegovina: piromani all'opera travestiti da pompieri>

Abbiamo in precedenza illustrato con dovizia di argomentazioni e di fatti queste nostre semplici proposizioni. Ci ritorniamo su ora per "aggiornarci" sul caso-Bosnia.

Qui la guerra è stata apertamente proclamata, per così dire, come i nostri lettori ben ricorderanno, dall'Occidente nell'atto stesso in cui si sono forzati i gruppi dirigenti borghesi locali, mussulmano e croato, ad un referendum istituzionale in chiave esplicitamente anti-serba, con la calcolata certezza che ad esso sarebbe corrisposta la replica in armi dell'elemento serbo e che il "blocco solidale" croato-mussulmano sarebbe saltato di lì a poco, con tutto quel che ne consegue. Nell'atto stesso, quindi, in cui si proclamava il riconoscimento della "sovranità" e dell'"unità" dello stato bosniaco-erzegovese, fin prima che esso nascesse, si sapeva e si lavorava a far sì che sul territorio di esso di "unitario" ci fosse solo un comune macello, di tutti contro tutti, ad esclusione di ogni "sovranità" da parte delle locali forze in campo.

Il preteso "cedimento" attuale dell'Occidente alla spartizione della Bosnia-Erzegovina, secondo quel che avrebbero chiesto ed "imposto" con le armi le varie fazioni in lotta, altro non è che il coronamento di un'azione da parte dell'Occidente stesso per fare a pezzi e mettere sotto controllo il territorio della ex-Jugoslavia e contendersi i vari pezzi di esso (ovvero l'intero scacchiere così dilacerato).

Ovvero: se era del tutto evidente che nessuna "missione di pace" in loco si proponeva di impedire il conflitto tra "popoli" e "stati", al contrario alimentato con tutte le forze, dev'essere oggi anche evidente che nessuna "missione di guerra" si propone di ristabilire una qualche forma di chiusura del conflitto e di varo di nuove, definitive, entità statali indipendenti. Come vedremo poi, questo dato non si riferisce alla sola Bosnia-Erzegovina, ma si estende agli stessi stati "sovrani" già riconosciuti (Slovenia e Croazia, per non parlare della Macedonia già sotto controllo armato USA), per i quali solo apparentemente la partita è dichiarata chiusa.

Questo spiega da sé il fatto che l'Occidente rinunzia a stabilizzare e tutelare uno stato bosniaco-erzegovese unitario, indipendente e sovrano -operazione per la quale non mancherebbero ad esso i mezzi-, trattandosi invece di proseguire nell'opera di generale destabilizzazione dell'intera area, "sacrificando" sull'altare di questo piano il povero Izetbegovic e soci, amaramente sorpresi oggi, nel loro delirio di "capi legittimi" del paese, del tradimento e dello stato di sudditanza all'Occidente cui sono stati "inopinatamente" sottoposti.

Il teorema occidentale è chiarissimo: nessuna borghesia locale è capace e merita di esser lasciata fare da padrona nel suo angusto pezzo di "casa propria". Questo compito spetta all'Occidente, che intanto si gioca al proprio interno i singoli pezzi del domino balcanico in attesa che si possa stabilire a chi dell'Occidente debba spettare l'insieme di esso in veste di "protettorato unitario" (diciamo subito: quest'ultima soluzione si potrà dare quando sarà finalmente stabilito a chi dovrà spettare il controllo ed il dominio non dei Balcani, ma del mondo intiero; una partita che ci costerà ben altre Jugoslavie, se non sapremo reagire prima come si conviene).

Bisogna pur dire, comunque, che le borghesiucole ex-jugoslave meritano di esser così infilzate allo spiedo. Quelle slovena e croata da sempre hanno sgomitato in nome della propria indipendenza "appoggiandosi" alla tutela di potentati europei, e tuttora chiedono a questi "disinteressati" protettori una garanzia per la conservazione di un potere sempre più franante, dall'interno di ognuno dei due stati e per l'aprirsi di conflitti tra i due pulcini di una stessa chioccia. I macedoni hanno consegnato da subito le chiavi di casa agli americani. Gli irredentisti albanesi aspettano che a "liberarli" arrivino i confratelli di Tirana su armamento e comando occidentale per ricongiungersi ad una "grande Albania" già abbondantemente colonizzata per conto suo...

E la Bosnia-Erzegovina? L'ex-"comunista" Izetbegovic e la sua troupe hanno raggiunto l'apice della follia nel momento in cui si sono dati a disegnare un progetto di "repubblica islamica" sulla base di una (un pò dura a realizzarsi, s'è visto) discriminazione del decisivo elemento serbo, e di un'alleanza strumentale e transitoria con l'elemento croato, da "assorbire", eventualmente, in un secondo tempo. Una "repubblica islamica" contemporaneamente rivolta alla Mecca degli sceicchi ed all'Europa, alle briciole del Corano ed a quelle delle abbondanti mense dell'imperialismo in contropartita dei servizi ad esso offerti "in proprio". Questa gentaglia non si è vergognata, sin dai suoi esordi, di chiedere la protezione armata dei "fratelli mussulmani" (cioè dell'apparato bellico di stato delle borghesie "islamiche"e non certo l'apporto di una guerra sociale delle masse sfruttate arabo-islamiche), ma soprattutto dell'imperialismo numero uno statunitense, scavalcando più o meno esplicitamente l'Europa (già impegnata con Slovenia e Croazia e quindi da "riequilibrare" in quanto a peso nella contesa inter-imperialistica così da poter sperare nella "riconoscenza" USA).

In un recente appello a Clinton, Izetbegovic ha scritto, papale papale: "Signor Clinton, bombardi i serbi. Se necessario anche senza l'appoggio degli altri. Ci difenda con i suoi militari" ed ha accusato il resto dell'Occidente di "aver abbandonato tutti i principi morali", a cominciare da lord Owen, "un politico dello stampo di Chamberlain", con l'eccezione di Kohl: "Si tratta di un vero e proprio amico, ma temo sia rimasto solo" (La Voce del Popolo, 11 agosto) . Nella sede del comando militare centrale di Sarajevo sventola una bandiera USA alle cui stellette è stato aggiunto il giglio (oh candore!) bosniaco.

Nulla si potrebbe immaginare di più antitetico al fiero spirito -nazionale sul serio- della tradizione di lotta per l'indipendenza dei popoli slavi e di quelli mussulmani. Ed è ovvio: quella tradizione, nei Balcani, è stata propria sin dagli inizi delle classi popolari sfruttate ed oppresse e giammai delle locali borghesie, ed altrettanto naturalmente è stata jugoslavista (quando non ha saputo andar anche più oltre, nella prospettiva di una più estesa federazione balcanica). Oggi che il ciclo delle rivoluzioni nazionali si è concluso anche in quest'area -tardivi "supplementi" compresi-, queste borghesie di altro non possono esser capaci che di uno smantellamento controrivoluzionario di quel poco o tanto di risultato progressivo acquisito!

Ed ecco allora la Bosnia-Erzegovina di Izetbegovic spalancarsi all'intervento europeo e statunitense da una parte, turco, iraniano etc. dall'altro, col solo risultato di mandare in pezzi il paese per farne un campo di battaglia tra opposti interessi borghesi extranazionali, ritagliandosi da e tra di essi uno spazio di illusoria sopravvivenza per il proprio personale politico "nazionale". Un'opera meritoria, insieme, della forca e della gogna!

La soluzione del problema serbo non può essere serbista, ma jugoslavista e di classe.

Di fronte a simile prospettiva, una divisione del paese in tre entità provvisoriamente separate, ognuna sovrana entro i propri limiti, e pacificate tra loro sarebbe già qualcosa di meglio -secondo quel che sostengono insieme, ora, ciascuno pro domo sua, Tudjman e Karadzic-, se...

Se, e proprio qui sta il punto. Il fatto è che nessuna pace può stabilirsi qui sulla base di una frammentazione della Jugoslavia prima e di una sottoframmentazione delle sue parti poi perché ciò di per sé significa sottomissione ai diktat dei veri "signori della guerra" internazionali e trascinamento all'infinito dei conflitti inter-etnici, ad onta di qualsivoglia transitoria "sistemazione".

Per questo noi diciamo che i serbi di Karadzic, per quanto legittimati a difendersi rispetto alle manovre di isolamento e strangolamento messe in atto ai loro danni in ragione della loro scarsa propensione all'autoconsegna volontaria all'Occidente, si danno inevitabilmente la zappa sui piedi per quel che concerne la stessa "autodifesa serba", che è inconcepibile al di fuori di un programma di lotta non "etnico", ma inter-etnico e sociale.

In una parola (ritorniamo al chiodo fisso), i serbi possono pensarsi liberi "come serbi" solo in quanto uniti da eguali agli altri popoli della regione, in quanto emancipati dalle dittature borghesi locali e da quella incombente sui Balcani, con ben altri coefficienti di forza, dall'esterno. Il che significa... Punto e a capo.

Ovvio che sarebbe troppo chiedere tanto al micro-nazionalista Karadzic, per quanto, poi, si possa riconoscere a lui un tantino di fierezza nazionale sul serio, infinitamente al di sopra del servilismo programmatico verso i padrini esterni di un Izetbegovic, ed alla lotta dei serbi bosniaci un carattere autenticamente popolare (ancorché completamente deviato dai percorsi che esso avrebbe potuto aprire una volta svincolatosi dall'attuale direzione borghese).

La vera forza delle armate serbe sta proprio in questo loro carattere popolare, cui si accompagna anche una connotazione di classe contadina, e non certo dai pretesi appoggi dell'ex-APJ o del retroterra belgradese, disposto piuttosto ad ogni compromesso di stato pur di essere riammesso nella "comunità internazionale". Quello che precisamente manca alle demotivate forze "islamiche", costrette a ricorrere ai mezzi più spietati di arruolamento forzato (sino agli accordi stipulati con Tudjman, prima che l'idillio con esso si guastasse, per il reinvio in patria dei fuggiaschi abili alle armi).

E' chiaro che noi non "preferiamo" né sosteniamo, "criticamente" o meno, Karadzic rispetto ad Izetbegovic, così come ieri non abbiamo né "preferito" né sostenuto Milosevic rispetto ai Tudjman ed ai Kucan, anche se a questo sospetto possono esser indotti fessacchiotti (o mascalzoncelli) di cert'area presunta a noi "vicina".

Altrettanto chiaro che da questo non consegue alcun indifferentismo, perché un paese ed un popolo attaccati direttamente dall'imperialismo non possono essere assimilati, quali che ne siano le direzioni politiche e militari, agli altri, né "in generale" né "in particolare", per quanto attiene, cioè, alle possibilità e modalità del loro sganciamento dalla tutela di dette direzioni in vista di una vera lotta anti-imperialista sino in fondo.

Per rimettere le cose in chiaro, in particolare ad uso di chi ci legge per la prima volta:

l) La tragedia jugoslava trova le sue origini nel funzionamento oggettivo dei meccanismi capitalistico-imperialistici in quanto sistema internazionale, nella soggettiva azione disgregatrice promossa dalle metropoli occidentali, nella subordinazione ad esse delle locali borghesie secessioniste (e neppure importa con quali intenzioni ed aspettative, fossero pur anche di non programmatico vassallaggio), nell'impotenza del centro di resistenza serbo a contrastare quest'operazione sul terreno dello jugoslavismo (borghese "prussiano"), nella sua suicida (anche e proprio dal solo punto di vista borghese) chiusura in un'ottica esclusivamente "serba" -conseguenza non occasionale della natura di classe del potere serbo- e, per converso, nella sua efficacia controrivoluzionaria, antiproletaria, infine, quale elemento risolutivo, nella generale debolezza politica del proletariato jugoslavo ed internazionale.

2) La risalita da questo abisso potrà darsi solo a condizione che, ammaestrati dalle conseguenze di essa, i proletari jugoslavi e di tutto il mondo si sollevino contro l'imperialismo e le forze borghesi locali al servizio di esso -in veste di "quisling" o di "resistenti" su base puramente etnico-statale-, il che presuppone qui la ricucitura di un'unità proletaria inter-etnica sulla base di un proprio armamento in tutti i sensi. In certo qual modo, è proprio ai serbi, per la loro posizione di bersaglio dell'Occidente, che si possono attribuire i migliori coefficienti di possibilità oggettive di agire in questa direzione ed anche, di conseguenza, i maggiori doveri.

(Sbagliano atrocemente coloro che, pur cogliendo esattamente nella furia anti-serba dell'Occidente il contrassegno dell'operazione imperialista in corso, pensano di poter -come prima tappa "tattica"- contrastarla "appoggiando" la linea di resistenza borghese serba, impotente ad affermarsi sul proprio terreno, ma ben operante sul versante antiproletario. La lotta, qui, contro l'interventismo anti-serbo occidentale non può mirare alla costituzione di "fronti anti-imperialisti" né con i Milosevic né con i Karadzic, ma a porre le condizioni perché nel fuoco della lotta anti-imperialista in Jugoslavia, cui i serbi sono materialmente costretti in prima linea -ma alla quale non meno sono interessati in storica prospettiva sloveni, croati, mussulmani, macedoni, albanesi etc.-, l'elemento proletario si possa liberare delle dirigenze borghesi che lo portano al macello per ricondurre la lotta sul proprio terreno internazionalista di classe. Dura a capirsi per i "resistenzialisti" affetti da "democrazia progressiva" cronica.

La nostra soluzione, o quella dell'imperialismo

In Bosnia-Erzegovina, come abbiamo altre volte messo nel massimo rilievo, elementari tendenze in questo senso esistevano e resistono, dalla grande manifestazione operaia dei centomila di Sarajevo alla resistenza attuale di "oasi" inter-etniche che si rifiutano di accettare la logica di divisione e contrapposizione "nazionale" promossa dalle "proprie" borghesie e dall'Occidente (non a caso l'UNPROFOR ha trattato con fastidio l'"eccezione" di Tuzla, ma anche di una buona fetta della stessa Sarajevo ed è corsa ai ripari per cancellarla!).

Troppo poco ancora, certo, ma è questo l'anello cui occorre aggrapparsi. Tanto più che si danno segnali sicuri che l'onda di compattamento etnico reazionario sta entrando ovunque in crisi.

In Slovenia e in Croazia anche i proletari che più ottusamente si erano lasciati incantare dalle prospettive di prosperità che per essi sarebbero derivate dal secessionismo, stanno imparando a riconoscere come la pretesa "liberazione nazionale" ha portato ad essi nuovi esosi padroni, nella duplice veste dei locali borghesi (in buona parte semplici "compradores" ad uso dell'Occidente) e dei veri dominatori imperialisti ed a reagire al loro strangolatorio dominio.

Né si tratta "solo" di agitazioni sindacali, ma di un abbozzo di programma politico più generale, come quando, ad esempio, ci si contrappone alla liberalizzazione selvaggia, alla svendita di fette intere dell'apparato produttivo centrale all'estero, all'esautorazione dei propri "poteri" autogestionari, o come quando si arriva a contestare pubblicamente in massa i poteri costituiti (episodio recente: un intero stadio in Dalmazia ha allontanato a suon di fischi ed improperi Tudjman e il suo seguito), o -ancora- come quando si comincia ad esprimere l'esigenza di finirla con lo stato di guerra permanente, si pratica o si appoggia la diserzione di massa etc. (Tale abbozzo è per noi, beninteso, solo l'anello più vicino e concreto cui occorre aggrapparsi, non l'intiera catena, ardua da ricostruire e da cui si è ben lontani anche solo come "immaginario"... Poco o tanto che sia, questo è quel che passa il convento.)

La sbornia nazionalistica, se pure è valsa ad immobilizzare e, in certi ridotti casi, a coinvolgere settori del proletariato, sta entrando rapidamente nella fase di smaltimento. Abbiamo già detto abbastanza del tracollo economico che per primi ha colpito gli stati "indipendenti" -Slovenia e Croazia- cui era stata promessa l'Europa subito con tutte le sue delizie (Evropa zdaj, Europa subito, era il titolo di un giornale di Kucan). La "ricca" Slovenia ha visto, in particolare, crollare di quasi un terzo la propria produzione ed ancor più peggiorate le ragioni di scambio con i neo-partners occidentali, che ci s'immaginava assai meno rapinatori dei serbi colpevoli di centralismo (come se l'Occidente potesse essere meno centralista...). La disoccupazione corre e per porvi rimedio non si sa ricorrere che all'espulsione per legge della manodopera straniera -misura non solo reazionaria, ma illusoria perché anche il capitale straccione sloveno corre a spremere la manodopera laddove è più a buon mercato e, in questo, se ne infischia di eventuali protezionismi "pro-occupazionali" interni-. Della Croazia meglio non parlare: la cruda realtà di un salario medio che riesce, quando c'è, a coprire appena il costo del pane di ultima qualità e del latte la dice già lunga. (Vedi scheda sotto)

Ma neppure questo quadro apocalittico segna un punto conclusivo. E' proprio la risistemazione geo-politica promossa dall'Occidente che risulta del tutto instabile e foriera di nuovi conflitti.

Slovenia e Croazia che, emancipatesi finalmente dalla "dittatura" belgradese, avrebbero dovuto avviare dei reciproci rapporti "paritari" sulla via dello sviluppo stanno entrando in rotta di collisione tra loro. La Slovenia lamenta la rapina dei propri averi sul suolo croato da parte dell'HDZ, calcolandola in milioni di dollari e comincia a fare il viso dell'armi contro lo scomodo vicino. La Croazia replica sullo stesso tono e si arriva a scrivere sui fogli di Tudjman che "gli sloveni son peggio dei serbi". Che bello spettacolo! Così, non stupisce che ad inizio agosto si sia cominciato a parlare a Ljubljana di un latente pericolo di conflitto tra i due paesi.

Quel che è curioso è che i circoli dirigenti sloveni hanno accennato ad "oscure manovre" in tal senso da una qualche parte, non meglio precisata, dell'Occidente, e intanto assistiamo ad un progressivo raffreddamento delle relazioni diplomatiche tra Slovenia ed Italia, sospettata di atteggiamenti poco chiari (dal blocco delle importazioni di carne al dispiegamento, sotto ferragosto, di truppe militari ai confini con l'inverosimile scusa della minaccia terroristica serba, all'ipo persino nucleare!) e certamente in Slovenia è in atto un braccio di ferro tra "possibilisti" verso l'Italia (con quel Kucan che si fa stampare il proprio giornale, Republika, direttamente ad Udine) e filo-germanici sparati alla Peterle, con frammezzo l'ala nazionalista oltranzista di Jelincic, sospettosa di entrambi i partner ed anelante ad una sorta di fascismo autarchico. Per intanto sta di fatto che a queste "oscure" manovra sloveni e croati si adeguano dando ai propri rapporti il "carattere di una vera e propria contesa territoriale", "fors'anche per tentare di distrarre l'attenzione dei cittadini da problemi più acuti e importanti", come suggerisce Panorama di Rjeka-Fiume del 31 luglio.

Solo che la tentazione verso il "collante nazionale" su queste basi si sa come comincia, non dove può andare a finire e, in una coll'aggravarsi della crisi interna ai due paesi, sentiamo sempre più rumor di sciabole.

Un ulteriore elemento di pericolo è dato dall'indipendentismo istriano, nato già "leghista" e sospinto verso posizioni "autonomiste" via via più estreme dalla morsa centralistica di Tudjman. L'Istria si sta preparando a diventare un campo di battaglia tra DDI ed HDZ, ma, ancora una volta, si tratta di tutt'altro che di un "affare interno" e non a caso gli sloveni, che in tal caso potrebbero guardare ad esso con favore per riequilibrare i propri rapporti con l'ostico vicino, ne sono preoccupati. E' significativo quanto essi hanno scritto in merito. Il Delo suggerisce: "In quanto all'Istria "regione senza confine", l'idea è molto ben vista in Italia, che non nasconde le tendenze alla riscoperta del "proprio" paradiso perduto, del proprio spazio etnico e storico"; "simili idee hanno portato alla guerra nei Balcani e fanno parte di quella che si può definire "sindrome serba", che avrebbe infettato anche il regionalismo istriano". E lo Slovenec del democristo Peterle ipotizza "uno scenario destabilizzante con alla fine la firma di "Osimo 2" e una nuova divisione dell'Istria, divisione che premierebbe l'Italia lasciando a Slovenia e Croazia soltanto le briciole". Lo scenario ipotetico potrebbe essere, secondo il giornale, il seguente: "La guerra in Croazia si allarga, davanti alle sedi delle istituzioni italiane in Istria scoppiano delle bombe. I giornali italiani danno la colpa agli estremisti sloveni e croati" sino a quando "la comunità internazionale fa venire i propri osservatori e alla fine viene proclamato un "Libero territorio istriano". Nel duemila viene firmato Osimo 2, alla Slovenia resta la zona tra Crni Kal e Risano, Maresiga e Socerga, alla Croazia vanno Abbazia e Fiume, all'Italia il resto della penisola" (ma vorremo poi abbandonare Abbazia e Fiume agli "slavi"?).(1)

Come avevamo anticipato nel nostro volumetto sulla Jugoslavia, la minoranza italiana in Istria è precisamente oggetto (e soggetto attivo, nei suoi gruppi dirigenti eterodiretti) di ulteriori conflitti, con l'Italia "finalmente" protagonista ("E' cominciata una politica estera italiana", ha scritto Marcella Emiliani sull'Unità a proposito della Somalia: essa va ora proseguita, se del caso, in Istria). Dall'appoggio all'indipendenza slovena e croata l'Italia ha lucrato troppo poco, ed oggi persino il ministro della difesa Fabbri recrimina apertamente contro la Germania (con gran gioia di certi resistenzialisti e "anti-imperialisti" germanofobi di nostra conoscenza), addirittura accusando Bonn di star dietro ad un progetto di divisione dell'Italia.

Si legga questo dialoghetto tra Fabbri e l'intervistatore Orlando sul Giornale del 13 agosto. Fabbri: "Vedo la possibilità per l'Italia di sfasciarsi come le regioni dell'ex Jugoslavia, l'una contro l'altra". Orlando: "Con la Germania che riconosce subito la Padania?". Fabbri: "La Germania è stata la prima a riconoscere la Slovenia". Orlando (suggeritore furbesco): "Anche a pagarla?". Fabbri (diplomatico, ma chiarissimo): "Non lo so".

Dopo valanghe di falsità e retorica sulla "giusta causa" sloveno-croata, ecco che anche dalla bocca dei borghesi nostrani incalzati dalla necessità di una "competitiva" politica estera vien fuori quella verità che noi abbiamo sempre detta suscitando il biasimo indignato di "sinistri" del calibro di Moscato e della LRS, ovvero che la guerra in Jugoslavia è un episodio dei contrasti, sin qui per interposta persona -poi si vedrà-, tra le potenze imperialistiche, con i soggetti locali che recitano secondo copione occidentale, e che, quindi, ben lungi dal restringersi alla sola Jugoslavia od ai soli Balcani, essa è in prospettiva destinata a coinvolgere direttamente "le nostre genti".

Confini di guerra o guerra ai confini?

Il dispiegamento di (modesti) contingenti di truppe dell'esercito italiano ai confini con la Slovenia -gesto assai poco gradito a Ljubljana- può meglio leggersi alla luce di questi fatti. Pur infognata in una situazione politica interna di massimo incasinamento, la borghesia italiana si dimostra attenta e compatta nel considerare i propri interessi geo-politici, e questi ultimi sono irresistibilmente attratti dalla vicina sfera d'influenza sloveno-occidentale ed istriana, che si tratta di contendere o ricontrattare con la Germania.

Fin dove essa saprà e vorrà andare? Difficile dirlo oggi, ma una cosa è certa: il gioco politico-economico-militare che ha portato alla frantumazione della Jugoslavia è destinato a proseguire con la corsa alla sottomissione -diretta o indiretta- dei vari frammenti "liberati" dalla "morsa belgradese", e qui vengono direttamente a scontrarsi i contrastanti appetititi dei vari imperialismi. Il nostro ben compreso tra essi.

Tutto questo taglia inesorabilmente l'erba sotto i piedi di quanti si sono potuti immaginare che si trattasse di un "semplice" conflitto inter-jugoslavo, da cui tenersi fuori o su cui intervenire per "riportare la pace" (dopo aver sanzionato il misfatto della disintegrazione della Jugoslavia). Si è fatto di tutto per mistificare quella che, sin dall'inizio, era la logica di questa guerra. Lo si potrà fare ancora oggi?

Non più. Due sono le strade aperte: o arruolarsi nel fronte della lotta rivoluzionaria di classe, o mettersi al servizio delle "nostre legittime aspirazioni territoriali" imperialiste (mascherate o meno).

A qualcuno non mancherà, magari, l'occasione di dipingere questa seconda soluzione coi colori di una "politica veramente nazionale italiana" non succube nei confronti di Germania ed USA. Una musica che abbiamo già sentita (ricordate la "guerra dei popoli proletari contro la demoplutocrazia internazionale" di Mussolini buonanima?). I segnali in questo senso si moltiplicano sulla stampa e nell'opinione pubblica non solo di destra, ma di centro, con irresistibile movimento verso... "sinistra".

Noi, e i proletari jugoslavi, siamo sempre stati, siamo e sempre saremo sul fronte opposto.


NUOVE DALLA CROAZIA

L'occupazione ha subito, nel corso del '92, una flessione del 12,5 per cento. Nell'88 i disoccupati erano in tutto 134.555; oggi agli uffici di collocamento sono registrate 266.568 persone (pari al 17,54 della manodopera complessiva). Ma il numero stesso è ingannevole, dato che molti hanno cessato di ricorrere a questi uffici, e va inoltre tenuto conto della -non censita- emigrazione economica.

Gli indennizzi di disoccupazione sono riconosciuti solo a coloro che possono vantare nove mesi di anzianità di servizio ininterrotta o dodici mesi con interruzioni nel corso degli ultimi diciotto mesi, ed è pari ad un 80% del salario minimo, retribuiti per un periodo da 78 a 468 giorni massimi, a seconda dell'anzianità di servizio. (Voce del Popolo di Rjeka-Fiume, 12 agosto).

Questo "minimo sociale" (80 mila a tessere messe a disposizione del governo) per una persona singola è di 81.457 dinari (il dinaro sta attualmente al di sotto delle 0,40 lire) e può arrivare ai 250.636 dinari per quattro persone (ogni altra persona oltre percepirà 18.798 dinari), mentre si calcola che un nucleo familiare di 4 persone necessita di un minimo di 450 marchi tedeschi per il minimo esistenziale. (Ibid.)


Note

(1) L'esempio più significativo della strada su cui si sta indirizzando l'autonomismo istriano è offerto dalla costituzione, il 14 agosto, di un'"Associazione delle città e dei comuni dell'Istria" aperta anche ai comuni "che pur non appartenendo né alla regione istriana né a quella insulare desiderano dare un proprio contributo allo sviluppo regionalista" "per contrastare ed ostacolare le tendenze centralistiche dei vertici di potere croati". Quest'Associazione, cui hanno aderito immediatamente 28 comuni, compreso Fiume, si prefigge "il dialogo con le Associazioni europee ed internazionali che quale finalità si proponono lo sviluppo delle autonomie locali" e, tanto per gradire, Rinaldo Locatelli, segretario esecutivo dell a Conferenza permanente delle aurotià locali e regionali dell'Europa, "ha auspicato che da questa associazione nascano valide forme di collaborazione tra l'Istria e le arre di confine contermini, nonché tra queste ed i poteri locali d'Europa". Chi vuol capire capisce. (Cfr. La Voce del Popolo del 12 e 16 agosto)
Un indice della movimentazione del quadro politico interno è dato dal fatto che il Partito cristiano democratico croato sta sposando queste tesi, arrivando ad affermare che "coloro che tentano di negare l'autonomia delle amministrazioni locali non hanno il diritto di definirsi democristiani". Tanto per l'HDZ.