La lotta contro i licenziamenti alla FIAT

DIFESA DELL'AZIENDA O
DIFESA DEGLI INTERESSI DI CLASSE?

Indice


Due mesi fa la FIAT lanciava la Punto, presentata come l'ancora di salvezza tanto per l'azienda quanto per gli operai. Oggi lancia nei suoi stabilimenti un profondo attacco all'occupazione. L'obiettivo è politico. Assestare un colpo alla capacità di lotta generale della classe operaia. Con ciò accelerare la marcia verso la seconda repubblica. Deve rispondere l'intera classe operaia.


Il 23 novembre la FIAT ha annunciato il piano di ristrutturazione del gruppo: 3800 "esuberi strutturali" tra gli impiegati del gruppo, da espellere attraverso la mobilità lunga; 8-11mila "esuberi temporanei" tra gli operai, da collocare in cassintegrazione a zero ore per due anni, quando "la possibile ripresa del mercato, insieme ai positivi effetti dello sviluppo della gamma prodotto, fa prevedere un graduale riassorbimento di manodopera" (da "In diretta", voce del padrone di Torino). Gli "esuberi" operai sono così ripartiti: 2mila nello stabilimento di Arese (per il quale l'azienda prevede a partire dal '96 il mantenimento di un semplice presidio produttivo, di fatto una sua chiusura); mille alla Sevel di Pomigliano (che sarà chiusa); 5-8mila nell'area finora considerata al sicuro da simili tempeste, quella torinese.

Come emerge dalle corrispondenze che pubblichiamo, la risposta operaia, pur disomogenea, è stata immediata, anche laddove, come a Mirafiori, è più debole l'organizzazione operaia. Questa resistenza ai piani dell'azienda deve essere la base per mettere in campo unitariamente tutte le truppe proletarie, a partire da quelle del gruppo FIAT: questa è la prima condizione per non partire col piede sbagliato in uno scontro che si annuncia aspro e difficile.

E non solo per l'avversario presente nell'altra metàccampo: il più grande capitalista privato italiano. Ma soprattutto per la posta in gioco: non semplicemente diverse decine di migliaia di posti di lavoro, ma i rapporti di forza generali fra borghesia e proletariato per i prossimi anni.

Il piano di battaglia della FIAT

Da mesi il mercato dell'auto è in caduta libera. La concorrenza tra le varie case automobilistiche è diventata spasmodica. E' in atto una guerra (sempre meno solo economica) che dovrà stabilire chi sopravviverà per nutrire un mercato stagnante o in improvvisa e congiunturale crescita.

Non è una specificità del settore dell'auto. Per tutti i settori l'epoca dello sviluppo travolgente è alle spalle. Definitivamente. Davanti un sistema ingolfato, riprese verticali sempre più drogate, cadute ancor più catastrofiche.

Questa crisi non è iniziata da oggi. Oggi conosce un nuovo aggravamento. Per dare ossigeno ai propri bilanci e non venir mangiati nella giungla del mercato mondiale, ai capitalisti non basta più, come è accaduto per oltre 15 anni, mettere sotto torchio, prevalentemente, le masse sfruttate del Sud del Mondo; non basta più razziare le praterie, fino a poco fa "inesplorate", dell'Est; non basta più galleggiare su un mare di petrolio a costo zero: il ventre molle su cui i padroni di tutto l'Occidente spingono per sopravvivere e rilanciarsi è sempre più la "propria" "garantita" classe operaia.

Tutti i produttori di auto stanno attuando piani di "risanamento", che prevedono il taglio di decine di migliaia di posti di lavoro nei maggiori centri industriali dell'Occidente. Neanche il Giappone, il paese dal "posto a vita", sfugge a questa regola.

Questi piani non mirano solo a ridurre gli organici, per dimensionarli al livello richiesto dalle esigenze del profitto e della competitività. Attraverso di essi, i capitalisti vogliono ridurre e dividere la forza organizzata della classe operaia, per procedere così a quella continua ristrutturazione del ciclo produttivo e a quell'uso flessibile della forza-lavoro con cui i padroni intendono sbaragliare i concorrenti e ampliare la propria fetta di mercato. Anche quando, per la forza della "propria" classe operaia, si muovono con molta cautela (v. il caso Volkswagen), gli industriali cercano in ogni caso di sgretolare questa forza, di spezzare le "rigidità" che "trattengono" il lavoratore a vendersi "libero" e inerte alle forze del mercato.

Questa necessità è ancor più forte per la FIAT. Essa perde terreno più delle altre case, anche nel proprio cortile di casa. La causa di ciò non è l'incapacità imprenditoriale della famiglia Agnelli o della "classe dirigente" italiana: a pesare è la debolezza storica del capitalismo italiano rispetto ai "fratelli maggiori" occidentali. Stante il sistema mondiale del capitalismo, c'è un unico mezzo per evitare che questa debolezza si tramuti in fattore mortale: incatenare la classe operaia in modo ancor più serrato che negli altri paesi. Una necessità per Agnelli. Una necessità per l'intera classe dei capitalisti.

In vista di questo obiettivo la FIAT ha innanzitutto chiuso, non senza incontrare una dura resistenza, l'Autobianchi di Desio e la Lancia di Chivasso. Successivamente, insieme all'intera classe capitalistica, ha mandato avanti il governo Amato per far da rompighiaccio contro la forza organizzata dell'intero proletariato, per poterne poi attaccare meglio singole sezioni. Durante questa fase, con la vicenda Maserati, la FIAT ha sperimentato quanto sia difficile battere la resistenza degli operai di uno stabilimento quando la loro lotta si unisce a quella generale di tutta la classe contro padroni e governo. Lo scontro alla Maserati ha consigliato all'Avvocato maggiore prudenza: prima di dare il via al colpo finale, quello che ha appena iniziato a sferrare, bisognava aver indebolito il movimento di lotta generale e diviso e disarticolato la massa dei lavoratori FIAT. Vi ha contribuito, per quello che riguardava il suo gruppo, con una valanga di cassintegrazione, con l'accordo di Melfi, con l'introduzione del terzo turno a Mirafiori, con il lancio della Punto, con le voci sui tagli prossimi venturi. Infine ha confezionato il piano di ristrutturazione in modo da ostacolare una risposta generale e da approfondire le linee di frattura già scavate nella massa dei lavoratori FIAT: fra operai che rimangono in produzione (e che, rispetto a oggi, non avranno più il salario tagliato dalla cassintegrazione) e quelli messi in cassintegrazione a zero ore; fra gli operai degli stabilimenti destinati alla chiusura e quelli degli stabilimenti che continueranno ad avere un futuro produttivo.

Queste mosse hanno dato "concretezza" al ricatto che parallelamente l'azienda ha iniziato a fare ai lavoratori: "La FIAT ha un piano di rilancio; la "risposta" della Punto ne è una prova. Se una parte di voi accetta di essere sospesa a zero ore per qualche anno; se quelli che rimarranno in fabbrica si fanno carico delle esigenze di competitività e di efficienza dell'azienda, allora la maggior parte di voi non sarà licenziata e verrà garantita la futura solidità del posto di lavoro per tutti. Se non accettate questo piano l'azienda andrà a picco e spariranno anche i posti di lavoro che essa vuole ora conservare".

Per aumentare la corrosività di questo ricatto sull'organizzazione e sull'unità operaie, la FIAT non ha giocato solo in casa. Ha inglobato e costruito alcuni stabilimento all'estero: in Polonia, Turchia, Algeria. Con una sola fava, ha così preso due piccioni: da un lato ha messo le mani su una manodopera a basso costo; dall'altro si è dotata di un'arma, lo spettro della "delocalizzazione", per ricattare gli operai italiani e costringerli ad accettare tagli alla propria condizione e alla propria forza organizzata.

L'andamento dello sciopero generale del 28 ottobre nel gruppo FIAT ha mostrato che l'azienda, insieme al resto del padronato e al governo Ciampi, ha lavorato bene in questo senso: pur confermando le potenzialità emerse durante il movimento contro la manovra Amato, la fermata ha avuto vistosi buchi a Mirafiori e a Pomigliano, lasciando intravvedere un pericoloso isolamento di Arese e della Sevel. Se nel prosieguo dello scontro questo pericolo divenisse reale, a pagarne le spese non sarebbero solo gli operai di questi due stabilimenti insieme a quelli espulsi a Mirafiori e Rivalta, ma tutti gli operai. E quelli della FIAT in primo luogo: li renderebbe più deboli davanti ad un padrone che inevitabilmente, per ridurre i costi e aumentare la competitività, calerà altri colpi di maglio. "La competitività, come è noto, non basta mai, è un traguardo in continuo movimento": a parlare è Razelli, ex-amministratore delegato dell'Alfa-Lancia. Se lo dice lui...

Puntare sulle promesse dell'azienda e sulle proprietà miracolose del mercato significherebbe dunque aprir la strada ad una batosta ben più grave di quella del 1980.

La lotta del 1980

Malgrado la stupenda levata di scudi dei lavoratori di Mirafiori, tredici anni fa Agnelli vinse perchè la lotta operaia non superò due fondamentali "debolezze". Prima debolezza: la mobilitazione degli operai rimase isolata; ci furono, è vero, iniziative di solidarietà in altre parti del paese, ma il proletariato nel suo complesso non salì sul ring. Seconda debolezza: dopo 35 giorni di lotta, isolati, sotto il fuoco di tutto il fronte borghese, i lavoratori FIAT accettarono di ripiegare con la speranza che, ridotto l'organico, si sarebbe messa in grado l'azienda di agganciarsi alla ripresa economica pronosticata per gli anni successivi e, con ciò, di creare le condizioni per recuperare terreno sul salario e sull'occupazione.

L'esperienza ha mostrato che l'azienda si è risanata, si è agganciata alla ripresina degli anni '80 e ha mietuto profitti colossali. Per quanto riguarda gli operai, i tagli del 1980 hanno avuto come conseguenza un indebolimento politico generale pagato a caro prezzo sia nel 1984 (quando il governo Craxi tagliò i 4 punti di contingenza) che oggi, quando, giunti ad una nuova recessione, l'azienda si ripresenta con la scure dei tagli. Lo stesso responsabile per il lavoro del PDS, Angius, riconosce che oggi "la FIAT chiede a sindacati e lavoratori mano libera nella ristrutturazione del gruppo" dopo che "ha goduto nel decennio passato del più basso tasso di conflittualità negli ultimi 45 anni, ha agito in modo brutale contro i lavoratori e il sindacato al punto da cancellare, in alcune circostanze, il diritto dei cittadini aldilà dei cancelli delle sue fabbriche,...ha usufruito dell'aumento di produttività tra i più alti del mondo" (da "L'Unità" del 24.11.'93). Che tra l'una e le altre cose ci sia una relazione?

Seguire oggi la linea di difesa sperimentata nel 1980 avrebbe dei danni ancor più vasti e profondi: spianerebbe la strada ad una vera e propria balcanizzazione del proletariato, di fronte ad una classe capitalistica, Agnelli in testa, che, sotto la pressione di un 'economia sempre più ingolfata, cercherà di spremere sempre più a fondo i lavoratori.

In un settore della classe operaia FIAT (v. ad esempio la nota su Arese) è ben presente la volontà di non ripetere gli errori del 1980. Da un lato si avverte che la cassintegrazione a zero ore, oltre a dividere la forza operaia in fabbrica, non garantirà automaticamente il rientro nel 1996. Dall'altro lato ci si è convinti, anche grazie alle esperienze di lotta contro i licenziamenti condotte nel paese negli ultimi due anni, che la vertenza FIAT può trovare una soluzione positiva solo se viene inserita in una vertenza più generale, che si faccia carico delle condizioni complessive dell'economia del paese, finalmente sottratta al controllo di una "classe dirigente" corrotta e inefficiente.

Gli stessi vertici sindacali, che nel 1980 si batterono perchè gli operai accettassero le decine di migliaia di cassintegrazioni a zero ore in attesa della futura ripresa, non sono oggi disposti a discutere solo di ammortizzatori sociali, come vorrebbe l'azienda.

Il piano di difesa dei sindacati

I vertici sindacali chiedono che la FIAT, innanzitutto, vari e attui un "serio" piano di risanamento del gruppo. Per essi quello proposto dall'azienda non lo è. Per due motivi. Primo: non permetterebbe all'industria dell'auto italiana di prepararsi alla guerra che si combatterà nei prossimi anni, con conseguenze gravi sull'assetto dell'intero apparato produttivo italiano. Secondo: il piano FIAT "piccona" le condizioni e la combattività della classe operaia. Per evitare queste conseguenze, i vertici sindacali rivendicano un "vero" piano di risanamento industriale, all'interno di un "vero" piano di risanamento generale dell'economia del paese. Solo dopo un cedimento dell'azienda su questo punto sono disposti a discutere gli "esuberi" che si rendessero necessari, da gestire, però, con la mobilità lunga e, sopratutto, i contratti di solidarietà al posto della zero ore.

Con questo progetto i vertici sindacali cercano di attrezzare la FIAT a sostenere la guerra che sta infuriando sul mercato mondiale e, nello stesso tempo, di salvaguardare (nei limiti compatibili con questo scopo) l'occupazione e la forza operaia. I vertici riformisti, e -su un piano diverso- la stessa massa operaia, non concepiscono infatti la difesa del proletariato indipendentemente dallo stato di salute dell'economia capitalistica. Come Agnelli, essi si preoccupano di risanare il gruppo FIAT e di metterlo in grado di sopravvivere nella giungla della concorrenza internazionale. Nello stesso tempo vorrebbero evitare le conseguenza negative sulla classe operaia di questo risanamento, perchè si potrebbero creare le condizioni per un inasprimento dirompente dello scontro di classe: occorre "evitare traumi e tensioni sociali", ha detto su "l'Unità" dell'1.12.'93 Cofferati. Un progetto diverso dunque da quello padronale. Anzi, in contrasto con esso, tant'è che i vertici sindacali hanno chiamato i lavoratori a sostenere con la lotta le loro richieste. In contrasto perchè Agnelli non può accettare i livelli di tenuta dell'organizzazione operaia presupposti dal piano riformista, anche se inferiori agli attuali. Sono le leggi della concorrenza a imporre ciò ai dirigenti di corso Marconi. Non è un caso che la risposta del capo del personale del gruppo FIAT, Magnabosco, è stata: "non capisco le richieste del sindacato...Un altro piano industriale? Mi sembra difficile"(da "L'Unità" dell'1.12.'93).

Non per questo però il progetto sindacale rappresenta un efficace muro di difesa contro l'attacco padronale. Non per questo non è necessario ingaggiare una dura battaglia contro la sua logica di fondo, per mettere realmente in campo quel fronte di lotta generale richiesto da una partita che è, come riconoscono gli stessi vertici sindacali, generale.

Dal mercato solo guai per gli operai e la loro forza come classe

E' infatti possibile migliorare la competitività dell'azienda senza intaccare i livelli della forza operaia? E' possibile coniugare le due esigenze?

No. Non è possibile. Tant'è che lo stesso sindacato: 1) non contesta la necessità che ci siano degli "esuberi", 2) accetta, con il tampone dei contratti di solidarietà, una decurtazione del salario operaio per dar carburante al rilancio dell'azienda. E' vero che i contratti di solidarietà attutiscono la divisione prodotta dalla zero ore fra occupati e cassintegrati: ma la diminuzione del salario rappresenta un indebolimento della classe operaia, che spianerà la strada ad altri cedimenti e alla messa in discussione di quell'unità che si vorrebbe salvaguardare. Non sarebbe la prima volta.

Lo scorso anno padroni e governo dissero che il taglio della scala mobile era un sacrificio necessario per ridare competitività all'Azienda-Italia e garantire, con ciò, l'occupazione. Il taglio dei salari sancito dall'accordo del 31 luglio '92 ha invece aperto la strada al più duro attacco all'occupazione degli ultimi decenni. Ma non solo: imbaldanzito dalla sottomissione sindacale ai diktat padronali e governativi, all'indomani del 31 luglio il governo Amato prese a schiaffi in faccia i sindacati (anche quelli più moderati) e tagliò a colpi di decreti-legge sanità e pensioni. Dove porterebbe, oggi, un nuovo cedimento alle esigenze della competitività, oggi che la borghesia si prepara a varare "istituzioni" capaci di fare sistematicamente e in profondità quello che ha solo provato a fare il governo Amato?

I vertici sindacali respingono l'impostazione della FIAT perchè si rendono conto che essa disarticolerebbe la classe operaia (non solo della FIAT): per questo da un lato non accettano di discutere solo e semplicemente di ammortizzatori sociali, dall'altro cercano di portare la vertenza su un piano politico generale per raccogliere una maggiore capacità di contrattazione contro l'azienda.

A tal fine chiedono che essa discuta un vero piano di risanamento industriale e che il governo si faccia promotore e garante di questo progetto. Con queste richieste, però, essi distruggono la tela potenzialmente unitaria che il rifiuto della impostazione padronale potrebbe costituire per la risposta della classe operaia. Riconducono la lotta dei lavoratori verso le stesse debolezze di fondo, che pure si diceva di voler evitare, del 1980. Per diversi motivi.

In primo luogo. Come si fa a vedere nel governo il garante di una gestione "progressista" della vertenza? Lo sciopero generale del 28 ottobre non è stato proclamato dai vertici sindacali contro la "latitanza" di Ciampi sul terreno della difesa dell'occupazione? E i nuovi emendamenti alla Finanziaria hanno forse cambiato qualcosa di sostanziale? Il fatto che la posta in gioco nella vertenza FIAT sia generale deve avere come conseguenza lo schierare in campo, unite, tutte le forze della classe operaia contro i piani di Agnelli e contro quelli di tutto il fronte borghese, governo incluso.

In secondo luogo. Se si lega la difesa dei posti di lavoro e della organizzazione operaia alla prospettiva del rilancio dell'azienda, pur anche all'interno di un piano di rinascita dell'intera economia nazionale; se, come si legge in un volantino distribuito ad Arese, si áncora questa difesa agli obiettivi di "restare sul mercato" e di "riconquistare quote di mercato": se si impernia, difatto, la battaglia operaia sullo stesso presupposto dell'azienda, è inevitabile che si debba arrivare a tagliare salari e forza operaia. E' inevitabile cioè mettere in discussione quegli stessi pilastri che i vertici sindacali hanno dichiarato intangibili (l'unità dei lavoratori del gruppo e il mantenimento degli stabilimenti di Arese e della Sevel). Non solo perchè, nella crisi capitalistica, il fattore che deve essere alla fin fine spremuto per aumentare la competitività di una azienda è la forza-lavoro; da questo punto di vista ha ragione Magnabosco quando dice che quello della FIAT è il migliore piano di risanamento concepibile. Ma anche perchè l'impostazione dei vertici sindacali mina la possibilità di costruire quel fronte di classe, non semplicemente nazionale, che solo avrebbe la forza di sbarrare la strada all'attacco padronale e, al limite, di "moderare i danni", come vorrebbero "realisticamente" i vertici sindacali per non turbare il risanamento dell'economia nazionale. Mina quell'elemento di forza che lo stesso sindacato è consapevole di dover, contraddittoriamente, chiamare in campo per costringere la FIAT a modificare l'impostazione con cui vorrebbe condurre la vertenza. Così, se da un lato i vertici sindacali hanno proclamato per il 10 dicembre lo sciopero generale di 8 ore nel gruppo insieme a quello delle altre fabbriche metalmeccaniche in crisi, dall'altro lato articolano lo sciopero per regioni, indicono due manifestazioni (una a Roma e l'altra a Torino), evitano di far confluire la massa operaia in un momento di lotta centralizzato, tracheggiano nel chiamare in campo anche gli operai delle fabbriche non in crisi e nell'unificare la lotta dei metalmeccanici con quella delle restanti categorie, che, dai tessili agli edili ai chimici, sono in campo, sul terreno immediato, contro lo stesso attacco occupazionale.

E' vero che, come ha dimostrato lo stesso sciopero generale del 28 ottobre, c'è una reale difficoltà a far scendere in campo la massa operaia non investita direttamente dai licenziamenti, difficoltà confermata in pieno dall'andamento nel gruppo FIAT dello sciopero del 10 dicembre. Ma non è altrettanto vero che ciò è anche il risultato, oltre che della crisi capitalistica e dell'offensiva borghese, di una politica sindacale che non ha mai sganciato la difesa degli interessi operai da quella della competitività delle aziende? Non è stata l'accettazione degli accordi a perdere su Desio, su Chivasso, su Melfi e sull'introduzione del turno di notte a Mirafiori a lasciar via libera alla strategia FIAT di logoramento e di divisione della forza operaia? Non è stata l'accettazione di questi accordi a rafforzare tra i lavoratori l'illusione di un rilancio futuro dell'azienda al quale sacrificare oggi condizioni di lavoro e forza contrattuale? E' inevitabile allora che entro il quadro difensivo predisposto dai vertici sindacali e, in conseguenza di ciò, con un fronte di battaglia che non mostra di avere la forza per contrastare i disegni aziendali, possano prendere piede tra gli operai spinte concorrenziali e localistiche, per salvare il patrimonio industriale di Torino in alternativa a quello di Milano e del Mezzogiorno o viceversa...E allora, non è altrettanto vero che l'unico modo per scuotere la paura e le illusioni degli operai non ancora investiti dai licenziamenti è quello di chiamare in campo l'intero fronte proletario e di cominciare a dare battaglia in seno al movimento sindacale per cacciare questa politica delle compatibilità che tanti danni ha provocato per la classe operaia? Questa è la lezione che deve essere tratta dalla giornata di lotta del 10 dicembre e non la sfiducia sull'impossibilità di ribaltare i rapporti di forza con il padronato!

In terzo luogo. La politica sindacale affossa quell'unificazione tra gli operai delle varie case automobilistiche che è un passo fondamentale per la costruzione di un'efficace diga contro la piena dei licenziamenti. Difendere i posti di lavoro attraverso la "penetrazione aggressiva nei mercati esteri" porterebbe a mettere in concorrenza gli operai FIAT con gli operai degli altri paesi. "O accettate tagli all'occupazione e aumenti dello sfruttamento per chi rimane in fabbrica o, nella competizione internazionale, periremo tutti quanti": non è lo stesso aut-aut cui sono sottoposti i lavoratori della VW, della Renault, della Ford, ecc.? Cosa succederà se gli operai delle varie aziende cederanno a questo ricatto? Che si lasceranno incatenare, gli uni contro gli altri, in un inferno senza fondo: lo sfruttamento, le divisioni, la precarietà cui gli operai di un'impresa si saranno lasciati sottoporre saranno sempre insufficienti per rendere adeguatamente competitiva la propria azienda su un mercato mondiale che non concoscerà più il merviglioso boom del dopoguerra! Questo porterebbe gli operai dei vari paesi a mettersi in guerra, gli uni contro gli altri, dietro ai rispettivi padroni. Guerra per ora commerciale, in seguito...

La logica che ispira la politica dei vertici di FIOM-FIM-UILM è condivisa, al fondo, anche dall'opposizione sindacale, dentro e fuori la CGIL: anche laddove essa si spinge a proporre obiettivi più "forti", ad esempio le 35 ore a parità di salario, non rimette in discussione il rispetto delle compatibilità della nazione, che è il problema chiave per impostare dal punto di vista di classe la difesa dell'occupazione e del salario: tant'è che, "realisticamente", accettano i contratti di solidarietà come primo passo verso il traguardo "massimalista", scambiando così il percorso reale della classe operaia con una successione graduale di obiettivi via via meno "realistici".

Una difesa di classe contro i licenziamenti alla FIAT

Che lo vogliano o no, che ne siano consapevoli o meno, i lavoratori della FIAT si trovano davanti a un bivio.

O rispondono come classe, mettendo al centro la difesa intransigente di tutti i posti di lavoro e cominciando a stabilire i primi collegamenti di lotta a livello internazionale.

O cedono ai ricatti dell'azienda, mettendosi su una strada lastricata di crescenti sacrifici, di sudore e di...sangue.

La posta in gioco nella vertenza FIAT non è costituita semplicemente da migliaia di licenziamenti, ma dalla realizzazione o meno della cannibalizzazione della classe operaia, che Agnelli persegue, insieme a tutta la classe capitalistica, anche con la ristrutturazione dell'apparato dello Stato, oltre che sul terreno immediato.

E allora: a partire dalla mobilitazione contro i tagli occupazionali occorre lavorare a cementare la forza degli operai come classe, la loro organizzazione unitaria e centralizzata, senza preoccuparsi della salute dell'economia aziendale e nazionale. La difesa dell'occupazione sarà un risultato derivato di questa mobilitazione. La stessa "limitazione dei danni" si potrà realizzare nella misura in cui imposteremo la nostra battaglia in un modo che potrebbe sembrare "irrealistico" . Questa è la lezione che dobbiamo trarre dalle vertenze della Maserati da un lato e dell'Alenia e dell'Enichem di Crotone dall'altro. Qui gli operai non sono riusciti a bloccare i licenziamenti, perchè la loro lotta, per quanto splendidamente condotta, non ha trovato respiro e sostegno in quella di tutta la classe. Là invece la FIAT ha dovuto firmare un accordo che prevedeva il mantenimento in attività dei lavoratori della Maserati nella stessa area della fabbrica, perchè costretta da un movimento generale, quello contro il governo Amato, in cui era confluita e si svolgeva la lotta dei lavoratori della Maserati.

La disponibilità alla lotta manifestata dagli operai della FIAT deve essere un punto di partenza per spingere in questa prospettiva. C'è ancora un'enorme riserva di forza a cui come classe possiamo attingere e che dobbiamo mettere in campo.

A partire da quei lavoratori del gruppo che l'azienda cerca di contrapporrre agli operai sbattuti fuori: le maestranze di Torino, Arese e Pomigliano all'oggi non toccate dai tagli, ma sin da oggi sottoposte ad un incremento dello sfruttamento; i lavoratori di Melfi; quelli degli stabilimenti esteri della FIAT.

Anche gli operai che lavorano alle linee dei modelli non silurati dal mercato mondiale hanno interesse a battersi contro un'espulsione, che indebolirebbe e dividerebbe la classe operaia, con la conseguenza di rendere i lavoratori rimasti in fabbrica più esposti alle catene che l'azienda cercherà inevitabilmente di imporre.

"Un salario inferiore di quello di Torino e di quello di Cassino? Ho l'impressione che si stiano approfittando più del dovuto del fatto che sono venuti al sud. Ma appena la fabbrica funzionerà a pieno regime, vedrai, partiranno gli scioperi come altrove". Così risponde al cronista dell'Unità uno degli operai che già lavora alla FIAT di San Nicola di Melfi. I lavoratori di questo stabilimento possono essere usati come arma di ricatto contro gli operai degli altri stabilimenti, come in parte è già avvenuto, solo se questi ultimi non sono in grado di raccogliere l'indisponibiltà, già manifestata, degli operai del futuro stabilimento a farsi spremere come limoni; solo se non lavorano per unire e mettere in campo nel proprio fronte di battaglia le energie proletarie di Melfi e di Pratola Serra; solo se non assumono nella propria vertenza il rifiuto delle condizioni differenziali, anche nell'organizzazione sindacale, imposte dall'azienda nei nuovi stabilimenti.

Considerazioni analoghe valgono a proposito degli operai degli stabilimenti esteri della FIAT. Nell'estate del 1992 gli operai dello stabilimento di Tichy in Polonia hanno bloccato per 55 (!) giorni la produzione della nuova Cinquecento per rivendicare aumenti salariali e nuove assunzioni. Il governo polacco, e dietro di esso la FIAT, è alla fine receduto dalla sua intransigenza: il salario mensile è passato da 300 a 400mila lire italiane e sono stati assunti 650 nuovi dipendenti. E allora: o ci battiamo per saldare questo immenso potenziale alla nostra lotta e per contrastare la politica con cui l'Italia cerca di deprezzare il costo della forza lavoro di questi paesi oppure sarà Agnelli e l'intero fronte padronale a usare contro di noi questa riserva di forza-lavoro.

Quest'azione di unificazione delle forze operaie del gruppo deve correre parallela a quella per saldarle con la mobilitazione, sempre più centralizzata, dell'intera classe operaia. Come si può, tanto per fare un esempio, mantenere separata la lotta dei lavoratori della FIAT e dei metalmeccanici dalle lotte che contemporaneamente sono condotte dai chimici, dagli edili, dai tessili? Come è possibile procedere ogni categoria per sé, quando i padroni, anche sul terreno sindacale, procedono a livelli sempre maggiori di centralizzazione delle organizzazioni delle varie categorie? Se lo scontro alla FIAT ha una portata generale perchè non si lavora per far salire sul ring l'intero proletariato? E' o no il momento di scongelare la manifestazione nazionale in difesa dell'occupazione, inizialmente prevista dai vertici sindacali per il 6 novembre?

"Se questo sciopero non riuscirà a sbloccare la situazione, a gennaio saremo di nuovo in piazza, ma con tutta la categoria": così Vigevani ha concluso il 10 dicembre il suo comizio davanti a 20mila tute blu. I lavoratori devono prendere sul serio la necessità di preparare come si deve questa nuova scadenza, per evitare che, in mancanza di una mobilitazione generale e centralizzata, si possa momentaneamente aprire la strada al "si salvi chi può", allo "spintonamento" tra stabilimenti e tra categorie per chi deve trovar posto sulla "ciambella di salvataggio".

La crisi del settore dell'auto è un aspetto della più generale crisi del sistema capitalistico. Per la FIAT lo scontro sui licenziamenti è un'occasione per attrezzarsi a dare a questa crisi l'unica soluzione che la borghesia conosce: la distruzione generalizzata delle forze produttive da essa stessa evocate e, prima fra tutte, del proletariato. Che anche per la classe operaia questo scontro diventi un momento per riorganizzarsi e per attrezzarsi a dare allo stesso impasse storico la sua soluzione: l'abbattimento violento del capitalismo.