Quale autunno?


Come sarà l'autunno operaio di quest'anno?

Freddo, si augurano (e si adoperano perché così sia) i borghesi. Per essi è imperativo andare ancora più a fondo nell'attacco al lavoro salariato ed alla forza contrattuale e politica degli operai, perché solo da un'ulteriore erosione del salario il capitale può trarre un altro soffio di vita che valga a promuoverne la valorizzazione e, per passare vittorioso, quest'attacco esige una sostanziale freddezza nella risposta operaia.

Qualcosa lascia ben sperare ai borghesi: in questi ultimi anni, gli operai hanno trangugiato dei rospi via via più amari senza reagire in maniera apprezzabile, anzi facendo cadere a livelli minimi la conflittualità dispiegata così come quella sotterranea (assenteismo, autoriduzione dei ritmi, sabotaggio...). Le organizzazioni riformiste, d'altro canto, si sono fatte complici della manovra antioperaia, quando non se ne sono assunte esse stesse le bandiere sotto il nome dei "necessari sacrifici", delle "necessarie ristrutturazioni", dei "necessari tagli ai rami secchi", e solo in parte, tardivamente ed in modo del tutto inefficace, hanno abbozzato una trincea arretratissima di difesa che di fatto dava già per scontata la sconfitta del movimento di classe e la legittimità di questa sconfitta (come s'è visto nella vicenda del referendum indetto dal PCI e da esso "sostenuto" sul puro terreno interclassista e parlamentaristico, senz’alcun reale programma di risposta operaia complessiva).

Di fronte allo scontro di classe dichiarato senza mezzi termini dalla borghesia contro di essi, gli operai sono rimasti disorientati ed hanno visto le loro fila scompaginarsi, non solo e non tanto per la forza dell'avversario, ma anche e soprattutto per l'azione disgregante condotta all'interno del movimento operaio dal riformismo.

Perché non supporre, allora, che questa manovra possa andare ulteriormente avanti, permettendo alla borghesia di conquistarsi altri spazi, economici e politici, a danno della classe operaia?

Un autunno tiepido, con temperatura costantemente sotto controllo. Questo è quello che vogliono i più "agguerriti" tra i riformisti. Oltre certi limiti, essi lo sanno bene, la borghesia non può andare senza scatenare, primo o poi, delle repliche di parte operaia (pericolose — hainoi! — per la pace sociale). Ma il limite che essi si pongono è molto elastico. Così, con una perfetta quadratura del cerchio, vorrebbero assecondare le esigenze di fondo del capitale in crisi (produttività, competitività, profitti crescenti...), senza ridurre drasticamente, però, il peso e la forza contrattuale della classe operaia, senza provocare conflitti eccessivi tra capitale e lavoro salariato; e ciò dovrebbe permettere al riformismo di ridisegnare un "nuovo patto sociale" e "normali relazioni sociali", riassociando i "produttori" (padroni e schiavi). Sfruttatori, sfruttati e sensali tutti felicemente uniti. Se quest'autunno e le stagioni successive...

Che sia questo l'autunno operaio che ci aspetta?

Persino tra i "rivoluzionari" non sono pochi quelli che prevedono, sgomenti, un tale scenario e si ritraggono, dinanzi a questa sconsolante prospettiva, a meditare se e dove tutto sia stato sbagliato nei loro precedenti programmi di "potere operaio" e "comunismo tutto e subito"; se e dove sia eventualmente possibile individuare soggetti alternativi da appoggiare, o su cui appoggiarsi, per rilanciare la lotta "alternativa" abbandonata dalla massa operaia.

Le sirene dell'ideologia e della propaganda borghesi hanno incantato questi "rivoluzionari". Non sarà forse, essi si chiedono, che il capitalismo attuale può mettere in atto delle controtendenze alla crisi economica, sociale e politica neutralizzando, ingabbiando o integrando addirittura lo stesso "obsoleto" soggetto operaio classico? E non occorrerà, allora, ricorrere ad altri punti di vista per cambiare l'esistente?

Noi non siamo di quelli che cianciano di una classe operaia sempre all'offensiva e tanto meno ci appoggiamo a questa illusione per prospettare la soluzione comunista rivoluzionaria che ci contraddistingue. Meno ancora vincoliamo il nostro impegno nella e verso la classe ad una sorta di imperativo morale.

No! Con Marx e con le riprove che la realtà concreta apporta al marxismo, più che mai possiamo dire che il capitalismo attuale può mettere in atto (come di fatto fa) tutte le "controtendenze" possibili ed immaginabili, senza per altro poter rigenerarsi né scongiurare (anzi: affrettando parossisticamente) l'esplodere delle due tendenze fondamentali che gli saranno fatali: l'aggravarsi catastrofico delle contraddizioni intrinseche al suo essere e procedere anarchico e l'emergere del soggetto storico antagonista, il proletariato, al suo ruolo di esecutore della sua condanna a morte.

Sappiamo (e l’abbiamo tante volte ripetuto contro i faciloni) che la classe operaia ha subito dei duri colpi, rimettersi dai quali comporterà dure difficoltà, di non breve periodo. Ma sappiamo anche, altrettanto per certo, che la crisi attuale scava in profondità e va verso una sempre più netta polarizzazione della società ai suoi due opposti estremi, lavoro salariato e capitale. Il proletariato, ben lungi dall'aderire attivamente o, peggio, integrarsi al sistema borghese ed ai relativi piani, è oggettivamente (prima ancora che soggettivamente) posto contro di essi. È anche vero che le batoste di questi anni hanno minato non solo la volontà e la capacità di lotta dei proletari, ma la stessa composizione del fronte proletario (in termini di compattezza). Nessuno, però, tra i borghesi osa illudersi che ciò significhi aver chiusa la partita. La classe operaia manca di una sua direzione, a misura che il riformismo continua ad esercitare la sua egemonia su di essa, ma già ripaga di un odio smisurato il nemico che quotidianamente la bastona e l'umilia.

Il problema non è (lo sanno perfettamente i borghesi mentre lo ignorano i "rivoluzionari" fasulli) se quest'odio esploderà in aperta guerra di classe, ma quando ed in quali condizioni per lo svolgimento dello scontro. Il nostro problema, il problema dei comunisti, è far si che il proletariato possa andare alle battaglie che lo aspettano non in ordine sparso, non attraverso fiammate settoriali inconcludenti, ma disciplinato attorno ad un suo programma, dotato di una sua organizzazione.

Rispetto ai primi anni della crisi l'epicentro dell'attacco capitalistico e dei sismi sociali e politici che ne deriveranno si è decisamente spostato in direzione del cuore del proletariato industriale. È del tutto conseguente, perciò, che, non solo per le fondamentali ragioni "strategiche" ma anche per contrastare l'offensiva attuale, i rivoluzionari rafforzino il proprio intervento in direzione della parte centrale del proletariato.

Forze sparse e singoli sempre alla ricerca di risultati istantanei, altrimenti è meglio andare a dormire (nelle braccia della democrazia...), preferiscono, invece, mettersi alla ricerca di soggetti sociali più disponibili alla lotta degli operai, che a loro dire sarebbero intorpiditi, integrati o addirittura morti e sepolti. Ora, è vero che la parte centrale del proletariato è più lenta e, se vogliamo, persino più "conservatrice" di quella periferica. Ma nel senso che essa non indulge a improvvisazioni, bada a conservare e potenziare la propria compattezza, tende a ragionare e muoversi come un esercito disciplinato. Proprio perché essa si trova da sempre in rapporto stretto con il riformismo, essa deve predisporsi — prima di un attacco decisivo — un suo stato maggiore, un suo programma complessivo, una sua organizzazione di guerra (e non di isolate scaramucce). Ne è una spia il travaglio che sta squassando la vita, un tempo tranquilla, delle organizzazioni sindacali e riformiste, con un proletariato attento e partecipe. E sarà proprio dall'esplodere incrociato delle contraddizioni tra capitale e classe, e tra riformismo e masse (nonché delle stesse contraddizioni interne al riformismo), che si creeranno le condizioni di una decisiva ripresa, costituendo ciò la condizione prima per delle grandi battaglie e per il loro evolvere (come ha dimostrato da ultimo la splendida lotta dei minatori inglesi).

Sotto l'apparente calma, nel momento in cui tutti i nodi vengono al pettine, nel momento in cui ogni lotta immediata comporta prospettive e soluzioni politiche per essere ingaggiata e vinta, nel momento in cui — di fronte a ciò — l'armamentario riformista classico è già in crisi, dobbiamo sapere e vedere che la classe operaia si sta molecolarmente riorganizzando. Dobbiamo sapere e vedere che dietro ogni singola fiammata così come dietro il complesso travaglio politico che la percorre (e che sarebbe idiota intendere come "unicamente interno alla logica riformista") maturano in profondità le condizioni della ripresa.

Ad essa noi siamo tenuti a portare il nostro apporto (ne parliamo nel dossier di questo numero).

Lavoriamo in questa prospettiva senza esigere rendiconti immediati degli utili, nella coscienza degli scenari decisivi che si vanno preparando, in Italia come in tutto il mondo, e di cui abbiamo già sotto gli occhi ottime anticipazioni. Solo chi non riesce ad avere questa certezza può vanamente interrogarsi sulla temperatura che farà questo autunno per regolare su di essa il proprio abbigliamento. Capiterà ad essi quanto è successo a chi, alla vigilia degli sconvolgimenti che hanno squassato Polonia ed Inghilterra, si stracciavano le vesti dichiarando che lì l’ambiente era freddo, che non sarebbe successo niente, che bisognava darsi a ricerche di "nuovi soggetti alternativi" per uscire dalla morta gora sociale…