GERMANIA:
IL PROLETARIATO RIPIEGA, LA BORGHESIA INCASSA.

La prova di forza , preannunciata e ben predisposta, del capitale tedesco contro il proprio proletariato ha segnato in questa primavera ’94 un arretramento generale del fronte di classe. Sotto il pungolo della concorrenza, questo ripiegamento del bastione centrale del proletariato europeo non tarderà a ripercuotersi sugli altri reparti della classe operaia metropolitana, chiamata a misurarsi con padroni ancor più famelici.

Alla fine di marzo i lavoratori siderurgici chiudevano lo scontro per i rinnovi contrattuali dopo gli operai chimici, i metalmeccanici ed i dipendenti pubblici, accettando una sostanziale riduzione del salario reale e la flessibilità degli orari di lavoro in cambio del non ricorso per due anni da parte del padronato a licenziamenti di massa ed alla gestione da parte delle strutture sindacali aziendali delle situazioni di crisi. Senza far ricorso allo sciopero generale -come garantito da un sindacato impegnato a "governare la crisi" contenendone l’impatto sulle condizioni di vita dei salariati-, i possenti "scioperi di avvertimento", soprattutto dei metalmeccanici, sono stati utilizzati per indurre il padronato a non tirar troppo la corda ed a recedere dalle sue iniziali, provocatorie richieste (gli industriali metalmeccanici chiedevano una riduzione del 10% del costo del lavoro!). La "stabilità del paese" sarebbe stata messa a repentaglio se l’enorme forza della classe operaia tedesca fosse stata gettata in campo in una lotta generale, difficile poi da gestire ed organizzare -una volta avviata- dal sindacato stesso.

La linea di difesa sindacale ("cogestione della crisi", potremmo definirla), coerente e responsabile rispetto alle sorti della "nostra economia", del "nostro paese" -da cui vengono fatte dipendere le sorti dei lavoratori-, ha condotto ad accettare un peggioramento netto delle condizioni di vita e di lavoro, ricalcando in peggio l’accordo Volkswagen, ed ha inoltre concesso al padronato di piazzare un pericoloso cuneo nella struttura dell’organizzazione e della capacità di lotta unitarie della classe, parcellizzando la "gestione delle crisi" azienda per azienda, gruppo per gruppo, scavalcando di fatto la rigidità del contratto collettivo. (Temi da "gestire": le riduzioni del personale e la gestione degli orari, che potranno andare dalle 30 ore -senza compensazione salariale- alle 40 ed oltre settimanali, a seconda delle esigenze di mercato. Il governo, in aggiunta, subito dopo la chiusura dei contratti, ha varato la possibilità di arrivare sino a 60 ore settimanali quando occorra!)

Così, per paura di scatenare la lotta, si immobilizza la classe, la si disarma in partenza di fronte ad una borghesia più che mai agguerrita e che non avrà scrupoli, quando sarà giunto il momento di farlo, di liquidare senza troppe remissioni i burocrati sindacali con essa in combutta. Una vecchia storia, un classico del riformismo, in barba al fiume di discorsi sulle necessità di "politiche nuove", di "gestioni intelligenti (e solidaristiche) della crisi" etc. etc.

A commento del contratto nella siderurgia, il padronato ha tratto il seguente lapidario -e lusinghiero, per esso- bilancio: "E’ l’inizio di un nuovo stile di trattativa, decreta la sepoltura di rituali di lotta di classe ormai vecchi, inutilizzabili e controproducenti. Forse si potrebbe anche arrivare a dire che sta per nascere un nuovo tipo di lavoratore dipendente in Germania, senza la mentalità di dover aumentare ogni anno il suo potere d’acquisto, costi quel che costi" ("Il Sole/24 Ore", 24 marzo).

Dobbiamo ammettere che questo secco bilancio fotografa esattamente lo stato delle cose. La "mentalità nuova" auspicata da tempo dal padronato è stata prontamente acquisita dall’organizzazione sindacale. Come abbiamo illustrato in precedenza -vedi il n. 29 di questo giornale-, il sindacato tedesco, misurata la crisi del meccanismo capitalistico già dal ’93, aveva annunciato il "cambio di strategia" (rinunzia agli aumenti salariali per dare la priorità alla difesa dell’occupazione con la partecipazione delle strutture sindacali alla gestione delle aree di crisi: esempio pilota quello della Volkswagen), adeguandosi quindi immediatamente alle necessità capitalistiche quale premessa di vantaggi per i lavoratori (e, da questo punto di vista, è esatto concludere che una decisa lotta di classe per i propri interessi immediati, senza calcoli di "compatibilità" capitalistiche, risulta "controproducente" in quanto compromette il "comune" banchetto...).

La linea riformista, mentre chiama alla lotta ed alla mobilitazione per difendere la propria struttura compartecipativa e per limitare i danni della crisi sul proletariato nazionale, nel concreto dà oggettivamente il via libero alla guerra di classe borghese contro la nostra classe. Per chiarire, sentite il tenore della critica svolta dall’IGM -il più forte sindacato del mondo- al governo ed alla Bundesbank "dal punto di vista operaio": "Altri paesi come la Francia o la Gran Bretagna hanno favorito la loro economia svalutando la moneta. Questo crea agli imprenditori dei vantaggi competitivi poiché le loro merci diventano all’estero più convenienti. La valutazione del marco invece è troppo alta e di conseguenza i prodotti tedeschi sono all’estero inutilmente cari. Questo nonostante negli ultimi anni i costi salariali per unità di prodotto siano aumentati mediocremente". (IGM Notizie, n° 2 del ’94). Incardinata su questa base social-imperialista, tutta la rimanente agitazione riformista di facciata sulla "solidarietà fra i popoli, fra i lavoratori", sulla "pacifica convivenza", si risolve in puro fumo: nei fatti i proletari sono incatenati più che mai alle loro galere "nazionali" ed aziendali e sospinti ad una concorrenza reciproca sempre più sfrenata.

Ad un’ulteriore considerazione occorre richiamare. Seccamente. Ed è che la "nuova mentalità" del periodo di crisi invocata dalla borghesia, ed assecondata dal riformismo, trova un’eco -certo rassegnata, non entusiasta- nella massa proletaria. Una massa educata nella testa e soprattutto, per così dire, nella pancia, da decenni di capitalismo affluente, di acquisizioni "progressive" (non gratuite, certo) e, conseguentemente, da una corrispettiva, incontrastata leadership riformista nella classe, a raffigurarsi come obiettivi un "giusto stato sociale", una "società equa". Duro sbarazzarsi d’un colpo di queste abitudini. Il passato grava sul presente e il futuro. Eppure...

L’arretramento subìto dalla classe operaia tedesca si è reso possibile grazie alla fiducia nella prospettiva che "provvisori" sacrifici possano portare ad una rapida ripresa. Ma il corso della crisi capitalistica richiederà ben altro che un anno o due di "gestione intelligente" di licenziamenti e tagli al salario. La classe operaia tedesca dovrà provare che ad ogni concessione fatta non segue una possibile ripresa per essa, ma solo un rafforzamento del nemico di classe. Perciò diciamo: le "tradizioni" del passato possono mistificare sino ad un certo punto la realtà presente e futura, ma non potranno indefinitamente imbrigliarla e sviarla.

L’arretramento attuale era, in un certo senso, già preventivato e scritto da parte nostra. Il vero pericolo, però, non consiste nella perdita di qualche punto salariale, ma nella eventualità che alla logica padronale recepita dal riformismo consegua uno sfrangiamento della compattezza dell’esercito unitario del proletariato tedesco. Se, all’opposto, quest’ultimo -pur illudendosi e correndo dietro a "compatibilità" e "meno peggio"- saprà mantenersi unito nella difensiva (od anche nella parziale ritirata), si preparerà un interessante "secondo tempo". I rituali della lotta di classe stanno finendo; si passa alle cose serie, a lotte decisive. Arrivarci a ranghi compatti e non a sparsi drappelli, questo il nodo essenziale, a sciogliere positivamente il quale non può essere che una ripresa di dibattito e lotte politiche in seno al proletariato stesso.